Gaetano Mosca, tra i massimi politologi ed esperti delle fisiologie e delle patologie del potere, prima di essere un grande teorico elitista ebbe come sua principale palestra ed osservatorio privilegiato sulla classe politica e sulle regole della democrazia, la sua attività di funzionario parlamentare della Camera dei Deputati. Leggendo i resoconti stenografici dei politici, incontrandoli, confrontandosi con loro in Aula, infatti, imparò a conoscerne vizi e virtù, nevrosi e glorie, conoscendo ed apprendendo i segreti del potere nel suo luogo primigenio. La Camera dei Deputati fu infatti per molti grandi intellettuale e studiosi italiani il luogo principale della loro formazione, alternando alla loro vocazione intellettuale o accademica, quella da civil servant e Grand commis d’etat. Una “palestra” che permise la nascita di una grande tradizione di consiglieri parlamentari e funzionari istituzionali capaci di alternare alla loro attività amministrativa una cultura politologica, filosofica e sociologica che ne ha fatto non solo dei grandi e trasversali servitori dello Stato, ma anche degli acuti e affilati conoscitori dei veri nodi del Paese.
Una tradizione che ha annoverato tra gli altri personalità del calibro di Beniamino Placido, Silvio Traversa, Antonio Maccanico e soprattutto Guglielmo Negri. E proprio di questa tradizione il Professor Luigi Tivelli è uno degli ultimi testimoni. Capo di gabinetto, consigliere parlamentare, Consigliere parlamentare del presidente del Consiglio, sotto governi di diverso colore, come gli esecutivi Prodi, D’Alema, Dini e Berlusconi, a cui ha alternato una intensa attività di scrittore, giurista, politologo ed editorialista per testate come il Messaggero, L’Indipendente, Il Sole 24 ore e Formiche. Come saggista ha raccontato i vizi e le virtù della politica e della società italiana, attraverso diagnosi autorevoli, come “Dalla Brutte Époque al Governo Draghi. Le prospettive del Recovery Plan”(Rubbettino), considerata da Stefano Folli una delle miglior analisi del Governo Draghi, e testimonianze sui veri ingranaggi delle istituzioni e dei veri meccanismi del potere, soprattutto attraverso libri scritti con un grande civil servant e uomo del silenzio come Andrea Monorchio, con cui ha scritto il suo ultimo “Memorie di un Ragioniere generale tra scena e retroscena”. Da giovane era pupillo di Ugo La Malfa e delle migliori personalità del vecchio Pri, ma ha preferito seguire la via del civil servant, come il suo amato Gaetano Mosca, per conoscere il vero volto della politica italiana.
-Quando è iniziato il suo percorso nelle istituzioni?
Il mio percorso istituzionale è iniziato nel 1981, quando avevo 26 anni ed è continuato per oltre 30 anni, svolgendo ruoli come quello di consigliere parlamentare della Camera dei Deputati, portavoce di molti ministri, tra i quali Antonio Maccanico, consigliere parlamentare della presidenza del Consiglio e capo di gabinetto durante esecutivi di diverso colore come i governi Berlusconi, i governi Prodi ed il governo Dini. Anche se il mio itinerario nel mondo delle istituzioni politiche, locali e nazionali, è iniziato a partire dal 1966, quando a 11 anni con mio padre ho iniziato ad assistere alle sedute del Consiglio comunale della cittadina veneta in cui vivevo: Adria, in provincia di Rovigo. Un percorso che è continuato come leader studentesco e giovane responsabile della Federazione Giovanile Repubblicana, di cui fui anche vicesegretario, ispirato dalla figura di Ugo La Malfa e dall’educazione che mi diedero i miei maestri giovanili, operai e artigiani, militanti del Partito d’Azione, che mi avviarono verso il mondo della politica e delle idee. Il mio percorso istituzionale fu certamente lungo, ma quello che ha portato alla formazione e alla affermazione della mia coscienza civile in qualche modo è ancora più lungo e fortunatamente non si è ancora interrotto. Perché come dice il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, nella postfazione del mio ultimo libro con Andrea Monorchio (“Memorie di un Ragioniere generale dello stato. Tra scena e retroscena” edito da Rubbettino) per vivere e stare nelle istituzioni il primo requisito di un vero funzionario di Stato deve essere la “passione civile”. Un requisito che a me per fortuna non è mai mancato…
-Capo di gabinetto, portavoce di ministri e consigliere parlamentare in anni turbolenti come quelli che hanno segnato il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Dall’osservatorio privilegiato della Camera dei Deputati come ha visto la transizione dalla prima alla “seconda parte” della Repubblica italiana?
