Al numero 97 di via XX Settembre si trova la Ragioneria Generale dello Stato. Il grande tempio della finanza pubblica a cui ogni anno è dato il fondamentale quanto gravoso compito di rinnovare attraverso il bilancio di Stato il contratto sociale; i desideri e i progetti, i sogni e bisogni del Paese. Quello della Ragioneria è un mondo fatto di conti e di bollinature, di bilanci e voci, di numeri e di austeri professionisti, che in silenzio, lontano dai clamori dello sproloquio politico, realizza e sostiene le finanze nazionali, configurandosi nel tempo come una di quelle tre grandi istituzioni che garantiscono l’integrità e il prestigio dello Stato, insieme alla Banca d’Italia e all’arma dei Carabinieri. All’interno del palazzo della Ragioneria Generale dello Stato operano tecnici tra i più scrupolosi e selezionati dell’amministrazione pubblica, che si muovono, con solennità e rigore, nella corrente cartacea di proposte, di disegni di legge e di provvedimenti, da visionare, da valutare e (ove possibile) da realizzare attraverso il marchio della “bollinatura”, sigillo istituzionale che ne garantisce la copertura e la futura attuazione.
Un “tempio di numeri e di conti” orchestrato e organizzato dalla figura del Ragioniere Generale dello Stato, che ne coordina e ne amministra le funzioni, sotto lo sguardo vigile ed etereo di Frate Luca Pacioli, fondatore della ragioneria e rinascimentale teorizzatore della partita doppia, il cui ritratto, da sempre vigila sui grand commis che hanno guidato il palazzo di Via XX Settembre. Di questa istituzione il professor Andrea Monorchio è stato per oltre 13 anni l’indiscusso protagonista, quando dopo una lunga carriera nella contabilità pubblica, nel 1989 divenne il 17° Ragioniere Generale dello Stato. Calabrese, classe 1939, è stato uno dei maggiori civil servant italiani che ha accompagnato lo sviluppo delle istituzioni repubblicane, dalla sua entrata nella pubblica amministrazione a soli 19 anni fino ad un lungo percorso culminato come Ragioniere Generale e poi come figura di grand commis in numerose aziende a partecipazione pubblica come la Consap e l’I.SPA, consigliando e collaborando durante il suo percorso di servitore dello stato, i protagonisti della scena politica da Andreotti a Berlusconi, da Guido Carli a Giuliano Amato, rendendosi noto e riconoscibile per la sua estrema competenza e per la sua indiscussa neutralità politica.
Docente e funzionario, tra i massimi conoscitori esistenti della contabilità pubblica, Andrea Monorchio però non ha la freddezza e il distacco che si accosterebbe facilmente al suo compito. Cordiale e cortese, di una umanità travolgente e dalla profonda sensibilità e bontà (gli agenti che lo accompagnavano durante il suo periodo sotto scorta raccontavano che era solito finire le cene prima del previsto affinché i poliziotti non tornassero troppo tardi dalle loro famiglie) Monorchio si presenta come un galantuomo meridionale capace di mischiare piacevolezza e riserbo, modestia e autorevolezza, chiarezza e timidezza. Per i giornalisti e i politici che lo hanno affiancato è stato “padre buono in un mondo di patrigni, un uomo limpido in un ambiente umanamente ricco di opacità”. Per Gianni Letta è “un esempio e un modello insuperabile” di uomo del silenzio e alto dirigente pubblico, secondo Giuseppe De Rita invece è stato uno dei funzionari in cui si poteva trovare la massima passione civile ed il migliore senso dello Stato; per la classe politica e i presidenti della Repubblica era un riferimento, una garanzia, una certezza. Quando gli ho chiesto come si definirebbe mi rispose “un funzionario dello Stato” e dopo numerose insistenze “solo un buon funzionario dello Stato”. Un uomo modesto, ma autorevole, ieratico, ma amichevole, capace di confrontarsi con giornalisti e con politici di ogni schieramento con semplicità e imparzialità, ma soprattutto con una profonda umanità, che lo rese il più apprezzato tra i funzionari pubblici.
