OGGETTO: Israele non ama le colombe
DATA: 24 Settembre 2024
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Letture
Con l'obiettivo di "mettere in discussione una serie di luoghi comuni", Arturo Marzano ha recentemente pubblicato "Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina" (Laterza, Roma-Bari, 2024). È vero che gli israeliani sono passati dall'essere vittime a carnefici? È accettabile considerare che arabi e palestinesi «non hanno mai perso l’opportunità di perdere un’opportunità»? E che non vogliano altro che la distruzione del nemico? Uno studio attuale e fondamentale, ma che pecca di un'impostazione tendenziosa, per non dire esageratamente partigiana.
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Da quando Israele ha posto in essere un’offensiva senza precedenti contro Hamas – in corrispondenza delle crudeltà gratuite perpetrate da tale formazione terroristica a danno degli ebrei abitanti le zone adiacenti il confine meridionale della Striscia di Gaza il 7 ottobre 2023 – e, a un certo punto, anche contro tutte le formazioni terroristiche supportate da Iran e Yemen (Hezbollah e Houthi), con la prima solidali e interattive, che continuamente pressavano sul proprio perimetro territoriale, mettendo a repentaglio la vita dei suoi cittadini, il mondo accademico e intellettuale di gran parte degli Stati occidentali ha deciso di trasformare radicalmente l’immagine pubblica dello Stato ebraico, per non dire proprio di voltargli spocchiosamente le spalle. In pratica, dal momento in cui Israele ha dismesso gli abiti dell’agnello sacrificale, della vittima per eccellenza e antonomasia, e si è presentato come configurazione statuale indipendente, autonoma, e perciò stesso, capace di difendersi da attacchi indiscriminati e su ogni fronte, per di più a carattere terroristico e quindi irregolari, ha smesso di ricevere il supporto morale e il sostegno ideale da parte di quei personaggi della sfera culturale e universitaria europea e non, che probabilmente erano avvezzi ormai a parlare degli ebrei solo in senso antropologicamente religioso o in senso etnicamente vittimistico, come protagonisti in negativo della tragedia trans-secolare della diaspora e come attori principali ‘passivi’ del dramma irripetibile dell’Olocausto attuato dai nazisti.

Assodata, di conseguenza, da qualche tempo a questa parte – anche grazie all’aiuto interno fornito dai cosiddetti ‘nuovi storici di Israele’ – la sua rappresentazione come aggressore selvaggio, colonizzatore incontentabile, dominatore feroce e guerrafondaio incallito, all’appello mancava anche la sua descrizione come storicamente refrattario alla pace. A questo ha pensato debitamente il professore associato di Storia e istituzioni dell’Asia all’Università di Pisa, Arturo Marzano, già noto per i suoi studi sulla pluralità storica e ideologica dei sionismi, sul coinvolgimento della religioni nei conflitti mediorientali e sulle peculiarità delle tensioni israelo-palestinesi, oltre che per il suo impegno come volontario nelle terre palestinesi, dove sostiene di aver maturato nel corso del tempo un particolare affetto per il popolo che le abita e per le ragioni che sostengono le istanze di questo all’esistenza collettiva.

Nell’ultima sua fatica editoriale, dal titolo Questa terra è nostra da sempre. Israele e Palestina (Laterza, Roma-Bari 2024), infatti, lo studioso pisano – meritevole, indubbiamente, di volere mantenere una posizione il più possibile ‘neutrale’ e ‘imparziale’, propria del profilo di uno ‘scienziato’ onesto e di un’analisi ‘oggettiva’ –, dopo aver dichiarato di ritiene opportuno, giustamente, di rifuggire dalla logica da ‘tifoseria’, capace di ingenerare contrapposizioni senza misura e ragione, non solo, in nome di tale postura indagativa, non perde tempo a equiparare le violenze di Hamas del 7 ottobre sulle famiglie ebree alla ‘barbarie’ degli israeliani nei confronti dei palestinesi della Striscia a partire da quella data in avanti, definendole entrambe indifferentemente ‘crimini di guerra e crimini contro l’umanità’, ma, volendo elaborare una decostruzione delle narrazioni e delle mitologie più diffuse basata sulla storia/realtà fattuale, che sembra solo lui detenere nonostante affermi il contrario e si imponga una direttrice aperturistica, opta, in una parte del suo complesso lavoro scritturale (Gli arabi e i palestinesi «non hanno mai perso l’opportunità di perdere un’opportunità»), di smontare, tra le tante che prende in esame, l’idea, per lui storicamente infondata, della frequenza irragionevole con cui i capi palestinesi e le autorità dei Paesi arabi avrebbero rifiutato e rimandato al mittente ebreo offerte di pace al contrario appetibili e sottoscrivibili per chiunque si fosse trovato al loro posto e con un interlocutore come Israele. Per Marzano, dunque, non già i palestinesi e gli Stati arabi a loro sostegno si sarebbero comportati come contraenti irriconoscenti e isterici, ma gli israeliani avrebbero sempre evitato di confezionare piani di pace idonei tanto a raccogliere la sostanza minima delle richieste della parte avversaria quanto a presentare soluzioni territoriali acquisitive e/o sottrattive sopportabili e digeribili dai propri nemici. Per asserire tale posizione, in modo sistematico l’accademico pisano, collocata la frase, che dà il titolo al capitolo qui esaminato, nel suo habitat storico-documentale corretto, parte, innanzitutto, dal picconamento della reputazione politica e storico-diplomatica dell’ebreo, Abba Eban, che ha coniato l’espressione ‘mitologica’, tutta da rivedere, incarnante il senso del ‘pregiudizio’ di stampo diplomatico anti-palestinese e anti-arabo, ovverossia – lo si ripete –  che essi «non hanno mai perso l’opportunità di perdere un’opportunità». In secondo luogo, analizza i quattro contesti storici in cui tale formula sarebbe stata indebitamente spesa a posteriori in ordine a trattative di pace tra israeliani e palestinesi/arabi, fondamentali nella storia delle loro relazioni militari contrastive (1949, 1967, 2000, 2007). 

