In Medio Oriente il tempo scorre in una maniera diversa da qualunque altro luogo al mondo. Avulso alle futili convenzioni cui noi mortali vorremmo ancorarlo, sotto il sole pallido dell’Asia Minore Crono riposa immobile come le dune del deserto; il vento della Storia, che altrove spira tanto impercettibile quanto costante, sembra a malapena sfiorare le sabbie riarse di quello sterminato oceano di nulla. Talvolta capita però che tutt’a un tratto la brezza diventi ciclone: s’innalzano allora dei violentissimi tsunami di cambiamento, che inevitabilmente rompono gli argini fragili della geografia e in un attimo spazzano via moltitudini, ordini, epoche intere.
L’ultima di queste burrasche è iniziata un anno fa, quel sette di ottobre assurto suo malgrado ad ennesimo giorno nero dell’ebraismo. Milleduecento uccisi tra ravers e kibbutzim, chi falciato dalla furia fanatica degli islamisti di Hamas e chi dal fuoco confuso degli imberbi militi israeliani, e duecentocinquanta rapiti, metà dei quali mancano ancora all’appello. Va avanti anche il macello di Gaza, tramutata dalla brutale rappresaglia di Tel Aviv in un buco nero di disperazione che ha finora inghiottito quarantaduemila persone, per la larga parte civili. Dodici mesi di orrore in diretta ventiquattr’ore su ventiquattro, di fatto un involontario ma riuscitissimo esperimento di desensibilizzazione di massa per chi serbasse ancora un po’ di umana pietà dopo oltre mezzo lustro di guerra d’Ucraina. L’abitudine è subentrata strisciante nelle coscienze di tanti, portandosi dietro la bizzarra convinzione che la polvere stesse in qualche modo per posarsi sul nuovo carnaio semitico, appesantita dal sangue che inquina l’aria della Terra Santa.
E invece è proprio adesso che l’onda più grande dell’incipiente maremoto si staglia all’orizzonte. A casa di Abramo, Cristo e Maometto ottobre 2024 è iniziato con una pioggia, sì, di missili che da Tehran si sono abbattuti sulla capitale — ufficiale; quella ufficiosa, Gerusalemme, vale ben altro — d’Israele; sono andate in fumo due basi aeree ed il quartier generale del Mossad, situato in centro città come a simboleggiare il ruolo chiave che hanno i Servizi in un Paese per cui guardarsi le spalle è seconda natura. Nove i morti, di cui otto ammazzati in una sparatoria a Jaffa. Un (contro)attacco insomma assai modesto, paradossalmente più di quello lanciato in aprile dopo che i cacciabombardieri con la stella di David avevano raso al suolo il consolato iraniano di Damasco, e non meno annunciato. Impossibile che questo sussulto improvviso basti a sanare il tremendo vulnus inflitto dallo Stato ebraico alla tela di ragno sciita con l’assassinio di Hassan Nasrallah, numero uno di Hezbollah che a Beirut è finito sepolto insieme ad altri quattrocento disgraziati ignari sotto una valanga di bombe ad alto potenziale, courtesy of Uncle Sam.
Prima di lui una sequela impressionante di morti eccellenti ha scosso l’Asse della Resistenza: Fuad Shukr, Ismail Haniyeh, e poi i quadri intermedi del Partito di Dio, neutralizzati nel giro di mezza giornata al culmine di un’operazione durata ben quindici anni. Colpo su colpo, nel palese intento di attirare allo scoperto gli Ayatollah che, stanchi d’incassare in silenzio, hanno infine risposto. L’Iran passa così dalla pazienza strategica alla cautela tattica; se per il regime il costo politico dell’umiliante opera di sopportazione attuata nei mesi scorsi è stato alto, quello di un confronto aperto con l’inossidabile nemesi sarebbe enorme. Ne è cosciente anche Benjamin Netanyahu, che rivolgendosi direttamente agli abitanti del fu Regno di Persia ha chiosato: «Quando l’Iran sarà libero — e quel momento giungerà molto prima di quanto si pensi — tutto sarà diverso. […] Israele è dalla vostra parte». Un messaggio analogo Bibi l’aveva indirizzato appena qualche giorno prima ai libanesi, proprio mentre l’esercito si preparava ad invadere il Paese dei Cedri per la quarta volta in quattro decenni.
