OGGETTO: Stato e Impero tra Ankara, Gerusalemme e Teheran
DATA: 14 Gennaio 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
Il Medio Oriente vive in una eterna aurora geopolitica sempre di là da mostrarsi compiutamente, radicata e stabile in un punto di fuga transitorio. In questo luogo ciò che non ha paura di mostrarsi è la Potenza e i suoi disegni, le sue violente linee di confine attraverso, e in cui, gli Stati lottano tra di loro e contro loro stessi, in un equilibrio costante tra due diverse concezioni di natura e di politica, tra la forma di un ordine statale e la sostanza di uno imperiale.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

In Oriente tutto accade all’improvviso, sopratutto in politica, in modo tanto repentino quanto celato da una certa discrezione, quasi che, mossi i pezzi sulla scacchiera del Grande Gioco del potere, il risultato sia inevitabile. Arrivare a muoverli è già in qualche modo segno di vittoria. Non è fatalismo, semmai il contrario: la fede in un ordine ontologico e oggettivo della realtà.

Eserciti interi si disperdono in manciate di minuti, Imperi e Gran Re crollano e ascendono con la furia di stelle comete, quel tanto che basta perché gli astri riprendano il proprio corso e certe fratture non diventino permanenti. Persino il giorno e la notte si alternano in modo brusco, tanto che nel Vangelo l’espressionenon vi sorprendano le tenebre (Giovanni 12:36) assume un significato tutt’altro che metaforico, se si contestualizza alla Giudea.

Nonostante tutto, ovvero nonostante le linee di Sykes-Picot, l’Oriente ha sempre mantenuto le sue particolarità, le sue imprevedibilità sfuggenti che, oblique, non possono che rompere i confini rigidi e diritti entro cui le potenze esterne cercano di dividere, indirizzare e contenere l’eterna corsa centripeta al potere, in ultima istanza razionalizzare tramite lo Stato un mondo che sta al di qua della dialettica ordine-conflitto. 

Le decine di eredi del sultano ottomano non accorrevano forse nella capitale per conquistare per primi la lealtà dei giannizzeri? La legittimità del potere non si fonda sempre sui metodi coi quali lo si è ottenuto e certo qualcuno dalle parti delle redazioni occidentali dovrebbe cominciare ad accorgersene se in qualche giorno la guida de facto della nuova Siria è passata da essere un terrorista ad un politico pragmatico e moderato. Aggrapparsi alla promessa di future elezioni è in questo senso oltremodo ingenuo eppure comprensibile giacché si è stati pienamente “sorpresi dalle tenebre” di un mistero, di un nodo di Gordio che da secoli non accenna a sciogliersi, dall’Iran alla Libia. 

La normalizzazione politica, della Siria come di molti altri paesi, non sembra possa arrivare da un processo democratico se lo stesso presuppone una omogeneità del popolo che è chiamato alle urne, a partire dalla stessa conta aritmetica dei voti. Non si può sommare qualcosa che è eterogeneo, in matematica come in politica. E l’omogeneità non è mai data a priori, ma è costruita scientificamente dalla politica, da un comando che è coazione all’unità, Hobbes docet. Nonostante ciò si continua a dare fin troppo peso e sostanza a quelle figure geometriche e sgraziate che sono gli Stati medio-orientali nati dopo la Grande Guerra, fingendo di ignorare che non sono che “tribù con la bandiera”, come ebbe a dire Samuel Huntington, siano esse alawite o tikrite. Già da questa prospettiva si scorge la prima aporia: la costruzione di una unità politica, di uno spazio pubblico pacificato implica classicamente nella dottrina hobbesiana un sovrano assoluto il cui potere sia incontestabile, ovvero un sovrano che contenga in sé, che rappresenti indistintamente tutti gli uomini i quali, diventati cittadini, alienano da sé la possibilità di far valere un potere autonomo, rinunciando al diritto di resistenza. La realtà nella sua interezza è svuotata dal potere, venendo concentrato in un unico punto, catturato nella forma del sovrano e quindi in quella dello Stato.   

