OGGETTO: Perdere la faccia
DATA: 24 Febbraio 2023
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Asia
Passato un anno dall'invasione in Ucraina, Russia e USA sono mossi più dalla necessità di non giocarsi la credibilità che dalle prospettiva di vittoria.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Sono da poco sorte le prime luci dell’alba del 24 febbraio 2022 quando le colonne corazzate russe attraversano il confine con l’Ucraina. Il conflitto al rallentatore che per otto anni ha insanguinato il Donbas, regione nell’Est del Paese contesa tra il governo filo-occidentale ed un gruppo di separatisti sostenuti da Mosca, giunge d’improvviso ad una culminazione esplosiva. Nel giro di qualche giorno le truppe del Cremlino occupano gli importanti centri urbani di Kharkiv e Kherson, ma è la capitale il vero bersaglio: i sobborghi di Kiev diventano teatro di cruenti scontri tra gli invasori e le milizie locali che, anche grazie alle armi ad alta tecnologia fatte frettolosamente arrivare da USA, Regno Unito ed Europa, riescono infine ad arrestare l’avanzata nemica. Da colpo di mano, l’Operazione Militare Speciale, così la chiama sardonico Putin, si trasforma in guerra di manovra. Raggruppatisi, all’inizio dell’estate i russi prendono Severodonetsk e Lysichansk; gli ucraini contrattaccano a sorpresa, e per novembre tornano in possesso di una vasta porzione del territorio perduto. La battaglia arriva nelle retrovie; le città vengono ridotte in macerie da un’incessante pioggia di missili, mentre i due schieramenti attendono esausti il disgelo primaverile.

Questa è, al momento della stesura, la situazione sul fronte. Uno stallo sostanziale, intervallato però da ferocissime parentesi di violenza che lasciano presagire la possibile fine di una quiete soltanto apparente. Dopo mesi di combattimenti senza quartiere, lo snodo strategico di Bakhmut — o quel che ne rimane — sarebbe in procinto di essere accerchiato; da qualche settimana simili azioni di consolidamento si susseguono lungo tutta la linea di contatto. Krasnaya Gora, a metà tra Bakhmut e Soledar, recentemente conquistata dai russi, è anch’essa isolata in una sacca; Bilhorivka e Kreminna, nell’oblast di Luhansk, sono oggetto di intenso fuoco d’artiglieria e ripetuti attacchi esplorativi, preludio a loro volta di una rinnovata manovra a tenaglia. All’esercito ucraino la prossima mossa: convergere su Siversk, probabile obiettivo delle spinte avversarie; retrocedere e compattarsi attorno alle roccaforti di Lyman, Kramatorsk e Sloviansk; o tentare il tutto per tutto muovendo verso Sud, nel settore di Kherson, nella speranza d’interrompere il collegamento terrestre con la Crimea e spostare l’asse della contesa sulla penisola.

Ormai saltato qualsiasi margine per dei negoziati, il tempo stringe. La devastazione sistematica delle infrastrutture civili e le pesanti perdite sostenute impongono a Kiev di riguadagnare subito l’iniziativa, pena il definitivo scorporamento di un’area che pur dato conto dei risultati ottenuti in autunno rimane di notevole estensione; non diversa la situazione dall’altro lato della barricata, dove parimenti si avverte sempre più forte il bisogno di segnali positivi da una campagna oltremodo dilatatasi per durata e dimensioni. Sebbene in patria la Spetsoperatsiya continui a godere di un appoggio trasversale, gli elettori — già in passato assai critici delle percepite titubanze dell’esecutivo e degli alti comandi — non sono disposti a tollerarne la continuazione ad oltranza, e men che meno nuovi insuccessi: Putin, in lizza per il quinto mandato nel 2024, sa di dover chiudere la parentesi bellica entro breve ed in maniera tale da potersi intestare una vittoria, anche allo scopo di soffocare i malumori emersi nella sua cerchia interna.

