OGGETTO: Tutte le strade portano a Damasco
DATA: 02 Dicembre 2024
SEZIONE: Geopolitica
La Siria ritorna teatro di scontro tra potenze. Ma l'offensiva delle forze anti-Assad è solo la punta dell'iceberg. A Damasco si intrecciano, oggi più che in passato, gli interessi delle principali potenze regionali e globali. Un rimescolamento delle carte che rischia di far piombare la Siria nuovamente nel caos.
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La recente offensiva dei gruppi anti-Assad nel nord-ovest della Siria ha colto molti di sorpresa. Pur non essendosi conclusa la guerra civile e rimando divisa fra diverse fazioni, nell’ultimo anno di crisi mediorientale la Siria è rimasta parzialmente in disparte. Gli scontri non sono mai del tutto cessati, ma un’offensiva del genere non si vedeva dal 2019.

Dopo nove anni di guerra civile, dal 2020 la situazione in Siria si era relativamente stabilizzata. Assad, sostenuto da Russia e Iran, è riuscito a mantenere il controllo su una parte del Paese, che però resta profondamente frammentato: a nord-ovest dominano i gruppi legati direttamente (SNA) o indirettamente (i jihadisti di HTS) alla Turchia, mentre a nord-est, lungo la sponda orientale dell’Eufrate, si trovano le forze curdo-siriane (SDF).

Dal 7 ottobre 2023, Damasco ha cercato di non esporsi per paura di essere trascinato nel più ampio conflitto tra Gerusalemme e Teheran. Ma mercoledì 27 novembre 2024, il giorno stesso dell’entrata in vigore dell’accordo tra Israele e Hezbollah sul cessate il fuoco in Libano, il gruppo Hayat Tahrir al Sham (HTS) insieme ad altre formazioni anti-Assad (come SNA) e al supporto della Turchia, ha lanciato un’offensiva nel governatorato di Aleppo. Operazione evidentemente preparata da tempo e che ha preso alla sprovvista le forze governative, costrette a ripiegare senza riuscire ad opporre resistenza. La città di Aleppo, la seconda città siriana, è caduta sotto il controllo dei ribelli nel giro di 72 ore.

Impossibile ora prevedere i prossimi sviluppi dal punto di vista strettamente militare, così come le tempistiche. La situazione è infatti in continua evoluzione. Ciò che è possibile, anzi è necessario svolgere, è una riflessione geostrategica più ampia rispetto alla collocazione della Siria nelle dinamiche internazionali odierne, del tutto diverse rispetto al passato.

In un contesto nel quale i teatri di crisi si intrecciano e il sistema internazionale tende sempre più a polarizzarsi, la questione siriana acquista tutt’altra luce. Per comprendere gli sviluppi attuali e futuri in Siria, quindi, è necessario fare un passo indietro e spostare il focus su Gerusalemme, Teheran, Ankara e, allargando ulteriormente lo sguardo, su Mosca e Washington.

A partire dal 7 ottobre 2023, Hezbollah si è subito attivato nell’apertura di un secondo fronte contro Israele in “solidarietà con i palestinesi“. Il Partito di Dio è senza dubbio il più pericoloso dei “bracci armati” di Teheran, disponendo di decine di migliaia di miliziani e di un cospicuo arsenale militare.

Per Israele, quindi, l’indebolimento di Hezbollah è un elemento essenziale per la sua sicurezza nazionale. Dopo i continui attacchi missilistici compiuti da Hezbollah nel nord di Israele, nel settembre 2024 Gerusalemme ha risposto con forza, decapitando i vertici dell’organizzazione ed avviando un’operazione di terra nel sud del Libano con l’obiettivo di riportare il Partito di Dio a nord del fiume Litani. Israele è riuscito ad indebolire considerevolmente l’organizzazione libanese, ma pensare di sradicarla completamente è irrealistico. Per questo, contestualmente all’acuirsi dello scontro in Libano, Gerusalemme ha intensificato gli attacchi alle postazioni dell’Iran e di Hezbollah in Siria.

Non sono mancate le minacce (dirette e indirette) rivolte a Damasco, chiamato ad impedire che il flusso di armi continui a riversarsi verso il Libano e quindi verso Hezbollah. In verità, già da tempo si sospetta che Assad abbia iniziato a vedere nell’Iran un alleato scomodo e i motivi sono diversi.

