Il 17 luglio 2024 è stato sottoposto al Parlamento il documento elaborato dal Governo riguardante il Piano Mattei. Tale progetto è volto a rafforzare la collaborazione con i Paesi africani e si pone l’obiettivo di superare un approccio “caritatevole e paternalistico”, puntando invece su una cooperazione bilaterale per generare benefici comuni. La struttura del Piano si articola in sei settori principali: istruzione, sanità, acqua, agricoltura, energia e infrastrutture. Gli obiettivi includono il miglioramento delle condizioni di vita, l’espansione delle opportunità economiche, la riduzione della povertà e lo sviluppo di infrastrutture critiche per affrontare sfide come la sicurezza alimentare e l’accesso all’energia.
Nella fase iniziale (progetto pilota), il Piano coinvolgerà nove Paesi africani: Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria, Kenya, Etiopia, Mozambico, Repubblica del Congo e Costa d’Avorio. Diverse le aspettative registrate su tale progetto: gli ingenui (o in malafede), che in esso scorgevano intenti neocoloniali; gli ottimisti, che vi ravvisavano una “svolta” strategica di un’Italia da troppo tempo sopita; gli scettici, convinti che il Piano sarebbe stato l’ennesimo buco nell’acqua. Dalla lettura del documento non possiamo che sentirci vicini a quest’ultimi. Nelle circa cento pagine del testo emergono infatti molte ombre e poche luci, le quali non ci consentono di essere ottimisti per la sua futura applicazione.
Va riconosciuto a questo governo il fatto di aver riportato al centro del dibattito un tema che in Italia è stato fin troppo ignorato: l’importanza del Mediterraneo e dell’Africa per l’Italia. Sembra forse banale dirlo oggi, ma basta ritornare a prima del 24 febbraio 2022 per far riemergere ricordi di un’Italia che rivolgeva le sue attenzioni quasi esclusivamente oltre le Alpi, ignorando o guardando con timore ciò che c’era a sud della Sicilia. Oggi, a causa delle turbolenze internazionali e di una maggiore presa di coscienza dei vertici politici, la sponda sud ha di nuovo acquisito la sua importanza.
Al Piano Mattei, dunque, va riconosciuto in primis il merito di riportare concretamente al centro dell’agenda politica italiana l’Africa e di conseguenza anche il Mediterraneo. Riconoscimento necessario ma non sufficiente per valutarlo positivamente nel suo complesso.
Il primo aspetto che desta più di un dubbio riguarda gli obiettivi indicati nel testo. Si parla di “costruire un partenariato su base paritaria, che rifiuti tanto l’approccio paternalistico e caritatevole quanto quello predatorio, e che sia capace di generare benefici e opportunità per tutti”. Il presupposto per il raggiungimento di un simile obiettivo è la definizione chiara di ciò che l’Italia e i paesi coinvolti vogliono ottenere. Questo permette di circoscrivere gli ambiti di azione e convogliare così le risorse ove più si necessitano. Soprattutto, questo permette in modo chiaro di comprendere qual è il “do ut des” più appropriato. Invece nel testo si affrontano molteplici settori di sviluppo (istruzione/formazione; sanità; agricoltura; acqua; energia; infrastrutture fisiche e digitali) e la sensazione, nonostante la premessa iniziale, è proprio quella di un approccio caritatevole allo sviluppo dei partners africani. La definizione vaga dell’obiettivo allarga eccessivamente il campo di azione, riducendo la forza impressa in ogni singolo settore e le risorse a disposizione, compromettendo alla radice la realizzazione del progetto.
Per individuare gli obiettivi primari del governo italiano bisogna leggere tra le righe: (a) controllo dell’immigrazione e (b) approvvigionamento energetico. Sembra però che per evitare di apparir troppo espliciti (ossia uguali a tutti gli altri paesi “predatori” del Continente Nero), si sia cercato di accompagnarli con altri, con la conseguenza di affrontare molte più tematiche che vanno probabilmente al di là delle nostre capacità.
Altro aspetto da tenere in considerazione è il tipo di rapporto che si intende creare con quei paesi. Il Piano si pone obiettivi decennali, per cui è chiaro che si intende creare relazioni durature nel tempo. Per far questo, dubitiamo che quanto viene indicato nel documento possa assolvere gli obiettivi, soprattutto tenendo conto dell’enorme interesse che sta destando questo continente per molti altri paesi. I nostri rivali hanno approcci diversi nell’intessere relazioni con gli stati africani: la Cina, ad esempio (che nell’ultimo incontro ha elevato le relazioni con l’Africa a livello strategico), crea scuole di politica in loco e investe in diversi tipi di infrastrutture per ottenere concessioni industriali e minerarie e per soddisfare la propria domanda interna alimentare e di materie prime (offrendo al tempo stesso un enorme mercato di sbocco); la Turchia (alleato solo sulla carta) offre sicurezza, armamenti e diffonde la propria cultura per ottenere maggior presa politica e concessioni energetiche (vedasi la Somalia ad esempio); la Russia, dal canto suo, offre garanzie di sicurezza, armamenti, tecnologie militari e industriali per stringere rapporti durevoli con i paesi destinatari e per godere di appoggi logistici (ad esempio con lo stato insulare São Tomé e Príncipe che si affaccia sull’Atlantico, oppure la Libia).