Come è possibile questa inclusione massima (e questo svuotamento assoluto) in uno spazio in cui la legge religiosa è spesso modello per la legge civile, se non addirittura uno spazio costituito da comunità di fede opposte? In cui il politico per forza di cose non può svuotare una realtà da cui trae fondamento?

Il politico arriva a  poggiare così il suo potere sulla comunità di appartenenza, sulla tribù e dunque sull’esclusione di tutto il resto dei cittadini, invero “imprigionati” da confini già stabiliti. Il sovrano in Oriente non può che trasformarsi in tiranno. Una figura che chiama ad un nucleo di contraddizioni tutte interne allo Stato, le quali sfociano in periodiche guerre civili che noi facilmente derubrichiamo ad una sempiterna volontà di democratizzazione ma che appaiono invece come stimmate di una lotta sotterranea tra la forma statale, con la sua peculiare idea di uomo e di natura (tipicamente occidentale, per non dire cristiana) e la concretezza di una realtà composta da insiemi di comunità di fede che “riempiono” suddetto spazio e lo dotano di senso.

Da una parte dunque il sovrano che, nella sua tensione a costituire il Leviatano, è portatore in sé di una indifferenziazione estrema. Ovvero: agli occhi di un uomo di Stato l’ordine politico è sempre una questione tecnica e ingegneristica, dagli apparati burocratici all’esercito (come è evidente dalle dichiarazioni della Turchia a favore della Siria in questa direzione). Lo Stato è una macchina, una téchne politiké che si staglia sopra uno spazio vuoto e geometrico poiché delimitato razionalmente. I confini statali sono pura geometria, non rappresentano diverse qualità dell’essere come tra greci e barbari o tra musulmani e non. Non sono il punto estremo d’arresto delle legioni, com’erano per Roma, con una valenza solo temporanea. Lo spazio, la natura non presenta alcuna qualità così come gli uomini che la abitano. Esso è globalmente “vuoto”, perlomeno in potenza, come pressante possibilità della costruzione della forma politica statale e del suo contrario, l’anarchia. 

Dunque il problema dell’ordine non può che imporsi e assillare il sovrano. Esso deve neutralizzare ogni altra forma di potere, diretto e indiretto, militare e spirituale per rendere effettivo lo scambio interno protezione-obbedienza e acquisire così la libertà verso l’esterno. Il riconoscimento internazionale, lo scambio di ambasciatori e i trattati internazionali, ogni cosa è vincolata ad una precisa idea di mondo che è vivificato, reso antropomorfizzabile (e non già antropomorfo) da macchine politiche che si riconoscono come tali. Un mondo perciò totalmente desacralizzato.

D’altra parte in Oriente lo spazio è inteso come “pieno”, esso incarna l’essere e il contenuto di comunità di fede, individua santuari e città sante, ha già in sé un criterio di ordine che nella conflittualità chiede di essere ri-costituito (e non costruito da zero) come la narrazione del sionismo religioso riguardo la Grande Israele mostra bene. In Occidente non si comprende mai del tutto quanti e quali simboli e significanti celino certi luoghi perché per noi il mondo è assolutamente decentrato, indistintamente unito (tanto è vero che nemmeno il termine “Occidente” definisce un centro preciso). Lo spazio in Oriente è informato di centri di gravità, di vettori sacrali che danno senso e compimento all’ordine sociale, così come Roma dava senso all’Impero e poi alla Cristianità e Costantinopoli al cristianesimo ortodosso.

