Come quasi sempre accade, fatti personali e volontà irriducibili concorrono da sé non tanto a individuare l’approdo, che esiste solo per gli ingenui, quanto il luogo in cui iniziare a cercare. In questo senso, Dario Fabbri chiama chi legge a intraprendere un viaggio che sconfina nella costruzione narrativa di trame da cui affiora il divenire del nostro presente, mentre si oscilla dal destino di imperi e nazioni alle pulsioni ultime che animano le singole comunità. Questa è la Geopolitica Umana (Gribaudo/Feltrinelli, 2023), un’«inedita variante per analizzare le cose del mondo» in grado di far dialogare «il metodo geopolitico con la profondità storica, con l’antropologia, con la psicologia collettiva».
Un approccio che non teme di respingere il metodo scientifico, limitato dall’utilizzo di standard restrittivi, a favore di discipline spesso assenti nelle analisi politologiche come la linguistica e la pedagogia, più utili alla conoscenza dell’essere umano e i suoi comportamenti. Insomma, quella di Fabbri è l’opera di un eretico, cui dobbiamo il merito di aver tracciato, dall’esperienza di Limes alla fondazione della rivista Domino fino alle ospitate televisive e la collaborazione con aziende e università internazionali, un solco che in futuro sarà difficile da ignorare. Per capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne, come recita il sottotitolo, Geopolitica umana è un manuale prezioso, scritto con stile brillante e aforistico, capace di posizionare teorie, nozioni, sistemi complessi all’interno di un contesto globale in continuo mutamento.
Imperialismi, migrazioni, forme di governo, Stati-nazione, il potere dei popoli e della rete: ogni capitolo aggiunge un tassello al mosaico più ampio delle comuni convinzioni, e contribuisce a liberarlo dalle false ideologie così come dai suoi frammenti più dogmatici. Si legga, a tal proposito, l’inizio del quarto capitolo:
«Pensare decisive le forme di governo vuol dire mancare la realtà. […] Colpa esiziale di tale approccio è fraintendere il principio di causalità, invertire puntualmente causa ed effetto. […] Assegnare responsabilità al contrario, nel bene e nel male, assolvendo i popoli per incolpare reggenti e militari, oppure magnificando i leader per misconoscere la forza popolare che muove un soggetto geopolitico. Mediamente è corretto il contrario. Le collettività agiscono attraverso gli strumenti demografici, culturali, economici e umani di cui dispongono, nel contesto geografico che abitano, nel tempo che conoscono, con gli interlocutori che affrontano, al cospetto delle costrizioni che vivono».
Forte di esempi provenienti dalla storia (definita il «principio di ogni speculazione»), dall’impero persiano fino a Cina, Stati Uniti e Russia dei giorni nostri, l’autore oltre a ridimensionare il potere effettivo dei governi, mette a nudo anche l’irrilevanza dei leader, considerati non più attori protagonisti in grado di scardinare la realtà e volgerla a proprio favore ma nient’altro che «riduttori di complessità, totem intorno ai quali si coagula la popolazione, strumenti per rendere in dialettica le manovre da compiere».
A sostenerne il destino concorrono burocrazie statali, il potere nella sua essenza, e cittadini sudditi che prestano la necessaria manodopera qualunque impresa il capo decida di intraprendere. Da cui l’importanza del fattore demografico: «La potenza pertiene soltanto a comunità anagraficamente giovani. Solo una popolazione di età media bassa può sopportare i sacrifici richiesti dal perseguimento della potenza, la perenne belligeranza, l’attuazione di misure antieconomiche, il mantenimento di una società crudele».
Fondamentale è la contrapposizione tra potenza ed economia, i soli parametri per stabilire di cosa, esattamente, viva una collettività, a sua volta obiettivo principale della geopolitica umana: «Tra le nazioni dedite alla potenza vi sono le più decisive del pianeta: Stati Uniti, Cina, Russia, Turchia e Iran. Disposte a sostenere gli sforzi per accrescere il proprio status, a usare violenza su sé e sugli altri, indifferenti alle regole dell’economia, che violano puntualmente». Quando, invece, a venire meno è la sovranità nazionale dei propri governi, ecco che questi Paesi, province di qualche impero, si trovano a dover fare i conti con stringenti obblighi finanziari da adempiere, a meno di non incorrere in sanzioni ancor più gravose e condannarsi all’eterna irrilevanza. Restando in Occidente, pensiamo alla strategia condotta dagli Stati Uniti dal dopoguerra in avanti. «Nel corso del Novecento l’America è diventata unica garante delle vie marittime dove si muove il 90% delle merci globali, compratore di ultima istanza, principale mercato del pianeta. Per questo oggi l’economicismo riguarda anzitutto i satelliti di Washington: le nazioni europee, il Giappone, la Corea del Sud, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda. Con la parziale eccezione dei Paesi dell’Europa orientale, tuttora limitatamente massimalisti perché preoccupati dell’avanzamento russo».
Considerazioni che rimandano ai capitoli conclusivi del saggio, dedicati alla Globalizzazione e al potere della rete: anche qui, facce diverse del prisma imperialistico statunitense. Paese tutt’altro che intenzionato a smettere i panni di guida dell’Occidente, e che seguita ad avere un ruolo egemonico, ancora oggi, sostenuto grazie alla superiorità della propria Marina, come già accennato, e per mezzo del legame finanziario che tiene sotto scacco paesi esportatori (vedi Cina e Giappone) che hanno tutto l’interesse affinché gli Stati Uniti rimangano ottimi acquirenti.
Agli abissi degli oceani si collega l’altro ambito del suo dominio, sostanziato dalla presenza degli innumerevoli cavi della rete globale installati in profondità: l’unico spazio realmente conteso con altre potenze quali Cina e Russia. Una guerra sotterranea, o per meglio dire sottomarina, in cui in palio non sembrano esserci più solo i dati utilizzati dai governi, con la collaborazione dei giganti high-tech, per fini esclusivamente economici. Se è vero che «tramite i social network, da alcuni anni, le agenzie di intelligence provano a indagare questioni di medio e lungo periodo, a intuire la parabola delle popolazioni», il futuro sarà l’esito di scelte strategiche delineate già da tempo: così l’utilità di una disciplina come la geopolitica umana apparirà in tutta la sua evidenza. Non perché si possa prevenire con esattezza le mosse altrui, nell’ipotesi di un conflitto vero e proprio, ma quale strumento di indagine libero da sterili determinismi. Un’occasione ulteriore di emanciparsi dalla «gabbia tecno-ideologica» che non può tutto comprendere, né presagire, a dispetto dei suoi cantori. Nei confronti dei quali la disamina di Fabbri si configura come un antidoto doveroso.