Ognuno dei paesi menzionati ha ben chiaro (a) cosa può offrire, (b) cosa intende ottenere e (c) di cosa l’interlocutore necessita. L’Italia come al solito, spiace dirlo, sembra avere difficoltà nel definire questi tre fondamentali elementi. Ma in un teatro così conteso non c’è spazio per l’approssimazione. Se si vuole aver successo sui rivali, se non si vuole vedere i partner africani passare all’incasso (di risorse, tecnologie e “know-how”) per poi rivolgersi altrove, è necessario riconoscere le due principali leve su cui si gioca la presa su questi paesi: quella securitaria e quella economica.
Tenendo conto di ciò, non si può non notare che nel Piano Mattei è del tutto assente l’aspetto securitario, probabilmente il più rilevante per molti paesi africani – spesso in guerra tra loro, con enormi di terrorismo e divisi al loro interno in innumerevoli fazioni che cercano di occupare i posti di comando (i numerosi colpi di stato ne sono testimonianza). Ambito in cui l’Italia, se volesse, potrebbe offrire ottimi contributi in termini di capacità militari, armamenti e intelligence. Continua quindi a ripresentarsi questo grande tabù – non si capisce quanto per motivazioni etiche o strategiche – che già ha causato la perdita di posizione in Libia nel 2019 (quando non rispondemmo alle richieste di aiuto di Fayez al-Sarraj assediato dalle truppe di Haftar). Non sorprendiamoci, dunque, se proseguendo per questa strada continueremo ad essere diversi passi indietro rispetto a paesi come Russia o Turchia.
L’assenza dell’aspetto securitario è forse il principale elemento critico del Piano Mattei, il quale evidenzia come ancora oggi, nonostante le crisi internazionali, si stenti ad accettare che la Belle Époque è ormai giunta al termine. Escluso l’aspetto securitario rimane quello economico (in senso esteso).
Come accennato precedentemente, diversi sono i settori di intervento dove l’Italia si prefigge di intervenire tramite investimenti e supporto tecnologico e di competenze: istruzione, sanità, approvvigionamento idrico, agricoltura ed energia. Vaste Programme! Ognuno di questi richiederebbe una grossa mole di investimenti per raggiungere degli obiettivi significativi che dubitiamo fortemente l’Italia riesca a mobilitare. Dei cinque punti menzionati, i primi tre rientrano sostanzialmente nei servizi base necessari allo sviluppo di un paese. Focalizzandoci invece sugli ultimi due, che rappresentano dei veri e propri settori produttivi e che dunque non si esauriscono all’interno dei confini nazionali, scopriamo ulteriori criticità.
Riguardo la questione energetica, il documento chiarisce che per l’utilizzo in loco (domanda interna) si intende puntare principalmente sullo sviluppo delle energie rinnovabili, mentre per le fonti energetiche fossili ci si propone di costruire infrastrutture per indirizzarle ai mercati esteri e l’Italia si offre come porta d’accesso al mercato europeo. A parte i dubbi sulle le reali capacità di sviluppo di un solido settore di energie rinnovabili in quei paesi – dall’approvvigionamento dei materiali necessari, alla mole di investimenti, per finire con i dubbi sulla reale intenzione di paesi che dispongono di fondi energetiche fossili di volersi “convertire” a quelle rinnovabili – il progetto sull’export verso l’Europa appare coerente con quanto già si sta perseguendo. Si contribuisce a sviluppare un settore produttivo e al contempo si offre un grosso mercato di sbocco che garantisca introiti al paese esportatore. Ci sarà poi da valutare altre due questioni: l’importanza di siglare contratti di lungo periodo se non si vuole che tali paesi si rivolgano altrove; la necessità di garantire la sicurezza delle infrastrutture e delle vie di transito che portano in Europa (considerando che molti dei progetti già in essere si propongono di attraversare il Sahel, la questione non è per nulla scontata). Al di là di ciò, l’inquadramento della questione energetica sembra uno dei pochi punti a cui si potrà dar corso.
Altro discorso invece per il progetto di sviluppo agricolo. Qui la proposta è quella di sviluppare il settore agricolo sul modello delle PMI italiane. Tante piccole imprese agricole per soddisfare la domanda interna per le quali l’Italia fornirebbe tecnologie, conoscenze e risorse e partnership con PMI italiane. I dubbi però sono diversi. Soprattutto, non siamo sicuri che oggi l’Africa abbia bisogno di sviluppare piccole e medie imprese per il commercio locale ma piuttosto aprirsi al mondo tramite grandi aziende che portino, tramite l’export, “moneta pesante” nel territorio. Un conto è creare le condizioni per risolvere il problema alimentare, altro invece quello di voler esportare un modello che può andar bene (fino ad un certo punto) per l’Italia ma di cui non si ravvisa la convenienza per i paesi africani. È chiaro che da parte italiana non c’è nessun interesse ad avere nuovi concorrenti che invadano il mercato europeo con prodotti agricoli a basso costo, ma bisogna considerare anche che se si vuole sviluppare un settore bisogna anche offrire uno sbocco, altrimenti meglio rinunciare e focalizzarsi su altro. Anche perché, procedendo in questo modo, il rischio concreto è quello di fornire investimenti, tecnologie e conoscenze di cui a beneficiarne saranno altri (es. Cina).
