«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra». L’amara, forse realistica considerazione che chiude il colloquio tra il Principe Fabrizio Salina e l’emissario sabaudo Chevalley non può essere ridotta a espressione dell’arida e desolante malinconia, della sconfitta e dell’ineluttabilità del destino dell’isola, neppure della consapevolezza della progressiva, inarrestabile dissoluzione della classe nobiliare e dei valori del passato, dell’inerzia e incapacità di agire di chi, come lui, si sente privo di motivi e di ideali per cui muoversi.
C’è qualcosa in più in quel concentrato di sicilianità con cui il Principe congeda il suo interlocutore, una forza trasgressiva, trascendente, autenticamente romantica. Di chi sa bene che da soli, sebbene con aiuti esterni, i siciliani e il Meridione tutto non potranno mai migliorare. L’incomprensione del Nord nei confronti del Sud è insanabile, l’insieme delle promesse di miglioramento socio-economico è deludente, le promesse di rinascita buone solo a mitigare lo stato di salute di un popolo “morente”. L’immobilità di cui la Sicilia (o meglio il Sud) soffre, sintomo della malattia dietro la quale lo stesso Principe si nasconde, svela la verità dietro il velo della realtà: caduta l’aristocrazia domina una classe di corrotti approfittatori e rapaci sciacalletti, quella borghesia imprenditoriale che si sostituisce al potere consolidato senza esserne pronta.
Ma al contempo, nelle pagine del celebre romanzo, si scontrano due idee di aristocrazia. Quella di don Fabrizio, antica, immobile, immutabile, in conflitto con la ciclicità storica, perennemente legata ai riti, alle liturgie, al mito che conferisce immortalità. E quella del nipote Tancredi, per il quale «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Un auspicio che si avvera solo parzialmente. Perché con l’avvento della Repubblica la nobiltà sparisce dal circolo sociale, viene espulsa come corpo estraneo dal corpo sociale che prima l’aveva in grembo, protetta e forse anche amata. In continuità con la filosofia e la storia greca, il Principe orienta il proprio agire servendosi del concetto, quello del limite, che Tancredi ha rimosso e dimenticato, legandosi all’idea che la continuità della specie passi dalla contaminazione con la borghesia. Un surrogato seppur breve di continuità. Sa bene, don Fabrizio, che nel nuovo mondo non c’è spazio per loro, per la nobiltà, per quei valori che essa ha incarnato, assumendo su di sé il peso del tempo. Ed è per questo che rifiuta il seggio senatoriale in favore di Calogero Sedara.
«Appartengo ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni: e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare se stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri?»
Il giudizio lapidario con il quale il Principe oppone il gran rifiuto si nutre certamente della logica di contesto. Da buon aristocratico fa fatica a nascondere il disprezzo verso la borghesia liberal-progressista, contro il tipo dello scalatore sociale. In tutto questo, però, al di là del manierismo del personaggio o delle considerazioni estetiche e morali, il profilo antropologico del Principe deve interessare l’osservatore moderno che si occupa di analisi politica. Quanto servirebbe questo “Principe” alla modernità? Quanto la sua sostanziale essenzialità si adatterebbe ai tempi? Certamente, prendendo a modello le logiche e le doti che Machiavelli impone nel suo trattato come caratteristiche tipologiche necessarie per l’esercizio dell’arte di governo, l’immutabilità – come postura di chi è refrattario a lasciarsi modellare dalla realtà, intesa come unità di spazio e tempo in cui si agisce e ci si relaziona – è contemplata come elemento negativo. Eppure, la lezione “politica” di Don Fabrizio è un lascito ereditario troppo alto e prezioso per essere derubricato a fenomeno letterario. Consapevole della mutevolezza dei tempi, l’aristocrazia sa bene che oltre un certo orizzonte è destinata a scomparire. Rifiuta, quindi, di partecipare al nuovo nomos imperante, sebbene sia necessario a fortiori l’adesione.
