Nell’autunno del 2018 Pierre Moscovici, Commissario europeo agli Affari economici, tuonava contro l’Italia. Erano i giorni del documento programmatico di bilancio, la brutta copia della legge di bilancio da approvare entro fine anno. Facciamo luce. Dopo il ciclo di riforme indotte dall’Unione Europea e con la trasformazione radicale della legge 196 del 2009, la contabilità nazionale ha trovato sintesi in un solo documento, la legge di bilancio appunto, divenuta non solo carta formale ma, a partire dal 2016, anche sostanziale. In altri termini, se prima avevamo bisogno della legge finanziaria, poi diventata legge di stabilità, per decidere dove prendere denari, oggi con le due sezioni della legge di bilancio si fa un po’ tutto: si distribuiscono le risorse e soprattutto si cambiano le norme vigenti affinché possano essere racimolate. Unico vero vincolo è il rispetto dei contenuti del DEF, vigilato strettamente dall’Unione a partire già dall’aprile di ogni anno. Fatto decisamente più politico che economico, ovviamente. Ça va sans dire.
Il DPB dunque, pur non essendo tra i documenti contabili previsti dal ciclo di bilancio vero e proprio dello Stato (art. 7 della 196), anticipa entro il 15 ottobre di ogni anno le previsioni del Governo nazionale per l’immediato futuro secondo i ritmi e i crismi del famigerato semestre europeo. Una sorta di cahier di buone e dettagliatissime intenzioni, sottoposte alla longa bacchetta di Bruxelles, vera e unica artefice delle politiche monetarie e di bilancio di ciascuno Stato membro. E proprio la longa bacchetta colpiva l’Italia ingenua del pre Covid, discutendo se l’indebitamento del 2,4 poteva essere ridotto al 2,04 per l’anno seguente. A leggerli oggi certi numeri, c’è da commuoversi.
Formalmente erano le scarse garanzie di rientro del debito per il 2019 e 2020 ad alzare il pelo di Moscovici, preoccupato per il bene comune a causa della scarsa disciplina contabile di Roma. Come se il debito pubblico dell’Italia arrivasse dal nulla. Vantavamo un debito pubblico pari al 131% del PIL. Leggendo oltre gli strali, era come lamentarsi per non riuscire a svuotare il Mediterraneo con un mestolo: parlare di rientro dai pubblici buffi, possiamo dirlo, potevamo considerarlo già da tempo un accanimento terapeutico. La realtà formale però era quella e ad essa bisognava attenersi: controllare i numeri e rigare dritti; poco da aggiungere.
Eh già, perché il problema era a monte. Le procedure di rientro e armonizzazione previste con i patti di stabilità nel nuovo secolo prevedevano impegni nel medio termine ben chiari e precisi per gli Stati membri. Una diminuzione dell’eccedenza di debito al ritmo di un 5% annuo, con la pena per i trasgressori in caso di procedura di un’ammenda pari allo 0,2% del PIL, deliberata dal Consiglio su proposta della sempre generosa Commissione. I pochi che in Italia conoscevano i dettagli di questo nodo hanno agito come se non lo sapessero; ci può stare, anche perché la pubblica contabilità è per antonomasia materia noiosa. Il restante 99,9% della popolazione, che nulla intende al riguardo, può essere viceversa direttamente perdonata. La possibilità di uno sforamento, di cui si è parlato per più di un lustro fra un qualunquismo e l’altro, nei fatti non è mai stato un luogo comune. Semmai qualcosa di incompatibile con i parametri di Maastricht del 1992, ristabiliti con i Patti di stabilità e incensati per volontà della fu-Merkel nel 2012 con le regole d’oro del fiscal compact. .
Mentre Fiorello ironizzava su Monti, Monti faceva sul serio e il nodo della spesa pubblica italiana si stringeva progressivamente. I tre punti cardini di Maastricht e cioè debito pubblico sotto il 60% del PIL, deficit sotto il 3% e inflazione legata ai Paesi più virtuosi, venivano esasperati dalla necessità di costituzionalizzare la parità di bilancio (avvenuta nel 2012 con la legge 243 di applicazione della Legge costituzionale n.1) e dall’ulteriore stretta sull’indebitamento: per gli Stati con debito pubblico oltre il 60% il deficit strutturale non poteva essere maggiore dello 0,5%. Nemmeno un maxi condono, arte in cui siamo maestri, avrebbe potuto salvarci. I soldi-fuffa non avrebbero pesato e i conti una volta tanto avremmo dovuto farli sul serio.
Per dirla in prosa, la morte presunta della Spesa pubblica dichiarata nel 1992, dopo circa vent’anni veniva considerata ormai cosa fatta. Non a caso l’espressione “manovra espansiva” usciva sommessamente dai libri di bordo della contabilità nostrana e fra un taglio e un passo indietro dello Stato siamo andati avanti così, facendo quadrare i prospetti e sperando nella buona stella. In sostanza, per i Paesi con la cravatta al collo la parola “spesa” veniva bandita nei secoli dei secoli, pena ritorsioni da parte Bruxelles. La bacchettata di Moscovici era ben indirizzata, dunque. Se da esponente del governo francese si lamentava a suo tempo della rigidità dell’Unione, da commissario agli Affari economici della Commissione Juncker la nota disciplinare contro Roma sembrava essergli congeniale. Non sia mai che si sfori un parametro. Le regole valgono per tutti e chi le sottoscrive deve giustamente applicarle. Chi s’impicca con le proprie mani non se la prenda con il boia; a pensarci bene, non fa una grinza.