Rispetto alla questione culturale, ahinoi, c’è poco da dire. Essa viene risolta in poche righe le quali fanno emergere con chiarezza tutti i complessi e i timori che ci contraddistinguono. Mentre Cina e Turchia (solo per citarne alcuni) creano stretti rapporti all’estero diffondendo i loro modelli culturali (per quanto derivanti da forme di scambio, non lo fanno certo con campi di rieducazione), in Italia è stata oramai introiettata l’idea che promuovere al di là del confine nazionale la propria cultura e insegnare la propria storia e lingua porti con sé i germi del suprematismo bianco occidentale. Per tale motivo il Piano persegue la via opposta. Non che sia un male la valorizzazione del patrimonio culturale, storico e archeologico altrui. Il punto è che per stringere relazioni proficue il rapporto dovrebbe essere bidirezionale, e non bisognerebbe limitarsi semplicemente a mettere a disposizione i propri istituti (accademici e culturali) per diffondere la conoscenza del patrimonio altrui – questo sì dal sapore “paternalistico” e “caritatevole”.
Tali intenzioni sono rese evidenti dalla scelta degli Istituti culturali italiani. Si punta esplicitamente sull’Istituto per il Dialogo Italia–Africa (IDIAF) – promosso dalla Fondazione Treccani Cultura e che dovrebbe fondarsi sul modello dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) – le cui iniziative vertono principalmente sulla promozione del patrimonio culturale dei paesi africani; dall’altro lato non vi è menzione della Società Dante Alighieri, il principale Istituto che dal 1889 diffonde la lingua e la cultura italiana nel mondo.
Infine la questione sulle risorse e gli strumenti finanziari. Su questo non c’è molto da dire poiché, a parte l’effettivo budget a disposizione per la fase iniziale (5 miliardi e 500 milioni di euro), ottenuto principalmente dal Fondo Italiano per il Clima, sul resto si sa ancora ben poco. Si pianifica di ottenere ulteriori risorse (non si sa quante) da fondi pubblici italiani, da iniziative europee (Global Gateway Africa-Europe, Connecting Europe Facility, Horizon Europe) e da altri Stati donatori (europei e non). Insomma, ancora tutto da vedere. Certo che, guardando il budget di partenza, gli auspici non sono dei migliori. Non si capisce poi per quale motivo altri paesi dovrebbero investire in Africa passando per il Piano Mattei italiano invece che direttamente, in modo da perseguire più agilmente i propri interessi (poiché nessuno investe grosse somme per puro spirito caritatevole). Inoltre queste cifre impallidiscono se paragonate con quelle di altri paesi. Cina, Emirati Arabi Uniti, India, Stati Uniti, Francia hanno investito decine di miliardi di dollari l’uno (in alcuni casi centinaia) in Africa in pochi anni.
Non possiamo che rimanere delusi da un Piano Mattei che, a parte le buone intenzioni, si perde nei mille rivoli dei potenziali settori di sviluppo invece di focalizzare tutte le energie su pochi ambiti, coerenti con i propri interessi e con quelli dei paesi Africani interessati. L’ambito securitario rimane il grande, inspiegabile assente. Un tabù che auspichiamo venga presto superato.
Questo obbliga l’Italia a virare sulla leva economica per costruire rapporti duraturi. Una scelta che, però, la pone su un piano nel quale rischia di soccombere sotto il peso della concorrenza e che quindi pone interrogativi sulle reali possibilità di successo. Nessun paese rifiuta denaro in entrata, ma se obbligato alla scelta – e in un mondo che va sempre più polarizzandosi molti paesi sono costretti a farlo – punterà inevitabilmente sul miglior offerente. È necessario tenere bene a mente che il Piano Mattei non è solo un banco di prova dell’Italia con sé stessa. Per come è stato presentato e ostentato, oramai rappresenta un biglietto da visita con gli alleati (ma anche coi rivali), preoccupati dalla penetrazione in Africa di Cina e Russia (e in parte anche Turchia) e alla ricerca di soluzioni per arginarla. In particolare gli Stati Uniti, desiderosi di disimpegnarsi da tale quadrante così da poter indirizzare le proprie energie in teatri per loro più preoccupanti. Porsi come principali obiettivi solo l’approvvigionamento energetico e la riduzione dell’immigrazione fa emergere la miopia di questo ambizioso progetto, il quale difficilmente potrà trovare ulteriore sostegno dagli alleati (al di là delle parole) se non coadiuvato da iniziative securitarie più esplicite nei confronti di quelli che oramai sono riconosciuti come i rivali dell’Occidente, dunque anche nostri.