Ma si vada per gradi. Come appena detto, quasi a voler subito evidenziare la natura ambigua e tendenziosa, per non dire esageratamente partigiana, della suddetta dichiarazione ‘israeliana’, lo storico pensa bene di gettare un po’ di ombre sul suo ideatore, l’appena citato Abba Eban, indicandolo principalmente come sionista, impegnato con Chaim Weizmann nella costruzione dell’organizzazione mondiale sionista, e, soprattutto, mostrando la sua propensione all’intransigenza quando, entrato nella Knesset e divenuto Ministro degli Esteri, contrariamente all’immagine moderata che voleva offrire di sé, in effetti, proprio in corrispondenza delle trattative con l’Egitto in relazione alla Guerra dei sei giorni, evidenziò la sua naturale propensione a comportarsi come un falco, sfruttando l’indifferenza americana riguardo al discorso del ritiro dell’esercito israeliano dai territori acquisiti nel corso di detta guerra. In tal modo, l’espressione da lui coniata, qui discussa, sarebbe, per Marzano, per l’appunto l’abito linguistico migliore a rappresentare, generalmente, una politica diplomatica israeliana già all’epoca (1967) del tutto disinteressata alla pace sia come concetto sia come pratica. E così, preventivamente posti in cattiva luce il significato politico fondamentale dell’espressione in questione e la taglia etico-diplomatica del suo pronunciatore, lo studioso passa in rassegna le quattro circostanze storiche in cui essa sarebbe stata ingiustamente attribuita ai palestinesi e agli arabi, quando, diversamente, avrebbe dovuto essere accollata proprio ai suoi ‘autori’ israeliani.

Il primo segmento storico analizzato è quello delle trattative, nel 1949, per il raggiungimento di un accordo tra Israele e gli Stati che lo avevano attaccato a poche ore dalla proclamazione dell’indipendenza dello Stato ebraico. In ordine alla responsabilità del mancato raggiungimento di un’intesa tra le parti, nello specifico tra Israele e la Siria, Marzano fa notare quanto, contrariamente all’autonarrazione ebraica e alla storiografia precedente a quella contemporanea, di matrice per di più proprio israeliana, l’autentica disponibilità al dialogo e all’individuazione di una piattaforma di pace era stata mostrata proprio dall’interlocutore siriano e non da Ben Gurion, assolutamente sordo a qualsiasi forma di accettazione di ridimensionamenti delle pretese territoriali proposti dalla controparte. In ciò, e nella prassi del continuo rinvio degli incontri sull’argomento messa in opera da Ben Gurion sino alla dismissione del tavolo delle trattative, Marzano individuerebbe la causa effettiva dell’interruzione del rapporto diplomatico tra Israele e la Siria, ipotesi ampiamente acclarata, a suo dire, anche sulla base dei pronunciamenti interpretativi dello studioso Avi Shlaim. Detta in questo modo, quindi, la storia sembrerebbe parlare contro Israele, qualificandolo come contrario alla pace, tanto affamato di terra si era presentato sulla scena diplomatica pubblica. Ma Marzano omette di spiegare alcune questioni, non certo secondarie ai fini di un migliore e più completo inquadramento della situazione. La prima: Israele non aveva attaccato per primo, ma era stato attaccato deliberatamente da potenze straniere ai propri confini. La seconda: Israele aveva vinto, da aggredito, la prima guerra arabo-israeliana. In ragione di ciò, Israele possedeva una doppia ragione per non dover scendere esso stesso alle condizioni degli Stati attaccanti, e, al contrario, per poter dettare l’agenda delle trattative. La terza: la neo-narrazione anti-israeliana è confezionata non da uno studioso qualsiasi, libero da condizionamenti di sorta, ma da Avi Shlaim, che, compreso nel gruppo dei ‘nuovi storici israeliani’, è ideologicamente e costitutivamente orientato alla delegittimazione dell’immagine di Israele e non certo alla sua esaltazione. Dal complesso articolato di tali questioni, non di poco conto, Israele non può che uscire con le ossa rotte e come già da principio della sua storia statuale indirizzato a realizzare una politica di potenza e di aggressione, completamente insensibile a ogni positiva seduzione della pace.     