La diminuzione del peso di Teheran, infatti, potrebbe servire non solo come strumento per attenuare i rischi di attacchi israeliani sul territorio siriano, ma anche come leva per migliorare i rapporti con le Monarchie del Golfo. Questi Stati, tradizionalmente ostili all’Iran, potrebbero essere più inclini a investire nella ricostruzione della Siria e a normalizzare le relazioni diplomatiche con Damasco in un quadro di ridimensionamento della presenza iraniana.

Ma l’aspetto economico è vincolato soprattutto al regime sanzionatorio al quale la Siria è soggetta da anni, in particolare il Caesar Syria Civilian Protection Act, che include severe sanzioni contro chiunque fornisca supporto al governo siriano, soprattutto nei settori della ricostruzione, della finanza e del commercio. Non a caso, poche settimane fa, il ministro per gli Affari strategici israeliani Ron Dermer ha suggerito all’amministrazione americana di allentare le sanzioni sulla Siria in cambio di un’interruzione dei trasferimenti di armi verso Hezbollah.

Ulteriore fattore che potrebbe spingere Damasco ad allentare la presa di Teheran, sarebbe la possibilità per Assad di riappropriarsi di parte della sovranità siriana, gravemente erosa durante il conflitto decennale. L’influenza di potenze esterne come l’Iran, infatti, se da un lato ha permesso ad Assad di conservare il potere, dall’altro ha limitato la capacità del governo siriano di prendere decisioni autonome, sia in ambito militare che politico. Ridurre la dipendenza da Teheran potrebbe consentire ad Assad di rafforzare il controllo del regime sulle dinamiche interne del Paese.

Questo processo potrebbe anche avere implicazioni simboliche e pratiche per l’autorità di Assad: riaffermare la sovranità significherebbe consolidare il potere centrale e rilegittimarsi non solo agli occhi della comunità internazionale, ma anche di una popolazione siriana che ha vissuto anni di conflitto e interferenze esterne.

Ma per ottenere un simile accordo è necessario convincere soprattutto Mosca, le cui posizioni in Siria non possono essere messe in discussione – le basi militari russe in territorio siriano, e in particolare la base navale di Tartus, sono elementi imprescindibili della proiezione russa al di fuori del Mar Nero.
Per questo Ron Dermer, subito dopo la vittoria di Trump, era volato a Mosca per poi dirigersi negli Stati Uniti ad incontrare Trump e Blinken. È evidente che Gerusalemme intraveda una possibile convergenza di interessi con Damasco, Mosca e Washington nel limitare l’influenza iraniana in Siria.

Roma, Ottobre 2024. XX Martedì di Dissipatio

Anche la Russia, infatti, potrebbe vedere con favore tale soluzione, nonostante la collaborazione tra Mosca e Teheran nel conflitto siriano. Questa alleanza, più un matrimonio di convenienza che un autentico allineamento strategico, è caratterizzata da interessi divergenti che potrebbero spingere Mosca a limitare l’influenza di Teheran nella regione.

L’Iran, infatti, rappresenta un concorrente nella proiezione di potere in Siria, un Paese cruciale per gli interessi geopolitici russi. Sebbene utile in passato per sostenere il regime di Bashar al-Assad, la presenza iraniana oggi riduce la capacità di Mosca di esercitare un controllo esclusivo sul processo decisionale del Paese.

Inoltre, i ripetuti attacchi israeliani contro obiettivi iraniani in Siria rappresentano un rischio per la stabilità regionale e per gli interessi russi. Tali azioni, infatti, mettono in pericolo asset strategici russi, come la base di Hmeimim e il porto di Tartus. Una Siria meno esposta alla rivalità tra Iran e Israele offrirebbe a Mosca maggiore sicurezza per proteggere le proprie posizioni.

Infine, la Russia potrebbe utilizzare la riduzione dell’influenza iraniana come leva negoziale con gli Stati Uniti su altre questioni globali, come le sanzioni economiche o il conflitto in Ucraina.

D’altra parte anche gli Stati Uniti avrebbero buoni motivi per perseguire tale obiettivo, soprattutto con la nuova presidenza.