Sarà un’incursione limitata, promettono i comandi delle IDF, in quella che tuttavia appare sempre di più come una guerra senza limiti. Le forze terrestri sondano il terreno nel Libano meridionale, l’aviazione bombarda in Cisgiordania, in Siria e nello Yemen, mentre a Gaza si continua a combattere casa per casa: che sia per soddisfare necessità divenute improcrastinabili — l’economia risente dello svuotamento del ricco Nord, che Hezbollah ha bersagliato con oltre ottomila razzi nel corso dell’ultimo anno — o per dimostrare la propria forza ai tanti nemici (e a sé stesso) dopo l’onta del 7/10, con le sue Spade di Ferro Israele mena fendenti dappertutto. A muovere la mano armata del gigante ferito non sembra però esserci che la contingenza momentanea, l’immediatezza di obiettivi che, pur intelligibili nella sostanza, si fa fatica ad inquadrare in un disegno complessivo. Qual è il piano, supponiamo, da qui ad un anno? C’è un piano? La frenesia dell’azione cinetica non lascia spazio ad una più articolata riflessione sull’assetto da dare all’area d’interesse israeliana quando le armi avranno taciuto: end states militari e fini politici paiono anzi sovrapporsi fino ad annullarsi a vicenda.
Tel Aviv sa dove vuole andare, ma non ha ben chiaro come arrivarci o come proseguire una volta giunta a destinazione. Lo stesso tentativo di trascinare l’Iran nella mischia è informato da questa logica che potremmo definire di proattività passiva: Israele ha spostato il pendolo dell’escalation come e quando le circostanze glielo hanno consentito, nell’attesa che a realizzare lo scopo di fondo — dare avvio ad un conflitto su vasta scala attraverso il quale rovesciare la teocrazia e fare piazza pulita dei suoi burattini nella regione — fosse l’avversario. Ma Khamenei e i suoi hanno subito intuito il gioco, e hanno scelto di giocare il minimo indispensabile. Le eclatanti vittorie conseguite sul piano tattico potrebbero dunque non tradursi nel vantaggio strategico schiacciante desiderato; come un campione di poker che non può riscattare i cumuli di fiches ottenute al tavolo, così agli israeliani non resta altra opzione che alzare nuovamente la posta e provare a far saltare il banco, magari mettendo una brusca fine alle ambizioni nucleari dei chierici, ormai in procinto di compiersi.
L’occasione è d’altronde assai ghiotta. I fautori dell’offensiva assicurano che battere l’Iran eliminerebbe l’unica reale minaccia all’esistenza dello Stato ebraico ed indebolirebbe altri attori ad esso ostili, facendo di Israele l’indiscusso egemone del Vicino Oriente; Tel Aviv avrebbe così mano libera per riprendere le trattative per la normalizzazione dei rapporti coi suoi vicini da una posizione di forza, e porre le basi per completare il progetto, ancora allo stadio embrionale, di un corridoio commerciale che la trasformerebbe in un polo chiave degli scambi globali. Avrebbe da guadagnarne pure Netanyahu, da sempre dedito alla causa di un sionismo radicale le cui aspirazioni potrebbero trovare per suo tramite uno sbocco tangibile e verosimilmente definitivo: Eretz Yisrael Ha-Shlema, il Grande Israele perseguito dal Likud sin dagli albori, non è in effetti mai stato così vicino dai tempi della Guerra dei Sei Giorni. Sarebbe insomma lo sviluppo geo-politico e geo-strategico del secolo, un capolavoro che consoliderebbe in eterno il posto al sole di Israele.
