Il Mare d’Azov è il più basso del mondo, nei punti più profondi non arriva che a una manciata di metri. Qualcosa più di un enorme stagno salato con acque scure che nascondono pericolosi fondali. L’uomo a prua scrutava la superficie plumbea, attento a notare il riflesso di uno scoglio affamato del ventre legnoso della sua imbarcazione. La costa non doveva essere lontana.
Da quando aveva lasciato Costantinopoli pensava ai discorsi dell’esule francese che aveva accompagnato in terra straniera. Se sparissero tremila tra i più importanti possidenti terrieri, nobili e cardinali non si arrecherebbe danno alla nazione, se invece a sparire fossero tremila tra i migliori studiosi, artisti e industriali la nazione diventerebbe un corpo senz’anima. L’eredità, proprietà privata svincolata dal merito e dall’ingegno individuale, è il freno per la nascita di un nuovo ordinamento. I notabili, il clero e i grandi finanzieri sono i parassiti della società, andrebbero estirpati, espropriati, non solo delle loro ricchezze, ma anche del loro potere. Il nuovo mondo appartiene agli uomini coraggiosi, che con l’intelletto e il talento, guidati dalla scienza, riusciranno a costruire una società equa votata a un progresso infinito. Il brigantino ebbe un sussulto. L’uomo a prua si concentrò sull’orizzonte. Le ultime miglia che lo separavano dalla terra ferma erano le più pericolose. Il mare improvvisamente si trasformava in una palude, trappola dai fondali melmosi per le navi incaute. Dall’inizio dell’anno già dieci vele erano rimaste insabbiate nell’invisibile labirinto salmastro.
Barrault, così si chiamava il francese, prima di abbandonare la nave gli aveva regalato un libro, Nuovo Cristianesimo di un certo Saint-Simon. L’unico cristianesimo che aveva conosciuto era quello della madre, donna devota e umile, una fede semplice e potente. La religione trascritta in quelle pagine, invece, era di tutt’altro spessore. Le parole gridavano un credo incondizionato nell’uomo e nelle sue virtù, capace di spezzare il giogo della sopraffazione e dello sfruttamento. Un’affermazione, però, lo aveva colpito più delle altre:
«L’uomo deve adottare l’umanità per patria e solo quando offrirà la sua spada e il suo sangue a qualsiasi popolo che lotta contro la tirannia, sarà più di un soldato: diventerà un eroe».
Una fiamma di ghiaccio divampò nel suo ventre. Sarebbe mai riuscito a diventare un eroe? «Giuseppe!». Il grido di un marinaio lo distolse dai suoi pensieri. A oriente si intravedeva una striscia di terra scura. Finalmente erano arrivati a destinazione: Taganrog!
Taganrog era il porto russo più importante del Mare d’Azov. Soglia marittima degli scambi con l’Oriente, ponte commerciale per il nuovo oro delle infinite pianure sarmatiche: il frumento. Il grano russo infatti, con la riapertura delle rotte marittime dopo le guerre napoleoniche, era ritornato al centro degli scambi tra i marinai europei e i mercanti asiatici. Cereale fragrante e resistente, materia prima a buon mercato, ottima per la pasta da lavorare in Europa e trasportare nelle Americhe. In realtà le navi italiane, e soprattutto quelle genovesi, non erano nuove di questi lidi. Da più di cinque secoli i coloni liguri commerciavano in quei porti e intrattenevano proficui affari con i mercanti dello zar. Giuseppe era il comandante in seconda del Clorinda, un brigantino con un equipaggio di venti uomini, salpato da Nizza due mesi prima. Un uomo di ventisei anni, statura media, fisico asciutto e potente. Aveva una chioma bionda e la barba rossiccia, e i suoi occhi, di un azzurro vivo, infondevano un sentimento di fiducia e simpatia improvviso nell’animo di chi gli capitava di fronte.
Non era la prima volta che arrivava in Russia per comprare il grano e conosceva bene Taganrog, specialmente le sue osterie. Bettole e locande dove si annegava la noia con fiumi di birra e una strana bevanda che chiamavano “acquetta”, limpida come quella di una sorgente, infuocata come un tizzone ardente. L’anno precedente, sul finire di una serata bagorda, era stato arrestato dalla polizia locale per schiamazzi notturni. Era a capo di un nutrito gruppo di giovani marinai italiani, tutti ubriachi, tutti felici di placare la sete di alcol e di donne in un andirivieni continuo tra taverne e bordelli. Cantavano a squarciagola canzoni in dialetto, mischiando quelle lingue così diverse tra loro: siciliani e genovesi, veneziani e toscani, ognuno con il suo accento, ognuno con il suo canto, giocando a prendersi in giro, ma sentendosi simili. Le grida babeliche non erano piaciute alle autorità, che avevano sbattuto in prigione Giuseppe, poi salvato solo per intercessione di un influente commerciante italiano ben conosciuto a Taganrog.
