Lo scorso 12 febbraio, Istat ha pubblicato le consuete statistiche, relative all’indice di produzione industriale. E il 2024 ha confermato una lunga tendenza di flessione. Secondo i dati corretti per gli effetti di calendario, il risultato complessivo ha segnato -3.5% rispetto all’anno precedente. Un esito vistoso. Tanto più che il raffronto negativo con i mesi del 2023 è risultato comune a ogni periodo. In particolare dicembre che ha piegato fino a -7.1%, accentuando i numeri delle classi già sofferenti. Ovvero, confrontando gli indici dell’ultimo mese ed annuali, il settore auto ha segnato -23.6% e -11.3%, il settore dell’abbigliamento -18.3% e -10.5%, il settore della metallurgia -14.6% e -4.6%. A fronte delle tendenze positive registrate esclusivamente dalla fornitura di energia +5% e +1.1%, dall’industria alimentare -0.8% e +1.8% o almeno in chiusura dalle attività estrattive +17.4% e -2.6%.
Quanto alle categorie, i beni strumentali, o macchine utensili, allertano. Dal momento che la produzione di macchine, destinate a fabbricare altri prodotti, certifica l’eccellenza delle economie manifatturiere avanzate. Riflettendo alto livello tecnico, valore aggiunto e competitività sui mercati internazionali. Nonché un settore in cui le aziende italiane mantengono quote importanti a livello globale, dimostrate facoltà di ripresa dopo le crisi, come un passato andamento positivo. Almeno fino all’ultima mensilità e all’ultimo anno, rispettivamente a -10.7% e -4.7%. Elemento esemplare di un punto di vista qualitativo da estendere un po’ a tutto l’indice. Perché l’industria italiana rappresenta un settore d’eccellenza, fondamentale per la prosperità economica nazionale, certificata dal posizionamento nella classifica dei migliori esportatori globali. Senza contare come i momenti di crisi e tensione internazionale abbiano finito per ricordare l’importanza dei beni fisici – dell’hardware – e della possibilità di produrseli o rimanere senza. La percentuale dell’industria sul Pil oscilla attorno al 18%. Un valore da pesare, oltre che da contare.
Comunque, le ragioni contingenti delle difficoltà vanno cercate in un tessuto produttivo indebolito dalle ristrettezze della pandemia di Covid-19. E soprattutto al momento della guerra tra Russia e Ucraina. A seguito della quale, le sanzioni economiche europee hanno frenato gli acquisti di gas russo, sostituito con le costose forniture liquefatte degli Stati Uniti, del Qatar e di altri paesi. Provocando un aumento repentino del costo dell’energia. In questo modo, le bollette hanno cominciato a tormentare i settori che consumano parecchio. A partire dalla metallurgia con i forni da scaldare, dalla meccanica con le macchine industriali, dalle cartiere per le quali il fabbisogno energetico rappresenta l’uscita più importante. Fino a costringere diverse aziende a fermare o rallentare gli impianti e avviare la cassa integrazione, in modo da evitare di produrre in perdita.
Quindi la stessa guerra ha colpito l’Italia in maniera indiretta, favorendo la depressione del socio economico principale. Infatti, la Germania aveva condotto la propria espansione sul flusso delle materie energetiche russe a basso costo, della forte industria nazionale con la sua catena del valore europea e di una forte capacità di esportare, in particolare verso il mercato cinese. Fino a quando, l’appartenenza al campo d’influenza degli Stati Uniti ha cominciato ad affievolire un’espansione tanto disallineata. Tra una tensione internazionale tendente a frenare il commercio con i rivali. Il costo del gas degli “amici”. E le politiche di friendshoring o reshoring che hanno accomunato le amministrazioni di Joe Biden e Donald Trump con i loro dazi e le loro generose sovvenzioni ai produttori americani. In Italia, le conseguenze riguardano intere filiere, legate strette alla produzione di componenti per l’industria tedesca. In quanto, la Germania ha acquistato meno componenti chimici, elettronici, meccanici, siderurgici e tessili dalle aziende italiane. Contribuendo a fare in modo che la categoria dei beni intermedi, i pezzi dei prodotti finiti, ricalcasse l’andamento complessivo a -3.5%. Il settore auto è stato esemplare di questo legame, soffrendo la flessione produttiva di Stellantis e dell’auto tedesca assieme.