La seconda circostanza presa in esame è il negoziato tra Israele e Giordania a seguito della Guerra dei sei giorni, in virtù del quale, secondo l’interpretazione di Zeev Maoz, il re Hussein abbia respinto continuamente le proposte avanzate dallo Stato ebraico dal 1967 fino al 1987, in tal modo pregiudicando, nello ‘stile arabo’, qualunque accomodamento di sorta. Nella versione dei fatti che fornisce ancora una volta uno storico israeliano, Avi Raz, la colpa del fallimento delle mediazioni per giungere a una pace condivisa non sarebbe da assegnare agli arabi, ma, anche in questo secondo caso, agli israeliani, per due ragioni. In primo luogo, per l’irricevibilità delle condizioni territoriali proposte, nel senso che, come testualmente riferisce Marzano, «Hussein ricevette un’offerta che non poteva non rifiutare, perché troppo lontano dal minimo cui era interessato» (A. Marzano, op. cit., p. 97), almeno per come era strutturata sulla base del piano elaborato dal laburista Yigal Allon, per gli arabi eccessivamente penalizzante per loro dal punto di vista territoriale. In secondo luogo, perché, in verità, quello stesso piano, secondo una dichiarazione rilasciata in privato dal suo stesso architetto, riportata da Raz e ripresa tal quale da Marzano, era da considerarsi un vero e proprio «sotterfugio», dal momento che «Nessun arabo accetterebbe mai il piano e non verrà fuori nulla, ma dobbiamo apparire davanti al mondo con un piano positivo» (A. Marzano, ibidem). In più, continua Marzano, sempre grazie al conforto delle ricerche di Raz, la prospettiva di un ritiro completo dal Sinai da parte di Israele era, al contrario, solo fumo negli occhi, che nascondeva non solo una certa forma di permanenza in quell’area, ma anche una modifica dei confini.

Per queste ragioni, Marzano non ha dubbio alcuno che «Anche in questo caso, dunque, non si trattò di un’opportunità persa da parte araba, ma di un’offerta da parte di Israele che non raggiungeva le richieste minime di Egitto e Siria» (A. Marzano, ivi, p. 98). Anche in rapporto a tale descrizione, apparentemente cristallina e logica, sembra che non si debba attivare nessuna forma di scetticismo, ma che si debbano accettare passivamente impostazione e contenuto del discorso dello storico pisano. Ma basta accendere qualche interrogativo per far scricchiolare l’impianto ermeneutico da lui costruito, sicuramente ‘in buona fede scientifica’. La prima domanda che verrebbe da porre è la seguente: ma perché mai, come nel caso della Prima guerra arabo-israeliana, uno Stato aggredito come quello ebraico, risultato poi addirittura vincitore di un conflitto che non ha voluto, avrebbe dovuto essere così eccessivamente generoso nei confronti dei suoi aggressori, coalizzati per eliminarlo, visto non volevano strutturalmente riconoscerne l’esistenza? In quale altro conflitto, se si vuole anche maggiormente dimensionato, come le Guerre mondiali, i vincitori si sono comportati così benevolmente con i vinti, per di più giudicati, come nel caso della Germania in entrambe le guerre, causa primaria del medesimo conflitto? Per caso le potenze risultate vittoriose in quelle macro-guerre sono state reputate come insensibili alla pace dopo e per aver approntato testi risolutivi così evidentemente sbilanciati a loro favore e pesantemente penalizzanti la parte avversaria? E ancora: fino a che punto è immaginabile che uno Stato aggredito e accerchiato militarmente, come Israele nella Guerra dei sei giorni, potesse e dovesse tenere nel debito conto quel grado minimo di richieste dei suoi aggressori, quando questi si erano coalizzati per annichilirne l’esistenza? E per finire: è veramente possibile invertire, come fa Marzano, l’interpretazione israeliana e/o di certa storiografia precedente rispetto alle analisi di Raz, secondo cui palestinesi e arabi abbiano perso, come in altre circostanze, l’opportunità di concludere in qualche modo una pace con lo Stato ebraico, fondando tale nuova esegesi su un’espressione pronunciata in privato – quella di Allon –, di cui bisognerebbe avere certezza in quanto non pubblica e di cui bisognerebbe anche ricostruire il contesto, al fine di restituirne la corretta dimensionalità?