Sarebbe, appunto. Quello descritto sopra è uno scenario con molte incognite e poche certezze, pervaso da un ottimismo alla luce del quale il rischio più grande di un’avventura prevedibilmente cruentissima è mancare l’opportunità di una vita per rifare il Levante. Scarseggiano per contro considerazioni realiste — o meramente realistiche — in merito alle concrete possibilità di vincere, alle sorti dell’Iran postbellico e dei suoi alleati regionali, o al permanere del network terroristico sciita; silenzio pressoché assoluto sull’ipotesi sinistra di un ricorso alle armi di distruzione di massa, altrimenti piccola ossessione di diversi commentatori. Tanto tra i policymakers quanto nel dibattito pubblico tiene banco un’adolescenziale fear of missing out, del tutto identica a quella che si poteva cogliere alla vigilia della seconda Guerra del Golfo: anche all’epoca si credeva che rimuovere un singolo tassello avrebbe permesso di disinnescare il fragile domino mediorientale egarantire la sicurezza degli Stati Uniti, dell’Europa (contraria all’intervento) e di Tel Aviv.
Ventun anni, (almeno) mezzo milione di morti innocenti e uno Stato Islamico dopo, di Iraqi Freedom rimane solo la melensa retorica liberazionista, ripresa e adattata in vista dell’imminente mission accomplished. La veicolano i soliti volti noti dei media, una claque univoca che, non paga dei disastri della Global War On Terror e della relativa tangente siriana, chiede strepitando una replica ulteriore: tornano in voga l’Asse del Male di Bush Jr., oggetto di una repentina rivalutazione insieme ai compari Cheney e McCain, e lo scontro tra civiltà di Huntington, con Israele a fare da traballante cartonato dell’Ovest nella battaglia contro l’islamizzazione vera o presunta di quest’ultimo. Ormai conclamata la sclerosi dell’ideologia liberal-progressista e del sistema internazionale a guida USA che ne è la principale espressione, i rispettivi apologeti cerano rifugio in un occidentalismo di maniera, rigidamente manicheo ed impermeabile alla complessità; che possa essere stato proprio questo atteggiamento protervo a scatenare in prima battuta la crisi non sovviene.
Ecco dunque che ci avviamo verso un nuovo carnaio, in cerca del rinnovamento che il braccio di ferro coi russi non è stato in grado di darci. È probabile che resteremo delusi anche stavolta. Nemmeno Israele può affrontare l’Iran da solo, tantomeno adesso che i suoi soldati, già stremati dal pantano della Striscia, debbono vedersela con le milizie di Hezbollah; d’altro canto, un (plausibile) intervento americano in aiuto dell’alleato per eccellenza segnerebbe per converso la disfatta differita di Kiev. Tutto a ridosso del fondamentale voto di novembre, anch’esso una fonte di vane speranze. Frattanto, proprio in queste ore si allunga sul gigantesco cratere che era Gaza l’ombra della ri-occupazione, unico elemento permanente — insieme al collasso definitivo degli Accordi di Oslo, per quel che ancora valgono — della non-strategia di Tel Aviv. Cosa dovrà seguire ad un governo militare de facto la cui istituzione era stata categoricamente rigettata dallo stesso Ministro della Difesa Gallant non è dato sapere: ci si penserà a tempo debito, ossia dopo il prossimo pogrom. A trecentosessantacinque giorni dall’inizio di questa tragedia non siamo in grado di dire chi davvero stia vincendo; possiamo affermare con amara sicurezza che ha perso la politica, ridotta a semplice strumento della guerra in un ribaltamento drammatico della classica dicotomia clausewitziana. Da mezzo l’atto di forza è diventato un fine in sé, entro i cui confini sempre più ristretti iniziano e si esauriscono orizzonti temporali corti come il respiro dei moribondi. Il Medio Oriente non ha un passato — guardarsi indietro costringerebbe tutti gli schieramenti a prendere atto delle proprie responsabilità nel tracciare una scia lineare di sangue lunga ottant’anni; e non ha un futuro — immaginare il domani obbliga a distogliere l’attenzione dall’oggi, e in guerra esiste soltanto l’oggi. Resta il presente, un cerchio piatto dove l’agognata vittoria finale richiede sempre un altro giro. L’ultimo.