Nei mesi precedenti alle elezioni statunitensi, dai palchi in giro per l’America su cui Trump teneva i suoi comizi, sono state fatte dichiarazioni di ogni genere, ma quelle che hanno maggiormente interessato i governi oltreoceano – sia Atlantico che Pacifico – riguardano l’economia, ed in particolare, i dazi. Più di qualcuno vede nell’Agenda 47 (il programma politico di Trump per la corsa elettorale del 2024) un ritorno alle vecchie tariffe doganali che, durante la prima presidenza del Tycoon, avevano intaccato i rapporti economici e anche politici con la Cina continentale, gravando in prima battuta per 34 miliardi di dollari sulle loro merci d’esportazione. Questa strategia già ai tempi portò ad una guerra commerciale fatta di botta e risposta, in cui a perdere rischiavano di essere più le imprese americane di quelle cinesi, sia a causa delle contro-sanzioni (imposte su oltre 120 prodotti statunitensi da parte di Pechino), sia per la ricaduta a pioggia di questi costi sulla Global Value Chain.
Inoltre, ieri come oggi c’era la volontà di limitare l’influenza diretta o indiretta dei cinesi (visti, per la prima volta da decenni, come una minaccia delle più importanti per il primato globale di Washington) nell’economia americana, attraverso il reshoring, stimolando quindi il rientro della produzione precedentemente delocalizzata fuori dalla nazione, o quantomeno spingendo le proprie aziende a trasferire le attività commerciali e produttive fuori dal territorio della Repubblica Popolare. Quest’ultima mossa, detta decoupling, mira ad evitare che la longa manus del PCC possa poggiarsi su settori strategici per la sicurezza nazionale USA, come si vide ai tempi dello spostamento della produzione di iPhone in India. E di converso, si è potuto notare come negli stessi States l’amministrazione abbia agito contro presunte interferenze estere su temi di interesse interno, si osservi il caso Huawei.
Ma oltre questo disegno di ampio respiro, proseguito oltretutto durante la presidenza Biden, Donald Trump non si è limitato a dare avvio ad una “nuova guerra fredda strutturale” come si sosteneva già in un articolo dell’ISPI di gennaio 2020, bensì dal 2018 in poi ha cominciato ad imporre dazi su merci come acciaio a alluminio, rispettivamente al 25% ed al 10%, provenienti anche da alleati come UE, Canada e Messico, ponendo un ulteriore freno a quel vecchio progetto del TTIP mai approvato dalle controparti e, con i secondi, al NAFTA. Ad oggi, la paura riguarda proprio le parole dell’ex e futuro Presidente: un’imposizione universale delle «trades tariffs» che potrebbe aggirarsi intorno al 20% secondo Euronews, ma anche del 60% su ogni tipo di prodotto cinese e addirittura del 200% sulle auto prodotte in Messico. Per ora sono solo parole, ma dal 20 gennaio, anche grazie alle due Camere a maggioranza repubblicana e alla progressiva evirazione dal partito dell’ala moderata, questa realtà potrebbe non essere molto distante.
All’origine di queste politiche non c’è solamente il motto Make America Great Again, ma troviamo quel risveglio dell’America profonda di cui in queste settimane si è tornato a parlare: la narrazione trumpiana ha vinto su quella democratica proprio per la centralità dei temi più legati alle fasce medio-basse della popolazione, a cui importa poco se vengono utilizzate fake news, esagerazioni o lanciate proposte al limite del realizzabile. La Harris ci ha provato per tre mesi, Trump si atteggia così da più di otto anni. Quindi torna la centralità sulla nazione e sul Paese reale, portando l’America a chiudersi su sé stessa, portando il governo federale ad agire direttamente sui disagi sociali ed economici, finanziando agevolazioni e tagli fiscali. Ma in un Paese che sfiora i 350 milioni di abitanti, queste manovre richiedono finanziamenti nell’ordine dei trilioni: ed ecco spiegati, insieme alla volontà di rendere indipendenti da antagonisti politico-commerciali le proprie supply chain, i dazi. Ma attenzione, perché come afferma sulla CNN Jake Colvin, presidente del National Foreign Trade Council, “le aziende dovranno decidere se assorbirne i costi (dei dazi, n.d.r.), trasferirli sui consumatori o eliminare la componentistica cinese nei propri prodotti”, con l’obiettivo di orientare la scelta delle compagnie nella terza direzione, ma rischiando anzi di far ricadere il costo di tutte quelle politiche attive per il lavoro, la natalità ed il reshoring (come la proposta ventilata da Trump, di abbassare le aliquote delle imposte sulle società che spostano la produzione nel Paese del 15%) proprio sulle fette di popolazione che dovrebbe agevolare.
