Di romanzi d’amore sono sature le classifiche di vendita e le finali di premi letterari, nauseabonde batterie di conformisti tanto invise a Camillo Langone, che, distinguendosi per la tipica, aristocratica originalità, con La ragazza immortale (La nave di Teseo, 2023) dà vita ad un romanzo d’eternità. Ben oltre gli usi del culturame degli autori da bestseller – affetti da ambientalismo, animalismo, femminismo, genderismo, immigrazionismo e tutti gli ismi che intasano le menti – Langone percorre la via intramontabile dell’amore come tensione platonica alla perfezione spirituale, della femminilità come grazia e bellezza; il tutto sublimato dall’arte, mezzo coessenziale all’assoluto.
Il protagonista è un attempato esteta «nato al tempo del droghiere, del pizzicagnolo, delle mesticherie», epicureo, atarassico ed edonista in un’epoca di moralismi. Fa propria la massima di Orazio, «odio il vulgo profano e lo fuggo», in un’imperturbabile solitudine da satiro che s’interrompe quando una giovane musa «al camminare apparve veramente dea». La divinità in questione è – nomen omen – Benedetta, ventenne studentessa di giurisprudenza, ragazza inattuale a tratti anacronistica, «una specie di anarca jungeriano però di sesso femminile, molto femminile», gentile nel portamento e nel temperamento, «donna eccelsa senza paragone alcuno». La sua femminilità è pura e sprezzante, casta e procace; si mostra sensualissima nell’intelletto prima ancora che nei femori plateali, è «colta e differente». Così i due si trovano a parlare di Cioran e Ceronetti, si confrontano su Gomez Davila, Arbasino e Florenskij, coinvolgendosi in un rapporto puro, poetico e quotidiano come il pane, elemento simbolico tanto caro all’autore.
Il sentimento per la giovane picena rammenta al protagonista la lezione di Virgilio per cui tempus fugit, ed egli, conscio della caducità della propria condizione in confronto alla giovinezza dell’amante, vuole rendere eterno il loro amore attraverso l’arte. D’altronde, se il desiderio di immortalità è insito nel sentimento (forse dal latino a-mors), il ritratto pittorico, scrive Langone, «è il mezzo più efficace affinché una personalità superi i limiti della vita fisica». Decide così di farla ritrarre dai maggiori pittori italiani in circolazione (che esistono davvero), tra cui Riccardo Mannelli, Enrico Robusti, Luca De Angelis, Daniele Galliano, Nicola Verlato e Federico Lombardo. Ben oltre il solito – e quindi volgare – concettualismo (ancora un ismo) che oggi imperversa, le loro botteghe sono fucine d’eternità, e nella loro ars rivive l’idea di artista quale compositore del sacro e dell’infinito. Così, offrendo a Benedetta dodici ritratti, il protagonista le avrà donato la perpetuazione di un amore che, va da sé, oltrepassa la dimensione temporale.
Un romanzo vivace, originale, in cui l’eternità si profila al passaggio di Benedetta e si staglia ad ogni campitura di colore degli eccellenti pittori; non mancano i colpi di scena e gli strali di critica ad un’epoca ipocrita e liberticida, che bandisce la caccia mentre impone il coprifuoco. La ragazza immortale riporta alla memoria la lezione del Cantico dei Cantici nella traduzione di Ceronetti: duro come la morte / è l’amore, dimensioni che nel romanzo si alimentano e avvicendano, in un polemos a cui Langone conferisce una magnifica dimensione estetica già a partire dalla copertina, in cui risalta il Nudo in ginocchio di Giovanni Iudice. Con La ragazza immortale, Camillo Langone ci ricorda che la bellezza ha senso nella misura in cui turba e nobilita l’animo e l’amore trova compimento nell’anelito al bello, all’infinito, all’assoluto. Come quello per Benedetta, umanissima studentessa eterna come una dea.