Lo spazio in Oriente è spazio imperiale sempre in potenza, perlomeno storicamente inteso nella stretta dialettica tra potere politico e religioso. Se in Occidente suddetto spazio si è creato tramite le lotte, gli accordi e la distinzione tra i due “Soli” danteschi in Oriente il confronto è tra due idee di natura compresse nell’ordine politico vigente. Lo Stato in Oriente è dissociato per definizione. Esso ha in sé la tensione tra una apertura politica a una pluralità di popoli che può sussistere solo nell’incontro-scontro con una istanza universale religiosa (dunque in una visione “centrata” dello spazio che inevitabilmente rompe i confini geometrici della politica statale), come il quasi-defunto Asse della Resistenza iraniano ha mostrato parzialmente in questi anni, e l’effettività dell’universale particolare che è lo Stato, il quale esiste solo nella misura in cui sia efficace, dunque solo nella misura in cui escluda il conflitto e la possibilità stessa di una moltitudine, di una divisione permanente tra popoli al suo interno. L’ordine interno presuppone ancora una volta omogeneità, che può essere costruzione di una Nazione in termini positivi e la relegazione dell’oggettività che pretende la religione al foro interno del cittadino in termini negativi, implicando in ogni caso il riconoscimento totale e senza riserve di un unico sovrano.  

Questa dissociazione è sicuramente data a livello storico-filosofico dall’essenza intimamente cristiana dello Stato, come affermava Hobbes. Solo un cristiano può essere compiutamente cittadino, solo un Leviatano che sia originariamente cristiano può essere Stato. Questo perché, come scrisse Marcel Gauchet ne “ Il disincanto del mondo” la possibilità della secolarizzazione, di un disincanto è possibile pienamente solo all’interno del Cristianesimo, nella sua divisione assoluta tra Dio e Cesare. Cristo per Hobbes è invero la fine di ogni tentativo di mediazione tra Cielo e Terra (perciò la fine di ogni pretesa di mediazione diretta e indiretta della Chiesa), dunque di un autonomo ordine spirituale ultramondano. L’ordine e la pace sono così possibili e pensabili come a loro volta autonomi sulla terra (e realizzabili solo dal Leviatano) in attesa che si instauri il Regno di Cristo in questo mondo. L’unione tra religione e politica, indicata dal fatto che per il filosofo inglese la pace derivi da un comando diretto di Dio, serve solo ad evidenziarne la concavità, il vuoto, l’assenza del divino nel mondo. Il Cristianesimo anzi è questa stessa assenza, questa desacralizzazione della Natura pagana pre-cristiana, il concentramento in un unico punto, Dio, di tutto il sacro, che permette nella nullità dello spazio la costruzione razionale dell’ordine sociale. La desacralizzazione del mondo permette il suo svuotamento politico (e il concentramento nella figura del sovrano, “luogotenente” di Dio). Cielo e Terra diventano due mondi autonomi, assolutamente trascendente e inintelligibile il primo, assolutamente meccanico, razionale e immanente il secondo.

Lo Stato in Oriente dunque non può far altro che persistere in questa originaria aporia mantenendosi in un precario equilibrio tra la forma statale (post-cristiana) e la dimensione imperiale (musulmana) sottostante. Abbracciare totalmente l’Impero e la sua idea di spazio e di politica da una parte vorrebbe dire infatti rinunciare ad un ordine interno razionale, aprendosi sia alla possibilità dell’inclusione sia a quella della frammentazione, poiché sempre si è circondati da Stati la cui libertà verso l’esterno è tanto maggiore quanto più la costruzione dello spazio pubblico interno è perfetta. Dall’altra parte usare un veicolo imperiale per espandere la forma statale porterebbe solo ad un imperialismo coloniale, dunque ancora più instabile poiché avrebbe in sé la possibilità delle guerre etniche o di liberazione, volendo mantenere la fisionomia di un ordine statale (che presuppone l’imposizione di una particolare omogeneità su altre, verso cui non può esserci alcuna inclusione). Ogni guerra dal Novecento ad oggi ha presentato in questo senso il conto tramite vere e proprie pulizie etniche o “scambi di popolazione”, attraverso cui lo Stato “purifica” il suo spazio pubblico e lo unisce. 