Parla poco e mai di sé stesso, ama la caccia e i romanzi di Hemingway, è stato battezzato da un beato ed è legatissimo alla sua Reggio Calabria. Di fronte alla fiera dei comunicatori perenni dell’agora pubblica ha sempre preferito la regola del silenzio, la via del riserbo. Recentemente, però, ha deciso di raccontarsi, di confessarsi in uno splendido libro-dialogo “Memorie di un Ragioniere Generale dello Stato tra scena e retroscena” (edito da Rubbettino, con la prefazione di Gianni Letta e la postfazione di Giuseppe De Rita) con il consigliere parlamentare, politologo, intellettuale e saggista Luigi Tivelli, grande civil servant e amico di vecchia data con cui ha pubblicato molti libri (tra cui Viaggio Italiano. Vizi e virtù dell’Italia in Europa del 2002) e svolto numerose iniziative culturali. Un libro dove vengono analizzati, commentati ed evocati oltre quarant’anni di vita istituzionale ed economica italiana, tra scena e retroscena, ricordo e cronaca. Mostrandosi come una figura imparziale che non solo ha mostrato la sua estrema competenza e capacità, ma, come ha scritto Vincenzo Malacrinò, ha saputo dare un cuore, come nessun altro, ad un mondo di conti e numeri, dimostrando non solo grande senso dello stato, ma anche grande senso della nazione. Per meglio comprendere il suo percorso nelle istituzioni e il ruolo e i meccanismi che reggono il mondo della RGS abbiamo intervistato il professor Andrea Monorchio, nella sua residenza romana.
-Quali sono i compiti e le responsabilità di un Ragioniere generale dello stato?
Occorre innanzitutto sottolineare che la Ragioneria generale dello Stato (RGS) è un Dipartimento del Ministero dell’economia e delle finanze, articolato in dieci direzioni generali. Tra le sue funzioni vi sono quelle di alta amministrazione, in quanto tutti i provvedimenti di legge passano al vaglio della RGS. Questa, in attuazione di quanto previsto dall’articolo 81 della Costituzione, non si limita solo a valutarne la copertura finanziaria, ma entra talvolta anche nel merito dei provvedimenti al fine di valutarne la conformità e la coerenza col sistema normativo. La Ragioneria, inoltre, attraverso gli Uffici centrali del bilancio (ex ragionerie centrali), controlla la regolarità degli atti e provvede alla tenuta delle scritture contabili di ciascun Ministero; attraverso i propri uffici ispettivi, esercita la vigilanza (ex-ante ed ex-post) sulla gestione finanziaria degli enti pubblici; provvede al coordinamento e al controllo dei servizi di tesoreria statale; ha la funzione , infine, di monitorare l’andamento della spesa nei vari comparti nonché gli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali nel pubblico impiego.
-E come è cambiata la fisionomia di questo ruolo nel tempo?
Nel tempo la Ragioneria generale ha subito una metamorfosi profonda: da ufficio di controllo è diventato anche ufficio di impostazione economica, di alta amministrazione. E comunque si è allineata alle numerose spinte riformistiche che hanno interessato, in generale, la pubblica amministrazione italiana senza tuttavia perdere la propria vocazione originaria. Posso ribadire, senza ombra di dubbio e senza tema di smentita, che tale Dipartimento ha dato un contributo molto rilevante all’implementazione delle riforme in settori di fondamentale rilevanza, quali, ad esempio, la previdenza, la sanità, il pubblico impiego, il sistema delle autonomie, eccetera. Indubbiamente uno dei compiti più importanti della Ragioneria generale dello Stato è la redazione e gestione del bilancio di previsione dello Stato nonché la predisposizione del rendiconto generale, che però è un provvedimento privo di contenuto sostanziale.