È accettabile che la complessità di una guerra e delle trattative per una pace difficilissima da raggiungere sia così rapidamente ed esaustivamente riducibile a una ‘frase-bomba’ di un mediatore laburista, nella quale sembrerebbe coagularsi e risolversi tutta l’eterogenea multiformità di una sezione storico-temporale come la Guerra dei sei giorni e delle trattative di pace successive? Se Marzano, come sostiene nel suo testo – con cui vorrebbe far luce su alcune mitologie riguardanti il rapporto conflittuale tra Israele, da un lato, e palestinesi e arabi, dall’altro –, si propone di mirare alla sintesi e di non voler far passare l’idea di essere detentore della verità dei fatti o di volerli esporre come se così fosse, allora avrebbe fatto bene ad articolare e ponderare in modo molto più complesso, in senso geopolitico e storico-contestuale, l’analisi di tale segmento dell’attrito storico israelo-palestinese-arabo. Per esempio non trascurando il ruolo degli Stati Uniti all’interno delle complicatissime negoziazioni israelo-arabe. Non va dimenticato, infatti, che in casa americana le pressioni su Israele si condensarono in due approcci di risoluzione del conflitto. Una, che si potrebbe definire ‘linea Rogers’, dal nome del Segretario di Stato americano, incardinata su una direttrice di coinvolgimento consensuale della comunità internazionale. L’altra, denominabile come ‘linea Kissinger’, più strategico-tatticamente protesa a mantenere in quell’area mediorientale un’atmosfera di indecisione, una dimensione di incertezza, o come si disse, una ‘situazione di stallo’. E per quanto la prima linea fosse stata valutata e giudicata positivamente da una commissione interna costituita ad hoc da parte del governo israeliano, ad affermarsi fu quella alterativa di Kissinger, ragion per cui Golda Meir, all’epoca dei fatti Primo ministro israeliano, dopo aver lasciato che il suo Ambasciatore negli USA si sorbisse la ‘ramanzina’ di Joseph Sisco, Assistente Segretario di Stato statunitense –  condensabile nella convinzione (ammonitoria) che Israele, ponendosi di traverso rispetto al Piano Rogers e alla proposta del Presidente egiziano Sadat di ritiro delle truppe ebraiche dal Sinai fino ai Passi in cambio di una serie di assicurazioni, tra cui il ripristino delle relazioni diplomatiche con gli USA e la firma di un’intesa di riconciliazione con Israele, sarebbe stato indicato come responsabile d’aver trascurato la migliore delle opportunità, dal momento della sua fondazione, di agguantare la pace –, decise di respingere tanto la linea Rogers quanto l’offerta di Sadat, costringendo, in pratica, il Segretario di Stato americano a rinnegare la sua posizione ‘consensuale internazionalistica’ e a indicare che gli Stati Uniti avrebbero continuato a foraggiare lo Stato ebraico fino a che questo non avesse ottenuto la prevalenza militare sugli arabi.

È qui che appare non solo la preponderante responsabilità di una certa parte politica americana, quella ‘kissingeriana’, nel rigetto dell’asse di concordia Rogers-Sadat, e quindi, non primariamente israeliana, ma anche la Realpolitik messa in campo dal Consigliere per la sicurezza nazionale, per l’appunto, Henry Kissinger, manifestata apertamente al suo corrispettivo egiziano a Parigi in queste dure, severe, ma pratiche proposizioni: «Consiglio a Sadat di essere realista. Viviamo in un mondo reale e non possiamo basarci su fantasie e desideri […]. Come si può, in caso di sconfitta, dettare le proprie condizioni all’altra parte?» (cit. in C. P. Biroli, Verità nascoste del conflitto Israelo-Palestinese. Ostilità, pretese, equivoci, spropositi e speranze, Gaspari, Udine 2024). Oltre a questo non si può trascurare il fatto che all’interno del mondo palestinese la richiesta di pace offerta a Israele da Sadat significasse, in pratica, ‘realisticamente’, per un verso, che gli arabi non fossero (stati) capaci di piegare lo Stato ebraico, per un altro, che essi probabilmente non tenessero alla questione dell’indipendenza palestinese. Conseguenza di tale situazione fu non solo la genesi della prassi e del metodo terroristico, ma anche l’insorgenza in campo israeliano della priorità insuperabile della difesa dei propri confini e dei propri cittadini da attacchi da allora divenuti sempre più numerosi e imprevedibili. V’è da aggiungere che la pace, più che essere un obiettivo ‘etico’ in sé, era considerato, soprattutto per i protagonisti esterni di quella guerra, quali USA e URSS, uno strumento, un mezzo politico per mantenersi in equilibrio, attraverso una certa forma di stabilità mediorientale, a livello internazionale, quali due superpotenze protagoniste della Guerra fredda, che anche in quell’area si giocavano gran parte del loro peso strategico. In ultima analisi, non bisogna dimenticare che, se una pace tra Israele ed Egitto si è potuta delineare dopo la Guerra di Yom Kippur (1973), è stato anche grazie all’opera di Begin, uomo di destra, militante nel Likud, il quale, nonostante – bisogna riconoscerlo – la decisione di un inasprimento delle relazioni con gli Stati arabi vicini che non fossero per l’appunto l’Egitto, tanto da provocare, da un lato, lo sviluppo della pratica coloniale in Cisgiordania, dall’altro, in connessione con quest’ultima, la reattività palestinese di carattere terroristico, aprì notevolmente al più importante e potente paese arabo, per di più ostile, tra quelli con esso confinanti, ovvero l’Egitto, attraverso la programmazione di una serie di visite ufficiali, puntualmente ricambiate da Sadat. Tutto ciò portò nel 1978 agli Accordi di Camp David, che possono essere considerati il primo vero atto ufficiale di pace/pacificazione tra Israele e un Paese arabo, cosa che comportò sia il progressivo ritiro degli israeliani dai territori egiziani pregressamente occupati sia alla definizione ulteriore della pace nel 1983 e all’inizio del tempo della Land of peace.