Lo Stato può infatti solo imitare la sostanza imperiale, tanto è vero che gli Stati europei erano Imperi solo al di fuori dell’Europa, la loro essenza legata unicamente alla estensione quantitativa e universale che rappresentavano le colonie (la regina Vittoria era imperatrice d’India, non d’Inghilterra). Lo Stato infatti ha sempre in sé la misura estrema dell’immanenza, di una indifferenziazione totale, geometrica e orizzontale che non concorda con quella verticale e sacrale dell’Impero.

L’idea di Impero moderno non nasce perciò da un incontro-scontro con una dimensione religiosa ma dall’universalizzazione (quindi dalla credenza di una presunta autonomia e naturalità anteriore alla genesi dello Stato) di un particolare, del contenuto nazionale o razionale dell’ordine interno. 

L’universalizzazione del primo è rappresentato dal Terzo Reich, quella del secondo dall’Impero Francese. Tutt’e due distanti tanto dall’Impero storico quanto reciprocamente.

L’Impero napoleonico così come quello americano infatti incarnano la via di mezzo, surrogato moderno della mediazione tra Cielo e Terra, ovvero la mediazione tra particolare e universale rappresentata da una idea politica che abbia in sé l’universale. È il caso dei grandi concetti della Modernità: la Libertà, la Ragione, il concetto di individuo, i diritti naturali (non a caso entrambi gli Imperi sono figli delle due grandi rivoluzioni liberali) attraverso cui uno Stato può rimanere in equilibrio, tenendosi in forma e allo stesso tempo aprendosi ad un dominio imperiale che vada al di là della sua particolarità. Ancora una volta è però tutto da dimostrare, e facile da smentire, l’effettiva universalità di questi concetti (se non bastassero i riscontri empirici dalla Cina all’Iraq) i quali non possiedono una forza autonoma per sfuggire al Politico messo in forma di Stato, per sfuggire all’universale particolare che ne dispone in ultima istanza nei suoi disegni di potenza. In fondo anche l’idea politica nasce in uno spazio già razionalizzato e vuoto e solo al suo interno può essere pensabile, non prima e non dopo l’esistenza di un ordine statale già dato.

Nell’impossibilità di creare un’idea politica (poiché bisognerebbe perlomeno averla inventata la Modernità) gli Stati in Oriente non possono fare altro che riprodurne in modo vago i contorni tramite l’adesione al sistema del diritto internazionale e ai suoi capisaldi concettuali come il rispetto dei diritti politici e civili, la libertà religiosa e di pensiero, l’autodeterminazione (democratica) dei popoli… semplicemente lo Stato sta “dentro” senza poter e voler realizzare questi concetti mai del tutto, pena lo scontro sotterraneo con la propria essenza. Dopotutto le più durature dittature “laiche” hanno prodotto i più grandi movimenti dell’Islam politico ed è noto lo sforzo continuo nella storia della Repubblica Turca, tramite auto-colpi di stato militari, di stare “dentro” ai concetti secolari dello Stato.

Nessuno può sfuggire a questa entropia politica. Costretti a essere Stati, poiché si è in un mondo di Stati, dunque costretti a perseguire e costruire un ordine che si ribalta inevitabilmente in guerra civile, unica cosa veramente stabile in Oriente (che non a caso i greci chiamavano stasis). 

In quest’ottica si potrebbe rielaborare anche la teoria dell’overstretch imperiale, ovvero l’eccessivo “allungamento” di un Impero oltre le sue condizioni socio-economiche che ne causa la rovina. Invece di dipendere solo da fattori materiali questa teoria potrebbe derivare, in un’epoca prettamente moderna, dallo scontro e dall’inclinazione di uno Stato tra le sue due forme, statale e imperiale, con tutte le contraddizioni e i pericoli insiti nei due casi.