–Una grande responsabilità, come ha vissuto questo ruolo?
Avevamo letteralmente tra le mani i soldi degli italiani e la loro distribuzione per il finanziamento dei vari programmi di spesa pubblica. Non le nascondo che molto spesso il peso di questa responsabilità era quasi insostenibile, soprattutto quando, per far quadrare i conti, si era costretti a effettuare tagli di spesa in importanti settori economici e sociali. Tagli che però risultavano necessari per garantire non solo la sostenibilità di lungo periodo, ma anche l’equità intergenerazionale della finanza pubblica.
-Come è iniziata la sua carriera nella Ragioneria generale dello Stato e come ne è diventato la massima carica?
Ho iniziato il mio percorso professionale nel 1968 come Consigliere di terza classe in prova, dopo aver vinto un rigoroso concorso. Successivamente sono stato ammesso alla Scuola superiore della pubblica amministrazione (oggi Scuola nazionale dell’amministrazione), che aveva sede nella splendida Reggia di Caserta. Ripensandoci, mi fa un po’ sorridere e un po’ riflettere il fatto che alcuni eventi fondamentali della mia vita sono stati accompagnati da cambiamenti così importanti tutt’attorno a me. Gli anni 1968 e 1989, quando divenni Ragioniere Generale, sono, infatti, due anni molto significativi che hanno trasformato irrimediabilmente la società in cui vivevamo e che, in un modo o nell’altro, hanno condizionato anche la mia storia personale e il modo con cui ho affrontato le mie scelte.
-Che ricordo ha della sua formazione a Caserta?
Tornando col pensiero al periodo trascorso a Caserta, ricordo che in quegli anni le lezioni tenute alla Scuola non differivano poi molto da quelle tenute all’Università, tant’è che spesso ascoltavo senza però acquisire concetti nuovi o particolarmente significativi per la mia formazione. Ciononostante, nel suo complesso l’esperienza è stata molto interessante e non priva di qualche evento particolarmente degno di nota. Tra questi, vi è un episodio che mi è sempre rimasto nella mente: la visita a Caserta dell’allora Ragioniere generale Gaetano Stammati, una figura probabilmente rivelatasi determinante per le mie scelte future. Nel discorso che ci fece disse, tra l’altro, «mi auguro che qualcuno di voi porti nel suo zaino il bastone di maresciallo»; un’espressione colorita, tratta da Guerra e Pace, che però mi rimane tutt’ora stampata nella mente come se avessi Stammati ancora davanti. Io, che già avevo dubbi nello zaino, non avrei mai pensato di disporre di quel bastone che rievocava una citazione di Napoleone, il quale voleva, da un lato, celebrare il valore dell’esercito francese e, dall’altro, indicare che a ciascuno era offerta la possibilità di farsi grande con l’onore delle armi. Una possibilità che mi è stata offerta e che mai da giovane ragazzo calabrese avrei immaginato di poter cogliere.
-Al termine del periodo di formazione, però, iniziò il suo viaggio nella Ragioneria Generale dello Stato…
Sì. Finita la Scuola, ritornai nel grande palazzo di via XX Settembre, dove fui assegnato all’Ispettorato generale del bilancio, e in particolare alla divisione che coordinava il bilancio pubblico alle dipendenze di un grande Ispettore, Fernando Mascetti. Un uomo severo, duro, inflessibile però di una bravura mostruosa che era in grado di spiegare, motivare, dimostrare ogni singola voce del bilancio. Da lui imparai tantissimo. Purtroppo, fu investito durante una abituale passeggiata morendo tragicamente. Provai un dolore immenso per la sua scomparsa. Successivamente, ho fatto tutta la carriera nei ranghi della Ragioneria generale dello Stato sempre all’Ispettorato generale di bilancio, potendo vantare tra i maestri due Ragionieri generali: Vincenzo Milazzo e Giovanni Ruggeri (quest’ultimo mio diretto predecessore).