Non si può evitare di ricordare, infine, che, in occasione di questa radicale ed epocale trasformazione in senso pacifico e vicendevolmente riconoscitivo tra Israele ed Egitto, Sadat, che aveva prodotto un notevole sforzo diplomatico-politico per ricucire i rapporti con il giovane e potente Stato ebraico, per giungere ai risultati riconciliativi appena ricordati, nel 1981 fu ucciso nel corso di un’azione terroristica promossa e attuata dalla Jihad islamica, in tal modo confermando che molto probabilmente nel mondo arabo non si fosse poi così ben disposti nei confronti della pace, soprattutto se bisognava stringerla con Israele. In ragione di tutto ciò, che deve risultare anch’esso un’operazione di sintesi estrema degli avvenimenti storici occorsi a quell’epoca, forse bisognerebbe rivedere da parte di Marzano se, per caso, nel 1967 l’aborto della pace tra Israele e arabi sia stata una mera scelta (semmai pure capricciosa) di Israele, strettamente ordinata alla sua costitutiva vocazione alla belligeranza e alla violenza, oppure l’esito di una congerie di articolatissime questioni, tra cui anche l’anti-realistico-politica tracotanza degli aggressori arabi, per di più sconfitti, che volevano indicare non solo il contenuto minimo per loro accettabile di quella pace, ma anche le generali condizioni territoriali della stessa. E, altrettanto, sarebbe necessario capire se quella pace, nella considerazione della continuità storico-contenutistica tra la Guerra dei sei giorni e la Guerra di Yom Kippur, non sia piuttosto e comunque arrivata al termine di tale ‘unitario’ periodo bellico per volontà proprio di Israele e del suo Primo ministro di destra, Begin, con la collaborazione indispensabile, innegabile e preziosa del Presidente egiziano Muhammed Anwar al-Sadat, ‘premiato’ con la morte dai correligionari arabi in nome della causa palestinese, indignati per aver visto raggiunta la pace con il nemico ebreo, meritevole, al contrario, solo di violenza e di estinzione.

Ma per Marzano l’inapplicabilità ai palestinesi e agli arabi dell’espressione «Non hanno mai perso l’opportunità di perdere un’opportunità» deve riguardare, in terza istanza, anche il caso del vertice di Camp David del 2000, quando, in una delle residenze del Presidente degli Stati Uniti, all’epoca, Bill Clinton, si incontrarono il Primo ministro israeliano, Ehud Barak, e il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Yasser Arafat, per tentare di invertire il corso negativo e fallimentare di quel processo di pace cominciato nel 1993 con gli Accordi di Oslo (e proseguito nel 1995 con gli Accordi di Oslo 2). Per lo storico pisano anche qui, nonostante una consolidata storiografia sia orientata a vedere in Arafat l’artefice del naufragio dei negoziati in virtù del suo rifiuto di una delle proposte di più ampio respiro mai messa sul piatto da Israele fino a quel momento – ovvero il riconoscimento di uno Stato palestinese nella Striscia di Gaza e in una buona aliquota della Cisgiordania, concomitantemente ad accordi di massima sul numero dei profughi da far rientrare e indennizzare, oltre a un’intesa sulla questione dello smembramento dell’esercito e della delegittimazione ed elisione dei gruppi terroristici palestinesi –, lo Stato ebraico, se non in maniera esclusiva, almeno in modo paritetico e complementare, avrebbe concorso e com-partecipato con gli arabi alla responsabilità del fallimento dei suddetti accordi. A Marzano, infatti, non solo basta che lo storico e giornalista Ian Black riferisca che la versione dei fatti fornita dai palestinesi delle trattative di Camp David debba essere giudicata, in ragione di un’analisi più approfondita e indipendente (?), maggiormente attendibile e accurata, perché ciò che sostiene sia di per se stesso indiscutibilmente vero o comunque più prossimo alla verità, ma addirittura giudica ex post se sia stata realmente la migliore l’offerta proposta dagli israeliani ad Arafat, dal momento che l’anno seguente, a Taba, lo Stato ebraico ne sottopose una ancora più consistente. Innanzitutto non è fornita ragione alcuna per la quale bisognerebbe considerare la narrazione palestinese di Camp David più articolata e complessa di quelle fino ad allora invalse, dunque anche più efficace e veritiera, e certamente questa ragione non può essere trovata nella sola indimostrabile auctoritas editoriale e reputazionale di Ian Black. In seconda istanza, non è nemmeno pensabile che sia storico-scientificamente ammissibile sottoporre a giudizio e soprattutto negare che la forma in cui, all’epoca, agli israeliani, e con essi, agli analisti e agli osservatori esterni, si presentò la proposta israeliana fosse giudicata, trasversalmente, la migliore che gli ebrei avessero mai avanzato su un tavolo di trattative con i palestinesi (e/o con gli arabi). La comparazione, infatti, poteva essere praticata solo con proposte realizzate in passato, anche il più recente, ma non certo con quelle future, non ancora concepibili/concepite e, per questo, inesistenti.