In Oriente ciò è tanto più visibile poiché la maggior parte degli Stati (contrariamente all’Occidente) persiste in equilibrio, ovvero rimane nel perimetro molto poco definito di idee politiche altrui. 

Rispetto alla situazione concreta sono già individuabili, nei nuovi scenari che vanno delineandosi, i maggiori casi: la Turchia, divisa tra neo-ottomanesimo e kemalismo repubblicano, Israele, tra sionismo religioso e il suo essere pienamente integrata nel sistema delle democrazie, l’Iran, tra la teocrazia sciita e il fantasma dello Stato laico.

Arrischiandosi nella analisi storica si possono già schizzare, secondo quanto si è detto, alcune opzioni di scenari futuri per suddetti Stati. La Turchia in questa prospettiva è sempre più posta davanti ad una scelta tra le due strade nella misura in cui ascende progressivamente al rango di potenza regionale. La scelta dipenderà molto dagli effetti dell’islamizzazione messa in atto da Erdogan e quanto la politica che la sostiene sarà efficace nello sconfiggere i rivali “fraterni” (i quali invero non paiono di grande levatura) e non (lo scontro più marcato con Israele porterà sicuramente in questo senso ad un rafforzamento dell’Islam politico e alla rivendicazione di una guida anche spirituale). La via di ritorno che porta all’Impero è però un salto nel vuoto dagli effetti difficilmente calcolabili dopo un secolo di Repubblica e porta con sé la paura della frammentazione, timore che in un area composta da Stati “nazionali” è tutt’altro che relegata alla psiche collettiva.  Le altre due vie, più mediana come quella attuale ovvero lo stare in forma in idee politiche altrui e l’opposto dell’imperialismo statale, non sono meno instabili dal punto di vista dell’ordine politico complessivo, ma certo dagli effetti più prevedibili. Oltre al fatto che come già visto queste due opzioni sono più “deboli” in se nel mantenere in modo duraturo un dominio quantitativamente ampio si impone una riflessione più globale sui metodi che queste vie richiedono per mantenere ed espandere il dominio: accordi commerciali e militari, lo strumento del soft power, l’uso di milizie, mercenari e di strategie di destabilizzazione ibride certo si celano tra le pieghe dei formalismi del diritto internazionale ma sul lungo periodo sarà, come è sempre di più, la forma stessa dello Stato a venir meno: se tutto il mondo è Stato tutto il mondo è monopolio interno della violenza: la destabilizzazione e le guerre ibride diventano la norma nel paradosso che si ripoliticizza tutto l’esistente (e dunque se tutto è politica niente più è Stato).

Per quanto riguarda Israele è da scartare l’opzione imperiale nel senso descritto prima: religione e sangue sono in questo caso reciprocamente legati in un modo che porterà, come sta portando, a metodi coloniali sempre più marcati. Una forma di dominio che certamente si esaspererà con l’accentuarsi del profilo religioso, provocando un allontanamento dallo Stato occidentalmente inteso, come si è visto poco tempo fa nelle grandi proteste contro la riforma sulla giustizia. Lo Stato d’Israele è uno Stato inevitabilmente e paradossalmente “centrato” che rompe ogni geometria, le proprie e quelle contigue. Esso sconta però questa compressione tra religione e sangue che causerà probabilmente uno squilibrio sempre più marcato, un overstretch tra istanza religiosa e l’ordine interno limitato. Sulla corsa di Israele al predominio regionale si stagliano nere le nubi delle guerre d’annientamento e il rischio di auto-annientamento. Un pericolo che discende dalla natura stessa della fede ebraica, come Franz Rosenzweig evidenziava già un secolo fa nel libro “La stella della redenzione”. Nel rapporto dell’ebraismo con l’eternità (una fede di sangue non ha il problema del tempo come una fede di volontà e speranza come quella cristiana) esso rischia infatti di perdere qualsiasi legame con la storia. 