–Numerose molte figure pubbliche, dai capi di gabinetto ai parlamentari, convergevano tutti sul comune terrore per la “bollinatura”. Che cos’è la bollinatura e perché fa così paura alla classe politica?
Sostanzialmente, uno dei compiti della Ragioneria è di verificare se il testo del disegno di legge e gli emendamenti che arrivano dai palazzi istituzionali siano dotati della necessaria copertura finanziaria. Tenuto conto che ogni provvedimento che comporta nuovi o maggiori oneri per il bilancio pubblico deve indicare i mezzi per farvi fronte e che all’obbligo di copertura finanziaria si può far fronte in vari modi, e cioè, con la decurtazione di precedenti autorizzazioni legislative di spesa, con l’introduzione di nuovi tributi o l’inasprimento di quelli esistenti, con la revisione delle norme che fissano i parametri per il computo delle spese obbligatorie e con l’utilizzo delle risorse accantonate nei fondi speciali per provvedimenti da approvare. Quando si parla di “bollinatura”, quindi, ci riferiamo sostanzialmente a un piccolo bollo, grande quanto una sigaretta, con la sigla del Ragioniere dello Stato, che viene posto su ogni pagina del provvedimento che comporti, o meno, maggiori oneri per la finanza pubblica, per dimostrare che esso è adeguatamente coperto. Questo atto, apparentemente semplice, è considerato talmente importante che i Presidenti della Repubblica non dovrebbero autorizzare la presentazione di progetti di legge privi della bollinatura, che ne attesta il rispetto dell’obbligo sancito dal terzo comma dell’articolo 81 della Costituzione. Ad esempio, Cossiga senza il bollino della Ragioneria Generale dello Stato non firmava. Proprio per l’importanza di questo vaglio la classe politica ne ha sempre avuto un infondato terrore.
–Piero Barucci, ad esempio, cita ne “L’isola italiana del Tesoro” l’incubo della bollinatura… Ha mai avuto complicazioni riguardo la bollinatura?
Io non ho mai avuto problemi riguardo la bollinatura perché durante il processo di realizzazione dei provvedimenti io seguivo sempre tutte le tappe dell’iter che li predisponeva provando a cercare sempre un punto d’incontro tra necessità tecniche e le esigenze politiche. Guardando con preoccupazione, ma anche con realismo riguardo gli effettivi antidoti ai problemi del Paese.
-Come mai lasciò la Ragioneria generale dello Stato e che bilancio ha tratto della sua attività?
A differenza di quanto si possa immaginare, la mia non è stata una decisione impulsiva, ma maturata già quattro anni prima, dopo essermi convinto che la permanenza a lungo in una posizione tanto impegnativa fosse diventata ormai eccessivamente logorante e forse inopportuna. Entrato in quel ruolo a cavallo tra la fine della Prima e l’inizio della Seconda Repubblica, in quelli che dal punto di vista istituzionale sono stati anni particolarmente complessi, avevo visto e partecipato abbastanza alla vita pubblica e amministrativa per non sentirmi a mia volta “quasi consumato”, sia fisicamente che mentalmente, dallo svolgimento delle mie mansioni. Non direi quindi, come qualcuno può aver pensato impropriamente, che le mie dimissioni siano state il frutto di attriti con Tremonti, con cui anzi avevo ottimi rapporti, considerato che la nostra frequentazione risaliva ai tempi in cui lui non era nemmeno ancora entrato in politica e faceva il commercialista e il docente universitario. Devo però onestamente dire che, quando gli paventai la mia intenzione, lui non fece poi molta opposizione, probabilmente perché si era reso conto del logorio cui ero stato sottoposto per tanti anni. Le mie dimissioni, peraltro, avvennero quasi contemporaneamente a quelle dell’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi. D’altra parte, essere Ragioniere dello Stato da così lungo tempo mi aveva permesso di guadagnare in autorevolezza e di godere di una influenza quasi politica nel mio lavoro.
