C’è poco da far polemica dunque sulla liberazione di Silvia Romano, che grande notizia, ma un dibattito ragionato è necessario soprattutto per migliorare il sistema della Cooperazione italiana, uno dei migliori sistemi di cooperazione nel mondo, forma altissima di “soft power” in cui mettiamo la nostra eccellenza in zone di crisi o di frontiera al servizio del radicamento dei popoli. E Silvia Romano, nel bene o nel male, era un ingranaggio di questa macchina umanitaria, e come tanti altri cooperanti nel mondo tutelava, in questo caso in Africa, il “diritto a non emigrare” di una comunità popolata dai Giriama definita da Alberto Negri “una delle tribù più miti e ospitali del Kenya”.
Guardare “Timbuktu”, per capire il radicalismo africano, prima di parlare di “brainwashing”.
Poi il rapimento da parte del gruppo armato Al Shabaab, e il trasferimento in Somalia, dove ha trascorso 18 mesi di prigionia, l’annuncio della liberazione. Il rapimento è la via terroristica africana al sostentamento dell’economia di guerriglia, in territori in cui non può esistere un’economia parallela strutturata, de facto queste operazioni di intelligence si possono risolvere in tre modi: col blitz, con la trattativa o col pagamento del riscatto. Queste partite si giocano in una dimensione parallela, profonda, non trasparente, di basso profilo, come è giusto che sia. Esistono queste zone grigie, lunghe negoziazioni, senza proclami, partite e contro-partite, in questo caso con la Turchia, che ha collaborato al livello di intelligence per la sua liberazione, ed è sempre più influente nel Corno d’Africa. Qualsiasi posizione se pagare o meno i rapitori è legittima, ma il vero errore del governo italiano è, ancora una volta, di comunicazione, e la comunicazione quando si ha a che fare con gruppi militar-confessionali come Al Shabaab, e con il cuore rinnovato di una giovane ragazza, ha valore strategico e richiede una sensibilità morale. Il rientro in Italia di Silvia Romano, andava gestito in forma riservata, senza telecamere, con i soli famigliari, perché la sua conversione all’Islam, manifestata a Ciampino dall’abito tradizionale somalo, è tutta un’altra storia, che viaggia su geometrie molto più romantiche, ingenue, psicologiche, su traiettorie molto più profonde, che toccano l’anima, e non possono essere imprigionate nella galera dell’attualità. E invece la sua sovra-esposizione mediatica dopo lunghe ed efficaci trattative sottotraccia, ha provocato dietrologie e sciacallaggi di ogni genere.
“I primi tempi non ho fatto altro che piangere, poi però mi sono fatta coraggio e ho trovato un equilibrio interiore. Piano piano è cresciuta dentro di me una maturazione che mi ha convinto a convertirmi all’Islam. Ci sono arrivata lentamente, più o meno a metà prigionia, ho chiesto un Corano, non è stata una svolta improvvisa” (Silvia Romano, ora Aisha)
C’è chi parla di sottomissione, chi di sindrome di Stoccolma, chi di brainwashing, chi addirittura parla di affiliazione, rappresentazione plastica di quella serie televisiva straordinaria che è Homeland, col sergente americano Brody, convertitosi negli anni di prigionia irachena, divenuto sostenitore della causa qaedista, e mandato negli Stati Uniti per infiltrarsi ai vertici della Casa Bianca e commettere un attentato spettacolare. Delle due l’una: o Silvia Romano è diventata Aisha per le ragioni si provano a tracciare, oppure è la più grande operazione di infiltrazione nel mondo occidentale di Al Shabaab. Tutto possibile, ma forse nel caso di Silvia Romano siamo di fronte alla classica parabola dei neo-convertiti. Coloro che in poco tempo, in maniera spontanea e volontaria, passano dal nichilismo occidentale alla fede spirituale, che sia cristiana, ebraica o musulmana, che dopo essere stata interiorizzata viene esteriorizzata pubblicamente, spesso in maniera goffa, ingenua, teatrale. Rafforzata peraltro da una prigionia, come racconta lei stessa, senza socialità al di fuori del luogo della reclusione, né comunicabilità con i suoi rapitori. Silvia Romano, a differenza di Greta e Vanessa, due attiviste della “rivoluzione” siriana, non si è radicalizzata, ma soltanto convertita, da sola, e sola deve essere lasciata stare. Anche perché i primi a non capirla sono gli stessi che ora vogliono “imprigionarla” una seconda volta in un passato vuoto che la sua spiritualità ha rifiutato. In fondo armata di buoni sentimenti, e non con idee così strane, semmai solo un po’ confuse e strampalate. Bentornata Aisha.