L’amministrazione Trump, infatti, rispetto alla precedente, si distingue per un pragmatismo disincantato e un approccio cinico che le consentono di dialogare anche con interlocutori ideologicamente distanti. Questa attitudine potrebbe rafforzare la credibilità delle intenzioni americane agli occhi di Damasco e Mosca, traducendosi così nella disponibilità a negoziare un accordo sulla Siria, il quale porterebbe almeno tre vantaggi: rafforzare la sicurezza di Israele, ostacolare la proiezione strategica di Teheran verso il Mediterraneo e, al contempo, fomentare potenziali tensioni tra Mosca e Teheran.

Fino al 27 novembre, era plausibile ritenere che un eventuale accordo sulla Siria si sarebbe potuto concretizzare subito dopo l’insediamento di Trump, anche in risposta alle probabili pressioni israeliane per impedire che la tregua in Libano offrisse ad Hezbollah l’opportunità di riarmarsi.

A scompigliare le carte, però, sono intervenuti i gruppi ribelli del nord-ovest della Siria, come HTS e SNA, dietro i quali si celano (nemmeno troppo velatamente) le ambizioni di Ankara.

La Turchia, infatti, dopo un anno trascorso all’ombra della rivalità fra Israele e Iran, ha deciso di rientrare prepotentemente nel gioco mediorientale. Per farlo, ha scelto di agire in Siria, comprendendo che oggi, più che in passato, è a Damasco che si determineranno gli equilibri regionali. Ankara sta inviando segnali agli altri attori internazionali, sottolineando che saranno costretti a tener conto delle sue posizioni, se non vogliono rischiare di affrontare nuovamente il caos siriano. Un messaggio rivolto principalmente agli Stati Uniti (soprattutto al nuovo presidente) e alla Russia.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la mancata riconciliazione tra Assad ed Erdogan. Da mesi si parlava di un possibile incontro tra i due. Assad era stato riammesso nella Lega Araba e stava riacquisendo legittimità internazionale. Sentendosi rafforzato da questi cambiamenti, ha posto come condizione per la riconciliazione il ritiro delle forze turche dal territorio siriano, rifiutandosi nel frattempo di siglare un accordo per il rientro dei rifugiati siriani presenti in Turchia. Tutto ciò, unito all’intensificazione dei bombardamenti a Idlib nelle ultime settimane, hanno scatenato l’ira di Ankara.

In tale contesto, l’indebolimento delle posizioni di Teheran ed Hezbollah in Siria è, al tempo stesso, causa della recente crisi nel nord-ovest, obiettivo che accomuna diversi paesi (Israele, Turchia, Usa e Monarchie del Golfo) e mezzo con il quale la Turchia vuole dimostrare la sua forza nel determinare le sorti del paese.

Se Israele, finora, ha agito per raggiungere un accordo con Assad e Putin, la Turchia invece ha preso proprio di mira le forze governative e chi le sostiene, così da dimostrare di poter raggiungere con la forza ciò che altri aspirano ad ottenere tramite accordi.

Se l’Iran dovrà cedere terreno in Siria, la Turchia vuole coprire parte del vuoto lasciato, altrimenti farà saltare il banco. Questa è forse la spiegazione più plausibile di ciò che sta accadendo in questi giorni.

Dopo un anno di guerra, Teheran e Hezbollah sono stati fortemente indeboliti, mentre i rivali regionali si precipitano a infliggere un ulteriore colpo, lottando per assicurarsi la loro parte del bottino.

Nei prossimi giorni e settimane si capirà fin dove è disposto a spingersi Erdogan e se tale offensiva convincerà Assad e Putin a ricercare un accordo con Israele e Stati Uniti per tentare di salvare il regime. Gli stessi israeliani e americani vorranno probabilmente giungere ad un’intesa, per scongiurare il rischio che il probabile vuoto lasciato da Teheran si trasformi in caos.

Tuttavia, seppur tra mille difficoltà, è difficile immaginare che Teheran resti a guardare mentre viene spodestata dal suo avamposto. Vi è quindi il rischio che si venda la pelle dell’orso prima di averlo ucciso.

Alla luce di questi presupposti, è plausibile immaginare un futuro in cui la Siria venga ulteriormente ridimensionata nel nord-ovest, con l’Iran parzialmente fuori dai giochi e Russia e Turchia protagoniste con la benedizione di Washington e Gerusalemme.

La Siria dovrà sopravvivere ancora una volta alla sua maledizione: tutte le strade portano a Damasco.

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