-Negli anni Novanta lei lavorò a stretto contatto con Mario Draghi. Che ritratto può farci del precedente presidente del Consiglio e banchiere europeo?
Draghi ricopriva l’incarico di Direttore generale del Tesoro dal 1990, avendo sostituito in tale posizione Mario Sarcinelli. Ricordo a questo proposito che una sera a cena a casa mia, presente tra gli altri il presidente della Banca di Roma Pellegrino Capaldo, Guido Carli mi chiese se avessi qualcosa in contrario al fatto che anche il Direttore generale del Tesoro, appunto Mario Draghi, fosse equiparato al grado di Ragioniere generale. A questa richiesta, caldeggiata dall’autorevolezza di Carli già di per sé estremamente convincente, gli risposi che non avevo nulla in contrario e nei giorni successivi, incontrando nel progetto qualche opposizione in sede politica, mi adoperai personalmente perché andasse in porto. In oltre dieci anni di frequentazione, spesso assieme anche in organi collegiali, i miei rapporti con Draghi sono stati di rispetto, collaborazione, stima e amicizia reciproca. Un uomo preparato, dal respiro internazionale, intelligente e acuto, che ho sempre apprezzato.
-Nel panorama politico, dalle istituzioni ai media, tutti la descrivono come una figura imparziale, un grande civil servant. Quale è il segreto del suo successo?
Credo di aver “conquistato” (anche se si tratta di un termine un po’ azzardato…) questa stima e questi encomi per alcuni motivi professionali, in cui hanno un ruolo importante la mia preparazione e le mie attitudini caratteriali. Infatti, da quando ho iniziato il mio percorso nella Ragioneria Generale dello Stato non c’era un libro sul bilancio pubblico, sulla contabilità di Stato che io non conoscessi. Questo perché affidavo, ed affido tuttora, al bilancio pubblico un mandato fondamentale: quello di inverare e rinnovare il contratto sociale ad ogni sua redazione. Se esso non venisse fatto con scrupolo, con metodo, con attenzione non si potrebbero realizzare i servizi, i diritti e le istituzioni a cui il cittadino contribuisce con il proprio lavoro, con il proprio impegno. Per questo ho sempre approfondito e studiato, conscio soprattutto della mia responsabilità istituzionale non vedendo nella mia attività solo una professione, ma soprattutto un servizio ed una responsabilità che necessitava della maggiore preparazione possibile e di un continuo aggiornamento. Ciò credo abbia contribuito in qualche modo ad alcuni apprezzamenti e commenti positivi.
-Solo queste sono secondo lei le motivazioni del suo successo?
Credo poi che un altro fattore potrebbe essere la mia chiarezza e semplicità. Durante la mia esperienza alla Ragioneria Generale, a tutti i politici, funzionari e tecnici che ho incontrato, ho sempre cercato di spiegare in maniera chiara, semplice e trasparente il funzionamento del bilancio pubblico in modo da far comprendere a tutti loro come funzionava e come funziona veramente il lavoro della Ragioneria Generale dello Stato. Anche se forse la cosa che più mi ha fatto ottenere la considerazione del mondo politico ed istituzionale è stata la mia totale neutralità politica. Non ho mai fatto distinzioni, preferenze, favoritismi. Perché trattavo i democristiani e i missini, i comunisti e i repubblicani, i socialisti e i liberali alla stessa maniera. Una neutralità politica che non mi attribuisco apoditticamente, ma di cui ho fatto sempre una mia missione personale e che mi è stata confermata più e più volte.
-Ad esempio?
Una volta, ed il fatto è indelebile nella mia memoria, durante una seduta parlamentare, quando fui nominato Ispettore Generale capo della Ragioneria.
-Può raccontarci questo aneddoto?