L’ipotesi di un ulteriore protrarsi delle ostilità risulta altrettanto preoccupante da un punto di vista economico: l’Ucraina sopravvive soltanto grazie alla interessata generosità dei suoi partner stranieri, ben consci dell’influenza che il credito accumulato garantirà loro sul Paese nel dopoguerra, mentre il bilancio russo registra il peggior deficit dal 1991. Circa un trilione di rubli — quarantasette miliardi di dollari — di disavanzo, interamente frutto dell’aumento stratosferico delle spese militari (+150%, duecento miliardi di dollari in totale; nel 2022 ne erano stati allocati alla Difesa ottanta) deciso nonostante il vero e proprio crollo degli introiti derivanti dall’esportazione di combustibili fossili, calati della metà su base mensile. Prosegue così la partita energetica con l’Unione Europea, che dopo aver pressoché azzerato il flusso di gas naturale dalla Federazione si prepara a fare lo stesso col greggio; Mosca risponde annunciando un taglio della produzione del 5%, cui si deve aggiungere la riduzione dell’output petrolifero appena implementata dai sauditi.

Nuovi rincari si profilano all’orizzonte per i consumatori del Vecchio Continente, ancora alle prese con la forte inflazione; la Banca Centrale non può permettersi di aggravare il fenomeno con un piano strutturale di aiuti, e riesce difficile credere che i singoli Stati siano in grado di replicare i massicci interventi (nel complesso sono stati spesi ottocento miliardi di euro, cinquanta in più del programma post-pandemia Next Generation EU) messi in atto questo inverno per contrastare l’incremento dei costi dell’energia. Ritrovatasi schiacciata tra le pressioni degli alleati ed un consenso interno affatto unanime, a Bruxelles non resta che ricorrere all’ennesimo pacchetto di sanzioni, il decimo da marzo scorso, stavolta incentrato sulle componenti elettroniche. Una misura la cui reale efficacia è a dir poco incerta, se si considera che soltanto un’azienda su nove avrebbe interrotto le attività in Russia; i beni in teoria sottoposti ad embargo circolano liberamente, distribuiti attraverso una rete di intermediari tra i quali spicca la Turchia, persistente spina nel fianco della NATO. 

Davanti al fallimento de facto delle restrizioni sul commercio e col sistema dei price caps in lavorazione, ad oggi la strada militare si palesa per il blocco pro-Ucraina come l’unica percorribile. Non a caso Jens Stoltenberg ha invitato i membri del Patto Atlantico ad innalzare il livello minimo delle scorte di munizioni, ovunque parecchio risicate: l’inedita richiesta — il Segretario si è di norma mostrato restio a ricoprire un ruolo di coordinamento davvero proattivo, preferendo lasciare a ciascun componente una certa autonomia — può essere interpretata come un cambio di passo contestuale a quello intrapreso da diversi Paesi sul tema delle forniture di armamenti. Insieme al dibattito apertosi sui caccia, l’invio di mezzi corazzati mette a nudo le crescenti perplessità dei vertici dell’alleanza rispetto alle tempistiche di un confronto che, per quanto le abbia senza dubbio permesso di indebolire nettamente uno dei suoi principali competitors, rischia sul lungo termine di ostacolarne la pianificata espansione globale e l’agenda anticinese ad essa legata.

È insomma evidente che presso ambo i campi sia maturato il desiderio (e la necessità) di pervenire il prima possibile ad una conclusione definitiva della vicenda, della quale le reciproche offensive dovrebbero essere strumento. Tuttavia, le circostanze attuali danno motivo di dubitare della loro presunta risolutività. La mobilitazione voluta dal Cremlino in settembre ha ribaltato l’equilibrio di forze sul campo: Mosca può adesso schierare fino a 500mila uomini, laddove voci insistenti — corroborate, va detto, dall’introduzione di una legge draconiana contro i disertori — sottolineano gravi lacune nel programma di reclutamento di Kiev. Se da una parte la sperequazione nel personale disponibile implica che un eventuale attacco ucraino dovrebbe superare una resistenza molto più organizzata e profonda di quella incontrata nelle precedenti occasioni, dall’altra il repentino rigonfiamento dei reparti potrebbe rivelarsi un peso eccessivo per la fragile catena logistica russa, il che andrebbe inevitabilmente a blandire il vantaggio numerico acquisito.