Nell’immediato, il presidente di Confindustria Emanuele Orsini è intervenuto sulla questione. L’Italia dovrebbe impegnarsi a livello europeo. Per una rimodulazione dell’Ets (Emissions Trading System), il timido strumento normativo comunitario volto a contrastare il cambiamento climatico, caratterizzato dalla riduzione progressiva delle quote di emissione, assegnate, vendute all’asta e ragione di sanzione in caso di sforamento. Per la revisione del bando ai motori endotermici, fissato al 2035. Per l’azzeramento delle multe che oggi paiono in via di sospensione, ai produttori di auto eccedenti la propria quota di veicoli inquinanti immatricolati. Per il disaccoppiamento del costo dell’energia elettrica da quello del gas. Mentre a livello interno occorrerebbe un ritorno al vecchio (costoso) Piano Nazionale Industria 4.0, che aveva supportato efficacemente progetti di innovazione, digitalizzazione, acquisto di macchinari. Evidentemente, a fronte del nuovo Transizione 5.0, derivato da Pnrr europeo, i cui vincoli complicati rendono difficile ottenere i fondi stanziati.
Con l’ultima dichiarazione a seguito dell’aggiornamento – poco sconvolgente – di gennaio 2025. Una richiesta, in direzione della Bce che dovrebbe tagliare il costo del denaro di almeno lo 0.5%. La conferma, quanto meno, di un flusso comunicativo diretto prevalentemente verso le istituzioni europee. Dove i luoghi della decisione rilevante paiono più Bruxelles e Francoforte che Roma. Del resto, il nuovo Patto di Stabilità comunitario lascia poco spazio alla spesa pubblica e pertanto a scelte politiche italiane.
Così, anche una prospettiva ampia aiuta a leggere l’andamento. L’indice della produzione industriale destagionalizzato permette di osservare in forma grafica e numerica, variazioni nel tempo, cicli di settore e punti di svolta, assumendo un anno di riferimento variabile. Attualmente il riferimento destagionalizzato di valore 100 è attribuito al 2021. Per cui, su tale base, possiamo osservare orientativamente i picchi alti e bassi degli ultimi vent’anni, sebbene l’indice conosca continuamente oscillazioni minori all’interno dei cicli.
La prima onda ha il picco nel dicembre 2000, con 124 punti. Il reflusso fino al febbraio 2005, con 114.8. E la ripresa verso aprile 2008, con 124.5. Cui segue la caduta brusca della grande crisi finanziaria fino ad aprile 2009, con 93.4. Da questo momento in poi, i livelli precedenti non verranno più recuperati. E i bassi vibreranno attorno al medesimo fondo.
In ogni caso la nuova onda positiva ha il picco ad aprile 2011, con 105.8. Il reflusso fino a ottobre 2014, con 92.9. La ripresa verso gennaio 2018, con 103.2. Quando l’indice della produzione industriale ricomincia a scendere molto lentamente, cadendo all’improvviso soltanto con le restrizioni della pandemia fino a maggio 2020, con 68.9 punti. Quindi l’effetto rimbalzo e la successiva crescita culminano esattamente nel maggio del 2021, con 102.1. Principio della discesa verso lo scorso dicembre a 91.6. Un valore paragonabile a quello che seguì la crisi finanziaria del 2008, come alla bassa di ottobre 2014.
Il ritmo sembra ignorare la successione delle maggioranze politiche e dei governi. I caratteri problematici del sistema industriale italiano durano da lungo tempo. Quali la stagnazione della produttività, tipica delle economie mature. La dimensione medio-piccola delle imprese, nel bene e nel male. Il peso della burocrazia. La lentezza della giustizia. Il mercato finanziario avaro di capitali da investire. Assieme alla rilevanza del contesto internazionale, per un paese predisposto alle esportazioni.
Mentre i cambiamenti avvengono soprattutto all’esterno, dove l’Italia può incidere poco. In un futuro-presente segnato dal ritorno dello Stato con il suo protezionismo e la sua ragione nella politica industriale e nei commerci. Dall’emergere di settori decisivi come l’intelligenza artificiale e le tecnologie verdi. Dalla tendenza al riassetto della globalizzazione economica con i suoi flussi commerciali e produttivi, attorno ai poli regionali degli Stati Uniti, della Cina e dell’Europa. Con la locomotiva cinese che tirerà meno, nel tentativo di accrescere il mercato interno e ridurre la dipendenza dal commercio internazionale.
Infine, nonostante la prospettiva ventennale delle precedenti osservazioni poco pertenga alla cronaca. A gennaio 2025, Istat ha pubblicato il primo aggiornamento. L’anno nuovo ha riportato l’indice destagionalizzato a 94.5 e l’indice corretto per gli effetti di calendario a -0.6%. Il secondo dato certifica come il confronto della mensilità presente con quella dell’anno passato, sia negativo da esattamente due anni. La guerra tra Russia e Ucraina, ha soltanto un mese in più.