OGGETTO: La fragilità dei Paesi sicuri
DATA: 31 Ottobre 2024
SEZIONE: Politica
FORMATO: Analisi
AREA: Europa
L'accordo per il trasferimento dei richiedenti asilo dall'Italia all'Albania riapre un acceso dibattito sulla definizione di "Paese Sicuro", evidenziando le sfide legali e le divergenze tra la normativa nazionale e gli orientamenti dell'Unione Europea riguardanti la protezione internazionale e i diritti dei migranti.
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Il recente accordo tra Italia ed Albania sul trasferimento dei richiedenti asilo ha riacceso il dibattito in tutta Europa sulla definizione di ‘’Paese Sicuro’’, in relazione al potenziale contrasto tra le norme nazionali ed il diritto comunitario. Come rilevato dal Tribunale di Roma, affinché un Paese venga definito sicuro è necessaria la presenza cumulativa di due condizioni, indicate con sentenza del 4 ottobre 2024, dalla Corte di Giustizia: la prima, oggettiva, è che il territorio del Paese di provenienza sia sicuro nella sua interezza e, come condizione soggettiva, che lo sia per tutti i suoi cittadini indiscriminatamente. Proprio quest’ultima è stata ritenuta non sussistente dal Tribunale di Roma per quanto concerne gli individui provenienti da Egitto e Bangladesh, da qui la mancata convalida del trattenimento di dodici dei sedici migranti soccorsi dalle autorità italiane in acque internazionali e trasferiti nel CPR di Gjander in Albania, con conseguente passaggio alla procedura ordinaria di rimpatrio in territorio nazionale. 

Il concetto di ‘’Paese Sicuro’’ porta con sé sia problemi definitori, risolti solo parzialmente dalla Corte di Giustizia, oltre a conseguenze giuridiche notevoli.

In primo luogo, la definizione di paese sicuro è stata utilizzata per la prima volta dalla Danimarca negli anni Ottanta, trovando ampia e rapida diffusione in tutta l’Unione, fino ad arrivare alla definizione generale (quanto generica) comunitaria di “Stato in cui, sulla base della situazione giuridica, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generalesi può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni”.

Tuttavia, non è mai stato raggiunto un accordo unanime su una lista vincolante di Paesi di Origine Sicuri valida per tutta l’Unione. La questione è stata lasciata alla legislazione nazionale dei singoli Stati membri, che hanno adottato valutazioni divergenti sul numero e la natura degli Stati ai quali attribuire lo status di Paese Sicuro. Questo ha generato una situazione di frammentazione e incertezza normativa, che rimarrà tale anche quando nel 2026 entrerà in vigore il Patto sull’Immigrazione approvato ad Aprile a livello europeo, nel quale la definizione viene modificata, dando la possibilità di designare come Paesi Sicuri anche Stati con “eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili”.

L’effetto sarà in sostanza quello di rendere i criteri individuati dalla Corte Ue non più validi in quanto, salvo futuro ricorso per annullamento, si passerà ad una definizione che permetterà di identificare come sicuri anche Stati solo ‘’parzialmente sicuri’’, ammettendo eccezioni per parti del territorio o minoranze chiaramente individuabili. 

Da un punto di vista giuridico le conseguenze sono importanti: difatti qualora un Paese sia considerato ex lege sicuro, vi è la possibilità di accedere ad una procedura di rimpatrio accelerato, attraverso una presunzione relativa, dunque passibile di prova contraria da parte del richiedente, di inammissibilità della domanda di asilo. 

Sulla base di queste considerazioni è possibile esaminare con cognizione di causa la posizione del Governo italiano e le modalità attraverso le quali sta tentando di ‘’salvare’’ l’accordo con l’Albania nonostante la decisione dei magistrati di Roma, quest’ultima in ogni caso considerabile coerente con le norme vigenti. Difatti la lista dei Paesi Sicuri stilata dall’esecutivo italiano era prevista da un decreto del maggio 2024 del Ministero degli Esteri di concerto con quelli di Interno e Giustizia, dunque fonte regolamentare di rango secondario subordinata alla legge primaria. In seguito alla sopracitata decisione del Tribunale di Roma, il Consiglio dei Ministri ha varato un decreto-legge ad hoc, denominato informalmente ‘’decreto migranti’’, all’interno del quale è contenuta una lista Paesi Sicuri, passando dai 22 del decreto interministeriale di maggio ai 19 attuali, eliminando Camerun, Colombia e Nigeria in attuazione della sentenza della Corte di Giustizia, in relazione alla mancanza della condizione territoriale.