Certamente. Quando fui nominato Ispettore capo del bilancio, a quarantadue anni, andai alla Camera dei Deputati per una audizione. Durante questa audizione l’onorevole Macciotta, comunista, prima di iniziare la seduta, chiese la parola. Il presidente dell’epoca era un po’ spazientito, perché non era ancora iniziata la seduta e già si chiedeva la parola. Fece allora delle piccole obiezioni, ma Macciotta insistette, e gli concessero di parlare. Macciotta, che era capogruppo del PCI alla Camera, allora si alzò e fece un elogio alla mia persona al Governo, come figura competente e imparziale. E dopo di lui tutti i capigruppo di tutti i partiti si accodarono a questo elogio. Fu un segno di estrema benevolenza.
–Quali sono le persone che più di tutte hanno forgiato il suo carattere e il suo modo di essere?
Sicuramente molto della persona che sono è dovuto alla mia famiglia, all’educazione datami dai miei genitori.
-Cosa le insegnarono?
La modestia. L’abitudine ad essere sempre gentile e cortese con tutti. Senza mai fare pesare il proprio ruolo o permettersi di alzare la voce solo per quello che si è fatto o per i galloni che si portano al braccio. Parlare con semplicità e spontaneità. Trattare gli altri con calma con gentilezza, senza spazientirsi. Forse è questo il principale insegnamento che devo ai miei genitori.
-Anche Di Pietro convenne con questa descrizione?
Sì. Una volta Di Pietro mi disse “durante le mie inchieste [nel periodo di Tangentopoli ndr] ho interrogato tante persone per tante questioni, ma non c’è stata una sola persona che mi abbia mai parlato male di lei”. E per tale ragione volle conoscermi.
-Di lei oltre che Di Pietro presidenti del Consiglio e della Repubblica avevano la massima considerazione. Fu Andreotti se non sbaglio ad invitarla a presenziare nei Consigli dei ministri?
Il primo Consiglio dei Ministri lo feci sotto Andreotti, introdotto da Guido Carli, per spiegare ai membri del Governo la situazione complessa e delicata del bilancio pubblico su cui servivano chiarimenti e pareri tecnici che richiesero la mia presenza. Cosa che successe anche con altri governi come, ad esempio, durante il governo Amato e il governo Dini. Deve sapere che per me è sempre stato un motivo di vanto il fatto che sono stato l’unico funzionario dello Stato che ha partecipato ai diversi Consigli dei ministri, che sono segreti, in tanti governi di diverso colore confermando una imparzialità che ho sempre cercato di seguire.
-Lei fu anche chiamato ad assistere e consigliare la nascita del governo Berlusconi. Come visse quei giorni?
Un giorno fui convocato dal presidente Scalfaro, che conoscevo e con cui già mi ero confrontato in più occasioni quando era ministro dell’Interno, per assistere e consigliare il governo Berlusconi che si stava formando in quei giorni su alcune tematiche cruciali per il Paese. Parlai quindi con Gianni Letta, con cui ho sempre avuto un ottimo rapporto (è stato lui, infatti, a scrivere l’introduzione del mio libro) e poi mi introdussero da Berlusconi. Durante questa esperienza mi proposero anche di fare il ministro, ma rifiutai.
-Perché rifiutò?
Perché mi sono accorto durante tutti i miei anni come funzionario pubblico che per fare politica occorre avere una certa “mentalità”. Una necessaria duttilità che porta a piegarsi a delle esigenze politiche che cozzano totalmente ed inevitabilmente con alcune esigenze tecniche. Per questo ho sempre preferito scansare questi incarichi politici.
-Ebbe mai degli scontri o dei dissidi con alcuni membri della classe politica?
Non parlerei di scontri, ma di confronti.
–Invece può raccontarci alcuni contrasti con i ministri con cui ha collaborato?