Una rottura delle difese avversarie risulterebbe per gli uni e per gli altri in guadagni tattici limitati, insufficienti a causare un collasso su vasta scala, ma utili in vista della stagione calda: in definitiva, la guerra è destinata a continuare. Tanto si evince dalle parole dello stesso presidente russo, che nel suo discorso alla nazione ha ribadito la volontà di andare avanti, e di Yevgeny Prighozin, capo dei famigerati mercenari del Gruppo Wagner, secondo cui sarà necessario un altro anno per la sola conquista del Donbas. Sullo sfondo della cronica penuria di materiale, l’Ovest deve correre ai ripari come può; Biden promette aiuti multimiliardari, Downing Street caldeggia l’invio di missili a lungo raggio, l’UE pare intenzionata a dar fondo ai propri stock di armamenti. Determinazione o disperazione? Dalla risposta a questo quesito dipende verosimilmente l’esito del conflitto. 

L’affaticamento inizia a farsi sentire. Gli arsenali sono vuoti, le casse quasi, e si ha l’impressione che manchi una strategia d’insieme: al di là della retorica, nessuno sa per certo in che modo fermare il bagno di sangue, né cosa fare in seguito. Il costo politico di una trattativa sarebbe proibitivo, non solo per Zelensky; in gioco c’è la credibilità a livello globale delle classi dirigenti euro-americane, che da par loro sembrano impegnate ad alzare la posta senza un criterio eccetto l’autoconservazione. L’ostentato oltranzismo delle cancellerie e della stampa cozza con la consapevolezza ineludibile che non eravamo, e non siamo, pronti. Mancano i mezzi per proseguire la lotta, e il tempo per procurarseli; alla chimera di una vittoria schiacciante si sostituisce il tacito augurio di non rimetterci la faccia, in una parabola identica a quella, rovinosa, dei russi. Può darsi che alla fine il Cremlino riesca davvero a spuntarla; chi scrive ritiene più plausibile che si torni al punto di partenza.

La prospettiva di un riaffacciarsi della stessa impasse che paralizzava il Donbas è surreale. Sono invece fino troppo reali i morti, lascito tragico di questi trecentosessantacinque giorni di guerra: la pace, per ora, l’hanno vista solamente loro.

I più letti

Per approfondire

Tra la falce e il martello

La Moldavia vive in un limbo geopolitico fatto di possibilità europee, imperitura nostalgia sovietica, e rischi di donbassizzazione.

«Se ci chiediamo cosa sarà il dopo-Putin io vedo una Russia sempre più isolata». L’analisi di Carolina De Stefano

L'ultimo libro di Carolina De Stefano - Storia del potere in Russia. Dagli Zar a Putin - è un viaggio lungo mille anni alla ricerca dello spirito russo.

Uno e trino

La solitudine di Viktor Orbán.

La grande guerra di Secessione

Vladimir Putin non è impazzito, non gli interessa il consenso dell’opinione pubblica, tantomeno che gli analisti comprendano le sue ragioni. Vladimir Putin ha deciso che il destino della Russia è fuori dall’Europa.

Un abbaglio chiamato Dottrina Gerasimov

È uno dei più grandi equivoci dell'attualità. È uno dei falsi miti sulla Russia contemporanea più duri a morire. È l'isola che non c'è delle scienze strategiche. È una delle massime espressioni del precario stato di salute della cremlinologia occidentale. Stiamo parlando dell'inesistente dottrina Gerasimov.

Gruppo MAGOG