Quella sera però, appena sbarcati nel porto, Giuseppe non condivideva lo stesso eccitante entusiasmo della sua ciurma. Era taciturno, rifletteva sulle parole di Barrault. Lui sarebbe mai diventato un eroe? A quale popolo doveva offrire la sua spada, il suo sangue? Sedeva in un angolo appartato della locanda. Una panca di legno, un boccale di birra mezzo vuoto e una zuppa di pesce divorata senza fame. La taverna era piena di uomini dalle fisionomie più disparate. Quella cittadina sperduta ai confini del mondo contava la più alta percentuale di nazionalità presenti in un’unica stanza. C’erano i russi dell’Est, turchi, greci – formidabili mercanti in grado di venderti il tuo stesso nome a peso d’oro – maltesi, catalani, arabi, persino qualche immancabile inglese. E poi tanti italiani, ognuno proveniente dal suo Stato: napoletani, lombardi, marchigiani, piemontesi. Erano riuniti in crocchio, il gruppo più numeroso e caotico. Vociavano e si spintonavano allegri, sfidandosi a chi proponeva il brindisi più originale. A un certo punto un uomo attirò l’attenzione di tutti e richiese il silenzio. Alzò il boccale e disse, guardando negli occhi la sua platea:
«Naviganti, ognuno di noi è giunto su queste spiagge attraversando il cielo e l’abisso, lunghi giorni e perigliosi di un viaggio interminabile. Noi ora possiamo gettare al vento e al mare un nome; e il vento ci risponderà urlando, e il mare si ingrosserà afferrandolo! Eccolo il nome: brindiamo all’Italia!».
E tutti gli risposero gridando: «Italia! Italia! Italia!». Quel nome rimbombando in tutta la locanda, come il ruggito di un leone, sommerse Giuseppe e tutti i suoi pensieri. Si alzò dal suo angolino e si avvicinò al gruppo di marinai. Ora tutti tacevano e ascoltavano le parole dell’uomo che come un retore antico arringava la sua folla.
«L’Italia ora è vinta, divisa in mille stati che al momento non si fanno la guerra. Ma non v’è pace! La scintilla del fuoco che divamperà dalle Alpi fino in Sicilia, cova silenziosa sottoterra. Si annerisce, sembra affievolirsi… ma solo per bruciare con più forza domani. Ora è notte, anche sulla nostra patria. Brilla qua e là qualche luce, baracche in mezzo alle radure. Covi di patrioti che si preparano per la missione più grande, per il dovere a cui sono chiamati. Ma ecco che sorge l’aurora, il gallo canta il segnale di rivincita. È nato il sole, il sole è alto! È l’ora: è sempre l’ora. Ora fratelli e sempre!».
«Ora!» gridarono tutti all’unisono, «e sempre!».
Giuseppe sembrava rapito dall’eloquenza di quell’uomo sconosciuto che parlava con così tanto fervore. Le sue parole emanavano una fede cieca e incrollabile in un futuro glorioso ed eroico. Si fece spazio fra due marinai siciliani per seguire in prima fila il sermone e poter guardare finalmente negli occhi quel fervido credente.
«Fratelli, compatrioti. Io vi annuncio che è già sorto l’uomo. Il condottiero che ci guiderà nell’impresa di liberare la nostra bella patria è già qui».
Sussurri concitati corsero tra il gruppo. Una risata nervosa ruppe il silenzio carico d’attesa. Per una frazione di secondo uno sguardo saettò tra Giuseppe e il credente.
«Qui, a Taganrog, in terra straniera, si sta già costruendo l’Italia! Qui, nella lontana Russia, tra le genti del mondo, ognuno di noi è chiamato a indossare i panni dell’eroe, a donare il suo sangue per il sogno dei nostri padri, a porre fine a secoli di soprusi e schiavitù, a offrire la sua spada, il suo sudore e i suoi anni migliori, a morire per la libertà e a combattere per l’Italia, giovane, grande, repubblicana, libera, una!».
Un’ovazione travolgente proruppe dal gruppo di uomini che iniziarono a urlare, abbracciarsi e brindare all’Italia. Tra gli urti dei corpi sudati e ubriachi, Giuseppe si fece strada e come rapito da una febbre allucinante prese per il bavero della giacca l’oratore. «Dimmi chi sei e di chi sono queste parole». Egli lo guardò, con un sorriso compiaciuto:
«Io sono solo un uomo di fede, e queste parole sono dei patrioti della Giovane Italia. Dimmi chi sei tu, invece, e qual è il tuo nome?»
«Io sono solo un marinaio, e il mio nome è Garibaldi».