Dire che il progetto di risoluzione del conflitto israelo-palestinese elaborato in casa ebraica non fosse il migliore in quanto ampiamente superato da quello proposto l’anno seguente nella cittadina egiziana ha uno scarso valore storico ed ermeneutico, mentre, dal punto di vista ideologico e morale, serve non poco a diminuire, se non proprio a screditare (nel lettore) – probabilmente contro le stesse intenzioni dello storico dell’Università di Pisa – la posizione di Israele, colpevole, semmai e assurdamente, di non aver tirato fuori il vino effettivamente più buono, sperando, malignamente e meschinamente, che il suo ospite si accontentasse di quello di minor pregio offertogli per l’occasione. La pluralità e la delicatezza dei temi trattati nei lavori del vertice di Camp David, e mai in altri precedenti – la formazione di uno Stato palestinese, la questione della sovranità territoriale palestinese, il problema dei profughi, il nodo Gerusalemme –, sui quali finalmente Israele e gli avversari si stavano confrontando a viso aperto, con la mediazione americana, in pratica situazioni ormai incise nella carne di una relazione storica caratterizzata per la maggior parte da contese, violenze, guerre e morte, di cui entrambe le parti portavano ancora addosso i segni e la memoria ‘incattivita’, è chiaro che debba aver reso le negoziazioni più complesse di quanto l’espressione di Abba Eban possa mai avere intenzione di descrivere. Eppure v’è da sostenere che, per quanto le difficoltà incontrate da entrambe le parti nell’interlocuzione diplomatica potessero ascriversi a quel passato così ruvidamente attritico e a posture auto-interpretative capaci solo di esaltare la propria immagine e deturpare quella dell’avversario/nemico, al punto da complicare all’inverosimile il dialogo tra le parti, sia difficilmente contestabile la realtà, secca, cruda e tangibile della straordinarietà della proposta ebraica, soprattutto perché, anche nella sua inesaustività e incapacità di accontentare a pieno l’altra parte, essa poneva al centro, per la prima volta, l’idea e la prospettiva materiale della costituzione di uno Stato sovrano dei palestinesi. Che costoro non avrebbero proprio dovuto lasciarsi sfuggire, non solo per dare il segnale di un’autentica disponibilità dialogica, come già avevano dimostrato si potesse fare proprio gli egiziani di Sadat in un passato oltremodo prossimo, ma soprattutto per avviare effettivamente l’esperienza territoriale-nazionale e cominciare a offrire stabilità alla propria esistenza collettiva, semmai auspicando, nel futuro, ulteriori modifiche migliorative e aggiustamenti di sorta.

Tutto questo per dire che, a dispetto della probabile maggiore complessità e intricatezza della situazione dei colloqui di Camp David del 2000 rispetto ad altri pregressi, e semmai proprio di quella manifestata dai casi di negoziati di pace analizzati nel suo volume da Marzano, è sicuramente in relazione alla proposta avanzata da Israele ai palestinesi nella residenza del Presidente statunitense nel Maryland che valga in misura maggiore l’attribuzione agli arabi della frase colorita di Eban, dal momento che in quella sede era stato per la prima volta inserito, discusso e condotto a trattativa, per poter poi essere tradotto in realtà concreta, il tema della Palestina come Stato. E che al suo rientro a casa i suoi abbiano accolto Arafat come un eroe, celebrato per la sua capacità d’aver difeso gli interessi e l’onore dei palestinesi, e aver scongiurato una specie di tradimento politico da parte sua nel caso avesse accettato la proposta di Barak, poco significa rispetto all’enorme opportunità che, realisticamente e pragmaticamente, era stata offerta a lui e al suo popolo di vedere sorgere, con il consenso internazionale, uno Stato palestinese, che nemmeno gli arabi erano stati in grado di garantire né prima della migrazione ebraica in Medioriente né con le guerre contro Israele, una volta che questo era stato fondato. Per cui – lo si può asserire robustamente! –, al di là, o se si vuole, proprio in virtù e a fronte dell’estrema problematicità dei negoziati tenutisi durante il vertice di Camp David ad inizio del XXI secolo, i palestinesi/arabi non hanno fatto altro che perdere una grande opportunità, presentata non tanto da Israele nella figura del suo Primo ministro quanto dalla Storia in persona, che stava per accogliere in sé, finalmente, la versione territorializzata e statualizzata del popolo palestinese, per cui tanto essi si erano battuti. E invece, pur di confermare che anche in questo caso, molto più diplomaticamente complesso e delicato, Israele non tanto e non proprio abbia disdegnato la pace, ma abbia calcolato minuziosamente che non fosse accettata dalla controparte nonostante avesse posto sul piatto, come mai prima d’allora, l’ipotesi della formazione di uno Stato palestinese che avrebbe sicuramente riconosciuto, Marzano preferisce chiudere la partita esegetica con un ‘pari e patta’ – non potendo proprio esclusivizzare e assolutizzare, ma solo relativizzare la posizione di Israele e non potendo trascurare e minimizzare la co-responsabilità palestinese e araba nel fallimento delle trattative di pace – attraverso la citazione di una valutazione degli studiosi Robert Malley e Hussein Agha, secondo cui «Se si chiede a Barak, questi potrebbe rispondere che non c’è stata alcuna offerta israeliana ma che, in ogni caso, Arafat l’ha rifiutata. Se si chiede ad Arafat, la risposta che questi potrebbe dare è che non c’è stata nessuna offerta, ma che, in ogni caso, era inaccettabile» (A. Marzano, op. cit., pp. 107-108). Una considerazione/espressione, certo, ad effetto, da raffinati e arguti analisti, ma che, per quanto possa appagare i ricercatori di perspicace sagacia e di acuta e brillante finezza, nel contenuto, però, non aggiunge nulla alla situazione di a-statualità e non-territorialità in cui i palestinesi hanno continuato successivamente a versare da allora, nonostante a Camp David un’apertura maggiore e un realismo da parte loro più concreto avrebbero potuto in-vertire/con-vertire il segno della una storia palestinese in direzione di una sua coagulazione terraneo-sovrana e unitaria.