Benché la teoria della “trickle-down economy” di favorire indirettamente le fasce indigenti della popolazione sia ormai superata, l’iniziativa economica di Trump è stata un pilastro fondamentale della prima amministrazione e lo sarà ancor di più a questo giro, e per avere successo deve fare affidamento anche su tutti quegli avanzamenti del duo Biden-Harris nel mantenimento della disoccupazione a livelli molto bassi per gran parte del loro mandato. E qui si inserisce un’ulteriore magagna: l’Inflation Reduction Act, ovvero uno dei punti fondamentali di questa amministrazione democratica, che fra i tanti obiettivi puntava a risollevare le sorti del vecchio Midwest, trasformandolo da decaduto centro dell’automotive statunitense (se non mondiale) a nuovo polo industriale per la produzione di energia green, puntando su una manodopera specializzata ad alto valore aggiunto grazie ad investimenti, negli ultimi tre anni, che hanno rasentato il trilione di dollari. Ecco, davanti a ciò, Trump cosa sceglierà di fare? Investire su trivellazioni e fossile o seguire il trend di rilancio della zona più economicamente depressa del Paese? Le parole in campagna elettorale e le nomine di personaggi come Lee Zeldin all’Agenzia per la Protezione Ambientale (negazionista del cambiamento climatico), Marco Rubio come Segretario di Stato (pesantemente anticinese ed anti-iraniano) e Musk come plenipotenziario per una maxi spending-review di 2.000 miliardi l’anno sul budget federale, orientano sulla prima di queste ipotesi. E con il debito pubblico che sfonda record e tetti legislativi, attestandosi al 129% in rapporto al PIL già lo scorso anno, mantenere tutte le promesse fatte (su ogni fronte) in campagna elettorale sarà molto complicato, anche nel caso in cui si vogliano portare avanti queste iniziative con ingenti disavanzi di bilancio.
Ma questo modus operandi trumpiano rischia di mettere in crisi anche la stessa UE, in lotta per la non-recessione da ormai tre anni e contro la stagnazione da oltre venti, che vede un interscambio di beni fra le due sponde dell’Atlantico raggiungere record di oltre 870 miliardi nel 2022 secondo i dati della Commissione Europea. C’è una concreta possibilità che, con le tariffe promesse da Trump, il PIL dei 27 possa subire una contrazione fino all’ 1%, con la conseguenza d’impattare per centinaia di milioni di dollari sul settore farmaceutico, dei macchinari industriali, del chimico e dell’auto (anche perché la bilancia commerciale pende a favore della “East Coast” per più di 150 miliardi di dollari) proprio nel momento in cui il continente è più fragile, sia economicamente che politicamente, che socialmente.
Insomma, i prossimi padroni della prima potenza mondiale daranno probabilmente una bella botta, o anche solo una spinta, su tutti i livelli e a tutti quanti. Il futuro non è prevedibile, le promesse son poi solo parole e negli ultimi quattro anni lo scenario globale ha avuto un grosso stravolgimento, quindi nulla è ancora certo e la garanzia che la seconda presidenza del Tycoon sarà la copia carbone della prima non la si ha in alcun modo.