Ma sa i ministri con cui ho collaborato erano tutti dei grandi professionisti ed ho avuto con tutti buoni rapporti anche se ci sono stati alcuni contrasti, ma non rilevanti soprattutto perché ho sempre voluto mantenere un rapporto di collaborazione e dialogo con la politica.
-Quali?
Una volta, ad esempio, (è un inedito perché non lo ho citato nel libro), feci una obiezione a Giovanni Spadolini in Assemblea, il quale subito mi rimproverò perché a suo dire avevo espresso un parere errato. Poco dopo Ruggeri e altri funzionari raggiunsero Spadolini e gli spiegarono che in realtà avevo ragione io e che quella sua critica era errata. E allora sa che fece Spadolini?
–Che fece?
Spadolini fece correggere il resoconto stenografico, togliendo questa sorta di rimprovero. Successivamente mi regalò tutti i libri che aveva scritto con lunghe dediche firmate con quella sua ampia e inconfondibile calligrafia. Tutti aspetti che contribuirono ad una certa benevolenza che il mondo politico e l’amministrativo aveva nei miei confronti.
– Guido Carli diceva “i governi tecnici o sono una impostura o sono una illusione”. Lei come la pensa riguardo l’esplosione di questa “tecnocrazia”?
Io sono dell’opinione che i governi devono essere politici. Perché il paese vota e deve vedere rappresentate le sue esigenze. Un tecnico non riesce sempre a rappresentare le esigenze popolari, perché segue delle necessità tecniche per l’appunto. Lo abbiamo visto anche nel caso di Draghi. Il quale è stato costretto per mantenere salda la bussola del suo governo a subire tutta il bonusmania che ha caratterizzato gli ultimi anni per assecondare le istanze dei partiti che lo sostenevano. I governi, quindi, devono essere formati da politici… poi se sono anche degli esperti è sicuramente meglio. Però un buon politico non deve essere necessariamente un tecnico.
-Che ricordo ha dei ministri che ha conosciuto?
Tutte persone di grande livello, serietà e capacità e che pur non avendo nessuna infarinatura della finanza pubblica messi a fare i ministri del Tesoro fecero delle grandi riforme per il paese. Se devo fare una menzione speciale sicuramente devo citare Guido Carli che, oltre ad essere un grande ministro, fu una figura di spessore che in un momento di grave difficoltà per il Paese riuscì a donare al governo italiano la credibilità di cui necessitava. E soprattutto a farci entrare nell’Unione europea.
-Cosa le ha lasciato Guido Carli?
Da Guido Carli appresi anche che in momenti cruciali il nostro paese trovava da sé la forza di reagire. Questa convinzione mi maturò poi nella primavera-estate del 1992, quando l’Italia, immersa in una vera e propria tempesta finanziaria che abbatteva il valore della Lira, colpo su colpo, mentre il nostro paese rischiava il default. Soltanto il coraggio di Giuliano Amato riuscì a raddrizzare una barca che faceva acqua da tutte le parti. Tornando a Guido Carli, credo che la mia impronta di civil servant dello Stato mi fu data proprio da lui. Era un uomo severo, rigoroso, ma mi voleva un grande bene. Mi portava sempre con lui. Per me questa frequentazione fu fondamentale, perché non era una frequentazione taciturna ma era una frequentazione nella quale il Maestro Guido Carli si esprimeva al meglio verso questo giovane allievo, che prediligeva.
-Quali sono stati i momenti più belli ed importanti della sua carriera?
Quando mi chiamò Giovanni Ruggeri, che era il mio predecessore come Ragioniere Generale dello Stato, e mi disse che con il ministro Goria mi avevano proposto come Ispettore generale capo. All’epoca avevo quarant’anni, la media dei pochissimi che avevano iniziato questo ruolo era di oltre sessant’anni… Un altro momento di soddisfazione fu quando Carli mi disse che avevano deciso col presidente Andreotti che io sarei stato il 17° Ragioniere Generale dello Stato. Una carica che mi diede dopo un lungo esame umano e professionale.