Di tale avviso è proprio Barak, che commentando gli appena conclusi negoziati di Camp David, così si esprime, rilevando che probabilmente il suo interlocutore non fosse (stato) all’altezza politica di un momento storico così complesso e delicato per il suo popolo e per la storia dell’intero Medioriente: «Un trattato di pace non può essere sottoscritto a qualsiasi prezzo, ma non ci sarà una pace [se non accettiamo di pagare] un certo prezzo, che ci farà male e che sarà difficile da pagare […]. L’accordo con i palestinesi è così vicino oppure così difficile da raggiungere […]. Devo dire, con dispiacere, che se non abbiamo avuto successo è perché non ci siamo trovati di fronte a un partner che fosse pronto a prendere decisioni difficili su tutte le questioni» (C. Enderlin, Storia del fallimento della pace tra Israele e Palestina. Il sogno infranto, Newton & Compton, Roma 2003, p. 207). E, mentre il Ministro della cultura e delle arti palestinese, Yasir Abed Rabbo, fedelissimo di Arafat, in linea con la convinzione di quest’ultimo sul fatto che le proposte americane e israeliane fossero del tutto inadeguate e irricevibili, si pone su un fronte interpretativo del tutto opposto a quello di Barak, ritenendo che «Se avessimo ceduto su questa materia [la questione delle definizione dello spazio di sovranità palestinese sul territorio di Gerusalemme; ndr], avremmo corso il rischio di essere accusati di tradimento dall’intera comunità musulmana» (C. Enderlin, ivi, p. 210), Bill Clinton, rimasto profondamente deluso dalle conclusioni improficue dei negoziati ospitati in casa sua – anche perché, certamente, avrebbe voluto ascrivere a sé e alla sua politica diplomatica l’eventuale storico risultato di una pacificazione tra Israele e palestinesi, della formazione dello Stato di Palestina e del vicendevole riconoscimento tra i due acerrimi nemici –, si esprime in certo qual modo benevolo nei confronti di Barak, cui riconosce audacia propositiva, e in maniera evidentemente irritata con Arafat, fermo sulle sue posizioni, che non condussero mai a una contro-proposta palestinese: «Le relazioni fra gli Stati Uniti e Israele sono molto forti. In considerazione, però, delle coraggiose posizioni prese dal primo ministro e dal team di negoziazione e alla luce del ritiro dal Libano meridionale, credo che queste relazioni debbano essere riconsiderate e intensificate. Mi aspetto una revisione [dei nostri trattati], in modo da rafforzare le nostre relazioni strategiche. Dovremo considerare quello che possiamo fare per aiutare Israele a mantenere i suoi vantaggi qualitativi, a modernizzare il suo esercito e a preparare il suo esercito per le nuove minacce che, insieme ad altri paesi, Israele dovrà affrontare nel ventunesimo secolo […]. Ho sempre voluto trasferire la nostra ambasciata [da Tel Aviv] a Gerusalemme Ovest. Abbiamo già un pezzo di terreno. Non l’ho fatto prima per non mettere a rischio i negoziati per una pace equa e duratura fra israeliani e palestinesi. Alla luce però di quanto è successo, intendo riesaminare quella decisione e intendo farlo entro l’anno […]. Arafat farebbe un grande errore se proclamasse unilateralmente lo stato palestinese a settembre. Se questo accadesse, gli Stati Uniti riconsidererebbero certamente le proprie relazioni con i palestinesi» (C. Enderlin, ivi, pp. 207-208). Insomma, una serie di altre questioni, condizioni, circostanze e considerazioni, quelle presentate qui in integrazione rispetto a quelle esposte dal docente di Storia e istituzioni dell’Asia, che non possono così a cuor leggero essere trascurate, se si vuole cercare e dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità!