Come ha sottolineato ho potuto scrutare la metamorfosi della classe politica italiana da due osservatori privilegiati quali quello della Camera dei Deputati e quelli dei vari dicasteri in cui sono stato capo di gabinetto, e sono riuscito in questi anni a farmi un’idea dei vizi e delle virtù del nostro ceto politico. Non a caso il primo libro, non tecnico, che ho scritto è proprio un testo sul mutamento che ha colpito la Prima Repubblica e la sua classe dirigente (“Titanic Italia. La partitocrazia: storia di un naufragio annunciato” del 1992), dove ho espresso le mie preoccupazioni e speranze di fronte alle prospettive che hanno segnato l’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, caratterizzata da un lato dall’inizio di Tangentopoli, dall’altro dalla mutazione del sistema elettorale prodotto dal referendum Segni. La tesi che portai avanti nel libro è che il modello del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) non solo non poteva più rappresentare le esigenze e le energie, del Paese, ma che inoltre ci fosse la necessità di un nuovo progetto istituzionale capace di rinnovare le istituzioni italiane. Tanto che nelle ultime pagine del libro lancio un progetto di riforma della Repubblica affinché la futura ed ipotetica Seconda Repubblica, a quel tempo, si caratterizzasse come una “Repubblica dei cittadini”, dove il potere non fosse più demandato alle logiche della partitocrazia, ma in modo che lo “scettro” tornasse al principe-cittadino. Una speranza ovviamente naufragata…
-Quale era la caratteristica di questo progetto?
Era un progetto che in qualche modo riprendeva la tesi che pochi anni prima espresse ed argomentò, forse con più autorevolezza di me, Gianfranco Pasquino nel suo libro “Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforma istituzionale”. Ma mentre Pasquino guardava ad una “restituzione dello scettro” sul piano elettorale, dando maggiore effettività al potere di voto dei cittadini, io pensavo ad una concezione del cittadino che vivesse la cittadinanza nei diritti e nei doveri, tutti i giorni, con una maggiore partecipazione alla vita politica del Paese. Attuando un disegno costituzionale fondato su un sano e serio senso della cittadinanza che riprendesse in qualche modo la formula e la visione di Giovanni Conti, storico leader del Pri e vicepresidente della Costituente, per cui bisogna sapere essere “repubblicani in Repubblica”. Ed è anche lo spirito con cui ho fondato a suo tempo “Noi cittadini”, e che oggi mi sembra più attuale che mai, soprattutto di fronte al grave fenomeno dell’astensionismo.
-Ma oggi, finiti i grandi partiti di massa, ideologici ed organici (come DC, PSI e PCI) è davvero finita la partitocrazia?
Io studio la partitocrazia da quando questo concetto entrò pienamente nel dibattito pubblico e ne ho potuto osservare nel tempo le evoluzioni e degenerazioni dal Parlamento alla cronaca giornalistica. Pochi sembrano ricordare, a questo proposito, che il termine “partitocrazia” fu coniato da Giuseppe Maranini, autorevole esponente di quella grande scuola di pensiero che è stata la facoltà di scienze politiche del Cesare Alfieri di Firenze (la stessa che ha avuto tra gli altri professori come Giovanni Spadolini e Giovanni Sartori) ormai una sessantina di anni fa. Una dimenticanza, che tra l’altro sottolinea la totale mancanza del senso della memoria storica di cui è vittima la nostra classe politica e buona parte della nostra classe dirigente, votata purtroppo al più cieco presentismo… Torniamo però alla partitocrazia. Quando Maranini coniò il termine avevamo una versione della “partitocrazia” con partiti molto strutturati e radicati nel territorio e nelle classi sociali. Successivamente, riflettendo anche su questo tema, un grande direttore di giornali ed intellettuale (e ministro dei beni culturali) come Alberto Ronchey, coniò il termine di “lottizzazione” mutuandolo dal linguaggio urbanistico, inteso come uno dei sistemi operativi della partitocrazia che lottizzava e spartiva i ruoli chiave del settore pubblico. Per essere brevi, invece, oggi abbiamo una sorta di “partitocrazia senza partiti”, in cui nonostante la maggior parte dei partiti siano o “liquidi” o “gassosi”, guidati da “capi” o “cape”, non è certo venuto meno il concetto di lottizzazione né la pervasività dei partiti sulle istituzioni e sul dibattito pubblico. Sembra, infatti, che in seno al Governo, e tra i partiti di governo, in questi mesi, non sono state poche le spinte verso la lottizzazione, dalle nomine delle partecipate pubbliche al sistema delle spoglie. Una lottizzazione che non va confusa col pluralismo e che ha come esempio lampante la questione della Rai, che negli anni, da parte di governi di vari colori, ha visto non la fine della lottizzazione, piuttosto la minore caratura intellettuale dei lottizzati… Una condizione che non è nata certo adesso, anche se il “presentismo” dilagante non aiuta certo a capirlo, ma che è sopravvissuta alla fine dei partiti organici e si è accentuata nel tempo soprattutto dopo l’introduzione del sistema delle spoglie all’italiana…
Dal mio personale punto di vista invece sia nella mia pratica quotidiana che nella mia vita istituzionale ed intellettuale ho invece seguito sempre una vision improntata su una sana meritocrazia, ed ho lanciato vari appelli contro il sistema delle spoglie e la lottizzazione proponendo dei criteri alternativi improntati su un sano sistema di selezione fondato sul merito.