–Quale è un suo grande vanto, una soddisfazione di cui va particolarmente fiero?
Ho avuto molte soddisfazioni nella mia vita. Ma forse quella di cui sono più contento ad oggi è che il mio libro di Contabilità di Stato sia considerato il migliore libro sul tema che ci sia un Italia, su cui si sono formati tanti magistrati contabili e studenti universitari. Sa, mi piace più scrivere che parlare. Sono più un uomo dei consigli che un uomo dei proclami e in quel libro ho condensato molto del mio percorso nella finanza pubblica.
-Si considera un “uomo del silenzio”?
Sì certamente.
-E cosa vuol dire per lei essere un uomo del silenzio?
Vuol dire avere la riservatezza delle cose che si conoscono nell’interesse superiore delle istituzioni. Riferire, dire, solo quello che si può dire, senza creare divisioni o fratture, senza alimentare pettegolezzi o ambiguità. Ascoltare non parlare, capire non interpretare. La riservatezza è essenziale per un funzionario pubblico. Lei si immagini Dottore che io ho avuto il nulla osta di massima segretezza e nella mia carriera mai è uscita una parola che non fosse di pubblico dominio. Ecco cosa vuol dire per me essere un uomo del silenzio.
–Nel libro qualche indiscrezione o qualche “te lo avevo detto” però lo ha scritto?
Certamente il libro che ho scritto con Luigi Tivelli è stato anche un modo per togliermi qualche macigno, più che qualche sassolino, dalle scarpe e valutare a posteriori che io in fondo avevo ragione su alcune questioni vitali per il Paese.
–Del tipo?
Ad esempio, quando il presidente della Repubblica mi chiamò per assistere il neonato governo Berlusconi immediatamente Bassanini, Berlinguer e Cavazzuti presentarono una interrogazione parlamentare. Mi riferirono che la risposta della Presidenza del Consiglio di intesa con la Presidenza della Repubblica fu seguente: il Presidente del Consiglio incaricato era un organo costituzionale provvisorio e come tale si può avvalere di tutti gli organi dello Stato compresa la Ragioneria generale.
–E invece un macigno o un sassolino che si vuole togliere? Un provvedimento o una legge che per lei fu veramente un errore?
Senz’altro la riforma – adottata nel 2001 – del titolo V della Costituzione, che si è rivelata una iniziativa dei governi di centro sinistra pensata esclusivamente per motivi elettorali e che ha rappresentato e rappresenta oggi più che mai una iattura per il nostro paese. Poiché ha acuito quel divario presente nel nostro paese tra Nord e Sud, che poi verrà accentuato dall’autonomia differenziata.
-Oggi so che è una figura di spicco della Academy di cultura e politica Giovanni Spadolini. Cosa la ha spinta a entrare in questo progetto?
Io credo sia importante e fondamentale risanare il divorzio tra politica e cultura, quel divorzio che oggi più che mai compromette sia una sana meritocrazia nell’amministrazione sia il recupero della memoria storica. Ed è questo il motivo per cui alla mia veneranda età ho deciso di fare parte dell’Academy Spadolini e di seguire insieme a Tivelli ed a tante altre figure di spicco del panorama culturale italiano questa battaglia per riportare la cultura nella politica, per abbattere il dramma del presentismo e per rilanciare la questione del merito. Perché senza cultura non si può comprendere un mondo che cambia e che diventa ogni giorno di più sempre più complesso.
-Quali sono i suoi riferimenti culturali? Chi c’è nel Pantheon di Andrea Monorchio?
Ho letto molto, soprattutto gli americani, Hemingway ad esempio che ho riletto recentemente in Danimarca. Ho spesso riletto le poesie della mia formazione scolastica soprattutto Carducci. Dal punto di vista cinematografico invece direi i film di Fellini e di Bergman.