Roma, Dicembre 2024. XXII Martedì di Dissipatio

Riguardo l’Iran la perdita di uno spazio imperiale rappresentato dall’Asse della Resistenza causerà un ripiegamento su di sé della teocrazia. Contrariamente alla Turchia (poiché l’Iran è inclinato molto di più nella dimensione dell’Impero) però il possibile venir meno del regime degli Ayatollah, della dialettica politica-religione e la sua normalizzazione in Stato potrebbe causarne la frammentazione. L’imposizione di un ordine politico artificiale come già visto condurrebbe alla guerra civile e alla dittatura, essendo l’Iran formato da numerose etnie accomunate solamente dallo sciismo. Solo l’ascesa della Turchia ad una dimensione superiore (o il recupero di una dimensione esterna attualmente poco praticabile) potrebbe evitare il collasso iraniano, rivitalizzandone le spinte imperiali. Se ciò non accade è del tutto probabile che sul lungo periodo il regime degli Ayatollah cadrà e si avrà un tiranno, questa volta pienamente politico.

In ogni caso e a dispetto di tutte le previsioni nulla può intaccare la certezza che ad Oriente la volta celeste continuerà a girare al ritmo delle preghiere, all’ombra collinare delle cupole e sotto boschi di croci, tra i deserti e le oasi di santuari nascosti fino in cima ai monti sacri. Continueranno all’orizzonte cosparso dell’incenso dei pensieri cupi e affannati di vecchi e nuovi sovrani, pronti a farsi trascinare furiosamente, come il calare della notte, sui loro sogni di gloria.

I più letti

Per approfondire

Tutto il bene che ha fatto l’Occidente

Federico Rampini, nel suo libro Grazie, Occidente! (Mondadori, 2024), presenta una difesa audace del ruolo dell’Occidente nella storia recente. Con uno stile incisivo, sfida le semplificazioni e le critiche comuni, evidenziando come il progresso economico, scientifico e sociale globale sia strettamente connesso all’influenza occidentale.

L’exit strategy passa dalla Sublime Porta

Il Sultano non è meno pragmatico di Emmanuel Macron e Naftali Bennett, ma ha qualcosa che loro non hanno e che non possono dare allo Zar: le famigerate garanzie di sicurezza

Nasrallah e il fronte di dissuasione

A gennaio le forze armate israeliane hanno condotto una serie di attacchi in territorio libanese culminati nell’assassinio dell’alto dirigente di Hamas, Salih Aruri, nella periferia sud di Beirut. Nello stesso periodo lo Stato ebraico ha eliminato Wissam Tawil, uno dei comandanti militari di Hezbollah, che si aggiunge agli oltre 160 combattenti caduti dall'inizio delle ostilità. Il “Partito di Dio” in risposta ha preso di mira due basi militari israeliane a dieci e venti chilometri dalla linea di demarcazione con il Libano. La priorità di Hezbollah resta preservare le posizioni acquisite ed evitare l’escalation.

Il secolo in-finito di Sergio Vento

Il Novecento, definito “secolo breve”, si rivela oggi ben più vasto e influente del previsto. Questa è la tesi al centro de "Il secolo XX non è finito. Transizioni e ambiguità" (Rubbettino, 2024), saggio di Sergio Vento, in cui l’ambasciatore esplora il Novecento da diplomatico e testimone delle trasformazioni globali. Unendo autobiografia e analisi storica, Vento invita a rileggere le eredità del secolo scorso per capire le sfide del presente, offrendo una lucida anatomia della politica estera italiana e delle questioni internazionali che ancora ci toccano.

Il dragone e l’aquila: le potenze del capitalismo politico

Lo scontro tra Cina e Stati Uniti passa dal dominio del mare, dalla guerra commerciale, dalla potenza di Huawei nelle telecomunicazioni, dal tentativo cinese di autonomia strategica nell’ambito dei semiconduttori. Ne parliamo con Alessandro Aresu, direttore della Scuola di Politiche e consigliere scientifico di Limes.

Gruppo MAGOG