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Chi scrive di mestiere fa il giornalista e al contempo, per una serie di vicissitudini legate alle esperienze mediorientali, rappresenta la filiale italiana – una Fondazione – di SOS Chrétiens d’Orient (SOS Cristiani d’Oriente), un’associazione umanitaria francese che svolge attività in Siria, Libano, Egitto, Giordania e Iraq, attraverso l’invio di volontari (in sei anni ne sono partiti più di 1500, tra cui 20 italiani) i quali portano avanti progetti di sviluppo e radicamento interamente finanziati da donatori europei. Gli obiettivi sono molteplici: fermare l’emorragia della fuga dei cristiani d’Oriente e con loro tutta un’eredità storica, religiosa, culturale, conservare il mosaico etnico religioso di quelle regioni del mondo, e tutelare quel diritto sacrosanto “a non emigrare” di cui parlò Benedetto XVI.
Quando si è umanitari non si può essere giornalisti. Occorre responsabilità. Per il gruppo, per la missione. È un lavoro completamente diverso dal reporter di guerra e di frontiera, richiede settimane di studio burocratico, assicurativo e amministrativo sul Terzo Settore ma soprattutto di formazione nel campo umanitario, dunque manageriale (gestione dei progetti), medico (primo soccorso), psicologico (analisi psico-attitudinale), securitario (spostamenti e gestione delle situazioni di emergenza). Da protocollo, quando si decide se mandare un volontario o meno, i colloqui si trasformano in veri e propri interrogatori. Un comportamento sbagliato sul campo può compromettere l’intera missione, anni e anni di buone azioni. Chi è fragile psicologicamente rimane a casa. Chi idealizza un universo che non conosce, rimane a casa. Chi desidera partire per risolvere le sue questioni personali, rimane a casa. Chi viaggia in cerca di un nemico, rimane a casa. Chi è in cerca di una passerella fotografica da scaraventare sui social network, rimane a casa. Chi pensa che sia un viaggio Erasmus o in un villaggio turistico, rimane a casa. Ai candidati non si chiede il certificato di battesimo ma umiltà, sensibilità e responsabilità, che significa spirito di adattamento, di servizio, di sacrificio. E chi riesce a partire, credente o meno, interiorizza nel suo percorso, il concetto di Sacro, riscopre una spiritualità perduta, percepisce la forza dei valori pre-politici, rimette in discussione sé stesso e la modernità occidentale che nelle società tradizionali non ha contaminato ogni campo dell’esistenza. Insomma, non c’è nessun “lavaggio del cervello” né “evangelizzazione”, diventano ciò che vedono i loro occhi e ciò che sente il loro cuore.
Prevenzione, cinismo, metodo, sicurezza e attitudine sono elementi imprescindibili per tutte quelle associazioni che lavorano nel mondo della cooperazione. Pertanto nulla è scontato, tutto è complesso, e qualunque organizzazione umanitaria, grande o piccola che sia, può avere un incidente inevitabile e non prevedibile, di percorso. È accaduto anche a noi di SOS Cristiani d’Oriente, quando il 20 gennaio 2020, quattro cooperanti sono stati sequestrati a Baghdad da un gruppo paramilitare, imprigionati per due mesi, poi liberati dopo lunghe trattative grazie alla collaborazione tra le autorità francesi e quelle irachene. Quando ci annunciarono che sarebbero tornati a casa, sani e salvi, dopo aver perso le loro tracce e non avendo mai avuto notizie per tutto quel tempo, senza sapere se fossero vivi o morti, rimanemmo in silenzio per qualche istante, poi tremammo, infine piangemmo. Le lacrime servivano a esorcizzare la tensione, mica a farci assorbire dalla cultura del piagnisteo. Prendersi dei rischi, fa parte del mestiere di chi la storia vuole scriverla e non subirla.