La trasformazione rapida convive, così, con un fondo di immobilità, con una resistenza oscura e spesso non dichiarata contro le novità e i mutamenti. Non è, il nostro, un moderno Don Chisciotte che ripudia ogni contatto con la realtà, rifugiandosi nell’iperuranio del suo dissennato raziocinio, al quale manca da tempo financo il baluginare di barlumi di luce. In Fabrizio ristagna un pensiero latente, frutto tardivo della malinconia e dell’imperturbabilità dell’animo, inclinazione stoica della sicilianità più autentica, cioè che la modernità meritasse di partorire meno velocemente di quanto accaduto. Come la maieutica socratica, anche il Principe esorta a riflettere, a considerare, a valutare ogni decisione con ponderata ragionevolezza. Avverte subito, quando si tratta di fiutare il pericolo, l’impostura, l’indecenza di una partecipazione attiva e ufficiale alla vita pubblica del nuovo regno, che solamente per dignità di classe non ostacola.
L’incedere della modernità, come fatto storico indipendente dalla sua volontà, travolgente oltre ogni limite è quanto di più incurante possa accadere. Con notevole preavviso don Fabrizio preavverte il senso della fine, una mera sostituzione di classe senza reale cambiamento, senza “purificazione” della sostanza ma solo trasformazione di facciata. Chi crede che il Gattopardo sia il simbolo della controriforma reazionaria sbaglia davvero. La consapevolezza della mutevolezza delle cose umane non è in discussione. La forma umana e le sue costruzioni non possono trattenere il procedere della storia ponendo limiti fisici. Rallentare, questo sicuramente è possibile, il senso di marcia incessante. Difatti, l’accelerazione del mondo dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989 è stata la vera condanna della modernità. Un turbine di cataclismi socioeconomici ha investito tutto, travolgendo ogni consolidata esperienza. In questo contesto di transizione, come in tutti, servirebbero più Gattopardi, che la vulgata nazionale dipinge come maschere del privilegio, indissolubilmente ancorate e sedimentate nel tempo e nella storia. Immobili come mummie imbalsamate in attesa del declino. Se tutto rimane com’è non è colpa certo dei Gattopardi, che sono cavalli di razza, esseri votati all’eternità. Dettano i tempi, di inizio e fine di un ciclo. Il Principe del romanzo non è dominato dalla cecità: sa che oltre al tempo esiste l’eternità, si prepara al viaggio nelle tenebre, considera la vita sulla terra un breve raggio preceduto e seguito dal buio eterno. Ciò a differenza di Tancredi che considera solamente il tempo nel quale vive e quindi si adopera per mantenere ciò che è, l’esistente.
Se agli altri è concesso vivere dentro la storia, e basta, rintanandosi in essa per paura, al Gattopardo che vive l’oltre, ben consapevole che la sua intrinseca voglia di immobilità si schianta contro il destino ineluttabile. Ciò che insegna, Don Fabrizio, è che la modernità accade senza condizioni, arbitrando il destino di ciascuno e consegnando ciascuno al passato. Nonostante questo, però, non v’è rassegnazione al nuovo che avanza, benché si sgretoli ogni certezza. Posizioni di potere, rapporti di forza: ogni cosa cambia e al contempo resta identica a sé stessa. Non per il Gattopardo. L’asservimento alle logiche di sopravvivenza e di conservazione non corrispondono all’indole della razza superiore cui appartiene. Il Gattopardo non cerca il potere per sé, non spera di evitare il tracollo, di non essere travolto dall’incedere risoluto del cambiamento. Sono gli altri che cercano di abusare del declino gattopardesco per sostituirsi e prenderne il posto. Pur se insiste nel continuare a vivere esattamente come prima, ostentando qualche fondamentale cambiamento assolutamente necessario a garantire delle altrettanto fondamentali continuità, è consapevole della fine, che malinconicamente attende, senza farsi travolgere, immutabile ed imperturbabile, rimanendo fedele a se stesso.