Roma, Aprile 2024. XVII Martedì di Dissipatio

Per concludere la sua selezionata rassegna analitica, che conserva – bisogna sempre ricordarlo, quale orizzonte metodologico e di senso generale – l’obiettivo di riportare alla realtà dei fatti affermazioni indebite e a suo parere infondate e mitologiche sulla statutaria vocazione dei palestinesi e degli arabi a perdere tutte le opportunità di pace durante i tanti negoziati intrecciati con gli israeliani, ma che, alla fine della fiera, al contrario fa emergere, chissà perché e per come, ‘magicamente’ – in modo indiscutibile e inconfutabile! – l’ordinaria incapacità di Israele sia di proporre la pace sia di volerla effettivamente, Marzano si riferisce alla Conferenza di Pace di Annapolis, del novembre 2007, grazie alla quale si cercò un accordo risolutivo tra Israele, da un lato, e l’OLP, dall’altro. Evitando di riferire, ora, il dettaglio delle tante questioni spinose sulle quali entrambe le parti avrebbero dovuto pronunciarsi e raggiungere un compromesso – la soluzione dei due Stati, il rientro dei profughi, il nodo dell’acqua, la divisione delle aree di controllo in Gerusalemme –, e delle quali l’accademico snocciola l’articolazione e i contenuti, non si può non rilevare una certa asimmetria di valutazione e di giudizio storico da parte di quest’ultimo, dal momento che individua la causa principale del fallimento dell’incontro nel profilo ideologico e nelle posizioni programmatiche fortemente conservatrici e auto-utilitaristiche del partito d’appartenenza del Primo ministro israeliano, Ehud Olmert, e della Ministra degli Esteri, Tzipi Livni, ovvero Kadima, senza considerare mai che dall’altra parte non vi fosse un collegio di angeli, pronto a suonare le melodie della pace e intonare i canti della gioia conciliativa, ma gli esponenti dell’OLP, altrettanto, semmai, pronti a ribadire le proprie pretese e farle valere, anche con durezza, durante le trattative.

Asserire, dunque, come fa Marzano, riferendosi alle sole parole del capo del governo di Israele, espresse durante la conferenza programmatica del partito Kadima il 24 gennaio 2006, e precedenti di un solo anno la Conferenza di Annapolis, che «È con questa agenda che Olmert andò a Annapolis ed è quindi chiaro come tale conferenza era destinata a fallire: un accordo di pace non avrebbe mai potuto essere raggiunto perché l’OLP non avrebbe mai potuto accettare l’offerta di Olmert, ritenuta del tutto insoddisfacente» (A. Marzano, op. cit., p. 110), omettendo di indicare e sottolineare completamente la rigidità delle posizioni dei palestinesi dell’OLP, inflessibili anch’essi su molte questioni nodali, come già dimostrato in moltissime precedenti occasioni di negoziati, e continuando solo ad agitare e brandire i ‘neutralissimi’ aljazeeriani Palestine Papers per convalidare la convinzione dell’intransigenza governativa israeliana, e, guarda caso, la straordinaria disponibilità al dialogo e al compromesso palestinese, non conduce certamente al risultato storico-scientifico perseguito di gettare luce sui fatti reali per evitarne una trasformazione pseudo-mitologica, ma piuttosto a orientare questi ultimi in una direzione già programmata. Probabilmente quella di presentare una certa immagine ‘storica’ di Israele, refrattario e allergico alla pace, allo stesso modo in cui è ispirato dalla e naturalmente incline alla guerra, così – si potrebbe maliziosamente supporre, ma è sicuramente solo una volgare illazione! – da spiegare ‘causalmente’, logicamente e, quindi, razionalmente, la storia dell’attuale Israele, del quale non bisognerebbe, dunque, individuare l’eccezionale e imprevedibile trans-mutazione da vittima storica a odierno carnefice, ma cogliere, al contrario, una bieca e monotona, quanto pericolosa ed elidenda ‘continuità’ ideologica e operativa, centrata sulla violenza radicale, sul militarismo/bellicismo permanente, sull’ultra-proprietarismo territoriale e sul colonialismo estremo. E il gioco è fatto!

Per questo il testo di Marzano per ragioni di interesse tematico che investe il presente, in una sua declinazione analitica specifica – il rapporto tra Israele e la pace, per come derivi ed emerga dalla decostruzione, realizzata da tale storico, dell’indebita persuasione che i palestinesi e gli arabi costitutivamente/storicamente non perdano occasione per mandare all’aria ottime soluzioni di pace in relazione al conflitto con lo Stato ebraico –, deve costituire non solo, comunque, uno strumento di interessante consultazione, ma soprattutto – in modo particolare per chi non si accontenti solo di leggere ma anche di verificare, integrare e interpretare quanto si scrive –  uno scrigno prezioso di istanze e provocazioni alla ricerca continua, libera e indipendente sulle questioni che riguardano il rapporto conflittuale tra Israele e i palestinesi. Una ricerca che sia, dunque, in grado di sviscerare e porre insistentemente e coraggiosamente domande, interrogativi, dubbi e ipotesi indagative sempre nuovi anche e soprattutto rispetto a quelle posizioni esegetiche che si auto-definiscono maggiormente scientifiche rispetto ad altre – tanto da voler smantellare costrutti ‘mitologici’ inopportuni e sconvenienti – e che si ergono esse stesse, seppur nella modestia candidamente esibita, a dispositivi grazie ai quali leggere con maggiore fedeltà la realtà dei fatti.

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