-Lei è stato uno dei principali analisti del sistema delle spoglie. Già dalla prima introduzione di questo sistema, nel 1996 con Bassanini, poté osservarne la nascita e lo sviluppo in quanto consigliere parlamentare del presidente Prodi…
Il sistema delle spoglie fu una vera iattura per il nostro Paese. Un procedimento scellerato che ha minato l’alta amministrazione italiana. Personalmente ho provato a suonare l’allarme sin dal 1998-1999, dopo che il ministro della Funzione pubblica di allora, in un governo di centrosinistra, Franco Bassanini aveva varato quello che ho definito il “sistema delle spoglie all’italiana”.
-Perché all’italiana?
L’ho sempre definito “all’italiana”, in tanti saggi e articoli, perché mi sembrava una sorta di copiatura di comodo del modello degli Usa, dove però c’è una piccola differenza rispetto all’Italia, anche in quanto là è vigente una forma di governo presidenzialista. In Italia (almeno da quei momenti ai giorni nostri) non è ancora vigente un modello presidenziale: una differenza non piccola. Certo, da più di un centinaio di anni oltreoceano si pratica quel modello e quel sistema, ma i “dirigenti pubblici” che vengono mandati a casa dal nuovo presidente in posizione in larghissima parte prestabilite, vengono sostituiti da quelli nuovi. Ma i primi vanno davvero a casa. Da noi la prima introduzione del sistema delle spoglie è servita soprattutto ad aggiungere tanti dirigenti pubblici a quelli che erano in carica, che magari potevano cambiare funzione, ma sempre dirigenti pubblici (di prima o seconda fascia) rimanevano, di qui la definizione di “sistema delle spoglie all’italiana”. Una pratica che ha da quel momento in poi creato delle crepe e delle criticità nei fondamenti della pubblica amministrazione perché: da un lato assoggetta il funzionario pubblico all’arbitrio del decisore politico, violando la separazione tra politica e amministrazione; mentre dall’altro ha creato delle asimmetrie contro cui lo stesso Franco Frattini successivamente dovette varare delle pesanti contromisure per contrastarne gli abusi. Il risultato è stato l’indebolimento della PA ed una ulteriore penetrazione della partitocrazia, anche se senza i partiti convenzionali, nella struttura pubblica. Uno strumento creato dal centrosinistra che poi per eterogenesi dei fini è stato, ed è, utilizzato oggi dal centro destra (o destra-centro se vogliamo) e la cui pervasività si vede nelle ultime nomine.
-Sulla gestione attuale del PNRR, quali sono secondo lei i nodi principali della sua attuazione?
A mio avviso il difetto è in qualche modo più che sulla sola attuazione proprio nella teorizzazione delle modalità con cui esso è stato concepito. In un paese in cui le stazioni appaltanti sono troppe e inefficienti, dove latita in molte regioni e comuni, non solo meridionali, una seria cultura progettuale, era davvero il caso di affidare la concreta attuazione del PNRR a strumenti e modelli di progettazione di tipo ordinario? Ci sono troppe stazioni appaltanti, con poca se non assente capacità progettuale, che non hanno saputo, per i propri vizi strutturali affrontare le sfide del PNRR. Tutti dovrebbero sapere che l’Italia, se paragonata alla Francia, ha una amministrazione centrale e periferica, nelle regioni e negli enti locali, molto debole, se non proprio fragile, specie quanto a cultura progettuale. Così come si dovrebbe sapere che gli unici veri e grandi progetti varati nel dopoguerra in questo paese, sono stati varati da enti e strumenti di tipo straordinario. Fu così, ad esempio per la Cassa del Mezzogiorno, che ha dato il via ad una prima infrastrutturazione del nostro Paese. E sarebbe servito uno strumento di questo tipo anche per il PNRR.