L’utilizzo della decretazione d’urgenza, considerando che il passaggio parlamentare per la conversione in legge ordinaria appare una semplice formalità comporta che la classificazione di Paese Sicuro diverrà legge rientrante tra le fonti primarie e non più regolamentare. Difatti, come sostenuto dal Ministro della Giustizia, in seguito all’inserimento della lista in un atto avente forza di legge, con conseguente conversione in legge ordinaria, ed in considerazione dell’utilizzo da parte dei giudici di Roma di una norma europea di carattere giurisprudenziale e non un provvedimento legislativo di portata generale, sarebbe preclusa la sua disapplicazione come precedentemente avvenuto.

Roma, Ottobre 2024. XXI Martedì di Dissipatio

Il Ministro, in altre parole, ritiene che i giudici non possano sottrarsi all’applicazione della nuova legge, pur rimanendo ovviamente intatta la possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il decreto-legge convertito, deferendo la controversia alla valutazione insindacabile della Corte Costituzionale. Sulla stessa lunghezza d’onda si è espresso il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, secondo il quale la sentenza della Corte di Giustizia UE è “estremamente complessa, difficilmente trasferibile a ciò che accade in via ordinaria nei flussi migratori”, dunque non direttamente applicabile alle situazioni di fatti presentate ai giudici, escludendone di conseguenza la vincolatività.

Tali ricostruzioni sono certamente definibili creative, se non addirittura superficiali, sussistendo perplessità sia sulla corretta applicazione del diritto europeo che sulla costituzionalità del decreto-legge. Tralasciando l’ampissima letteratura e precedenti giurisprudenziali sulle modalità di convivenza del diritto interno ed il diritto comunitario, frutto di un’evoluzione notevole dal Trattato di Maastricht del 1992 in poi, basti in questa sede evidenziare che il diritto interno, in caso di contrasto con le norme di diritto europeo, può essere semplicemente disapplicato dai giudici in ossequio al principio del primato del diritto europeo su quello nazionale. In virtù di tali dinamiche il Tribunale di Bologna ha utilizzato uno strumento previsto dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea per garantire coerenza normativa all’interno dell’Unione, rinviando pregiudizialmente alla Corte di Giustizia un ricorso presentato da un richiedente asilo del Bangladesh, classificato dall’esecutivo italiano come Paese Sicuro. 

In breve, il Tribunale di Bologna richiede alla Corte di Giustizia chiarimenti sulla compatibilità del decreto migranti con il diritto europeo, portando quest’ultima a determinare insindacabilmente se il decreto-legge sia o meno applicabile dai giudici. 

L’argomentazione dei giudici di Bologna è decisamente d’impatto, asserendo nella documentazione inviata alla Corte UE che ‘’se si dovesse ritenere sicuro un paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione la nazione giuridica di paesi di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i paesi del mondo e sarebbe dunque una nozione priva di qualsiasi consistenza giuridica’’, proseguendo, il Tribunale di Bologna porta gli esempi della Germania nazista e dell’Italia fascista, in quanto anche questi due Paesi sarebbero stati astrattamente da considerare ‘’sicuri’’ alla luce del decreto migranti, in quanto assicuravano un livello di sicurezza per la maggioranza della popolazione. 

La Corte di Giustizia sarà chiamata a smentire o confermare le posizioni del Ministro della Giustizia e del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nonché a decidere se il decreto migranti sia compatibile o meno con diritto europeo, eventualmente portando ad una sua disapplicazione da parte dei giudici in virtù del primato del diritto europeo. Non di meno, i dubbi di legittimità costituzionale del provvedimento sono forti, in particolare per l’assenza dei requisiti previsti dall’articolo 77 della Costituzione per emanare un decreto-legge, essendo l’utilizzo di tale strumento normativo riservato ai casi straordinari di necessità ed urgenza. 

Pertanto, nonostante il sindacato sulla necessità e l’urgenza di un decreto sia principalmente una questione politica: è consolidata la prassi di un controllo giurisdizionale, anche solo sotto il profilo formale, sull’atto. Una dichiarazione di illegittimità costituzionale da parte della Corte potrebbe, inoltre, estendersi alla legge di conversione eventualmente approvata dal Parlamento. La via intrapresa dall’esecutivo sulla questione migranti, lungi dall’essere solida e priva di insidie, rende ad oggi la possibilità che l’accordo con l’Albania si risolva in un buco nell’acqua da centinaia di milioni di euro più che concreta, con le relative conseguenze politiche.

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