-Quindi secondo lei per una vera messa a terra del PNRR occorrerebbe una agenzia unica, un ente straordinario su questo modello?
Esattamente. Anche se va riconosciuto che il primo a sostenere e ribadire con insistenza, fino ai giorni nostri, che occorreva una agenzia, un soggetto, uno strumento straordinario, simile alla Cassa del Mezzogiorno per garantire una effettiva attuazione del PNRR fu Giorgio La Malfa. Il quale lo fece già in un importante webinar del febbraio del 2021, a cui partecipammo anche io e Romano Prodi, accennò alla necessità di una figura di rilievo come quella di un commissario straordinario per il PNRR. E il dibattito di questi giorni sottolinea la necessità di un ripensamento del modello del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non sarebbe meglio pur lasciando la responsabilità politica in capo al Ministro Fitto, puntare alla figura di una sorta di Commissario plenipotenziario, come fu il Generale Figliuolo per la pandemia? Anche perché la normativa in atto che prevede poteri sostitutivi delle amministrazioni centrali nel caso in cui non funzionino le amministrazioni locali sembra sostanzialmente farraginosa e di difficile applicazione. E poi sappiamo che non è che varie amministrazioni centrali siano più efficienti di certe amministrazioni locali. Visto che non si è voluto scegliere il modello di una agenzia con poteri straordinari sin dall’inizio dell’attuazione del PNRR forse è meglio ricorrere oggi, mentre manca ancora qualche anno, alla figura di un commissario ed ad una struttura commissariale piuttosto che non si riveli una delle tante occasioni perse della nostra storia economico politica, forse la peggiore.
-Come si possono superare secondo lei le difficoltà strutturali della nostra amministrazione?
Cercando una nuova sinergia tra pubblico e privato da un lato e dall’altro cercare una riforma del settore pubblico capace di reinventarsi e mettere il cittadino al centro vivremo di occasioni mancate. La nostra amministrazione ha bisogno di una vera e propria rivoluzione copernicana che ponga al centro di tutte le amministrazioni e i servizi pubblici il cittadino e l’impresa, un po’ come avvenne a suo tempo negli Usa con il Reinventing Government varato con successo da Bill Clinton e Al Gore, non a caso sulla base dello slogan “Put People First” e con il sotto titolo “come avere un’amministrazione che costi meno e funzioni meglio”. Creando una sinergia alla francese che permetta un dialogo tra grandi istituzioni e top management.
-Esiste ancora un aut aut tra tecnocrazia e dilettantismo nella politica italiana?
Ma sa, si tratta in realtà di una falsa alternativa. Perché i governi tecnici non possono essere la regola, ma solo l’eccezione della politica. Viceversa il dilettantismo, prodotto dagli errori di ideologie scellerate come l’incompetenza al potere e “l’uno vale uno” hanno svilito e debilitato il ruolo della politica. Oggi assistiamo al ritorno, finalmente di un governo politico, forte di una solida maggioranza confermata dal voto popolare, ma ciò non basta per risolvere i veri problemi della classe politica. Occorre ricostituire una sana classe politica capace di affrontare i problemi del presente e proiettarsi sulle sfide del futuro. E per fare ciò occorre raggiungere tre obiettivi: rilanciare il senso della memoria storica senza cui né si può capire il presente né progettare il futuro; risanare il divorzio tra politica e cultura attraverso una formazione politica che sappia essere tecnica, culturale ed integrale; promuovere una cultura del merito capace di selezionare una classe politica preparata e capace. Per raggiungere questi obiettivi ho fondato l’Academy di cultura e politica Giovanni Spadolini, di cui sono presidente, insieme a grandi personalità del panorama culturale italiano come Andrea Monorchio, Lamberto Dini, Maria Rita Parsi, Giuseppe De Rita e Carlo Malinconico. Per formare una nuova classe politica che partendo dall’eredità di Spadolini possa affrontare le sfide del presente e del futuro.