Tutto è rientrato con l’arrivo dell’estate. Nella contingenza del luglio 2019, che il ritiro della minaccia di procedure d’infrazione potesse legarsi all’accordo sulle nomine alle cariche istituzionali in scadenza lascia il tempo che trova. Giammai pensar male. Raggiunto il punto d’unione su frau Von der Leyen e neutralizzato il montante pericolo sovranista, l’Italia però non sarebbe stata più tale. Bagatelle che con ogni certezza finiscono nel dimenticatoio. Cosa saranno mai cinque anni di mandato per i membri della Commissione europea, unico organo esecutivo dell’Unione con l’esclusiva dell’iniziativa legislativa… Cosa saranno mai? giusto il tempo di smaltire tossine ed eventuali pandemie.
Nel frattempo però qualcosa è cambiato.
Nei frasari comunitari la parola “debito” torna per magia a fare capolino. Si ricomincia a parlare di eccessi, di sforamenti, incredibilmente anche di fantasmagoriche inflazioni. Parole impolverate e raccontate ai bimbi nelle storie horror di finanza pubblica. I parametri di Maastricht e le regole d’oro del fiscal compact si svuotano via via della sacralità di cui hanno goduto per anni; la loro applicazione pedissequa non è più automatico sintomo di virtù, anzi.
Il pareggio di bilancio per cui solo dieci anni fa abbiamo modificato alcune colonne della nostra Costituzione (gli articoli 81, 97 e 119 su tutti) torna ad essere un valore umano e quindi vulnerabile. Il loro superamento diventa anzi il suggello di un comune sentire, ma di cui nessuno ancora si assume la totale responsabilità politica. L’elenco delle dichiarazioni istituzionali, accademiche o politiche che invitano a rivedere i parametri di Maastricht si allunga senza sosta e diventa trasversale. Criticare i parametri diventa cool. Ogni rassegna stampa al proposito sarebbe parziale. Per farla breve, la sospensione dei patti di stabilità valida in teoria solo fino al 31 dicembre 2022, spinge a passi concreti e definitivi. Si aspetta solo la loro concretizzazione.
Da secoli cerchiamo di capire se sia nato prima l’uovo o lagallina senza venirne a capo. Non saremo certo noi quindi a stabilire se sia nato prima il Covid o la necessità di sforare i bilanci, fatto è che lo spauracchio della spesa pubblica non è più tanto spauracchio. Il riferimento ovviamente è a noi italiani, che con la spesa pubblica ci siamo uniti, ci siamo cresciuti e cisiamo ingrassati, in alterne vicende, lungo un crinale durato 130 anni. Ma le occasioni prima o poi arrivano. Se non arrivano, in qualche modo vediamo di farle arrivare. Ecco così che il Covid permette di prendere due piccioni con una fava: se per la pletora è una Grande Pandemia, per i più furbi è anche una Grande Occasione buona a rivisitare capestri economici e finanziari senza che alcuno se ne prenda il demerito o la responsabilità. Una ghiottissima opportunità che permette di centrare due grossi risultati: uno economico, l’altro ideologico.
Dal punto di vista economico la pandemia consente di rivalutare la spesa pubblica come componente della domanda aggregata dopo decenni di castigo. Diventa anzi un vero e proprio booster congiunturale (sì booster, lo abbiamo detto…) accettato dalla quasi universalità degli economisti. La famosa G come parte della ricchezza nazionale prodotta è una variabile tipica dei periodi di risveglio post trauma, non c’è vergogna a dirlo se non per i neoliberisti più incalliti. Lo è stato per il New Deal roosveltiano dopo il crollo del ’29, lo è stato per tutti i golden years del secondo dopoguerra. In fondo, cosa meglio di una emergenza globale, per giustificare la fine di un ventennio di fame, dolori e lamenti?
Le emergenze servono più di quanto non si creda e i numeri parlano chiaro del resto. I trend dell’economia Ue a partire dal 2008 (dati Eurostat) sono emblematici. Tra il 2008 e il 2009 il reddito pro capite cala del 4,9%. Tra il 2008 e il 2012 il numero di persone a rischio povertà passa da 115 a 124 milioni, un quarto della popolazione complessiva. Quelle che si trovano in stato di grave deprivazione materiale (povertà assoluta) passano da 41 a 51 milioni nello stesso periodo. L’inizio delle ulteriori restrizioni di bilancio, soprattutto nelle aree più abituate ad interventi pubblici, alimentano la tendenza generale al ristagno. Parlare di crisi è riduttivo. Si va ben oltre la congiuntura ciclica sinusoidale di ogni sistema economico. I problemi sembrano, anzi sono strutturali.
A essere maliziosi si fa peccato, ma spesso ci si piglia.
Dal punto di vista ideale il risultato è più sottile. Il ritorno dello Stato nell’economia e l’indiscutibile rivincita della visione keynesiana assume un tono meramente emergenziale, senza che le scuole neoliberiste più radicali ne risultino sminuite. Si va oltre il dibattito accademico. Il confronto sulla Public Economy diventa meno rilavante. L’ubi maior dello stato di emergenza scavalca ogni scuola economica. Se le colpe politico-economiche vengono circoscritte a rigidità contabili, tanto meglio. Il problema non è dottrinale, ma contingente. Alla fine non è Keynes a vincere su Milton Friedman, né lo Stato a vincere sul mercato. È così perché diversamente da così non potrebbe essere.
Brexit a questo proposito è una benedizione per gli inglesi che nel loro splendido isolamento si chiamano fuori dal ritorno del pubblico, salvaguardando almeno sul piano ideologico la loro visione filosofica ancorché economica dell’esistenza umana. Si va oltre l’economia, si entra nella cultura. Oltre Manica e oltreoceano (conservatori e monetaristi di Chicago in testa) ci si consola con la percezione che qualcosa di più grande è andato storto e che presto o tardi la mano invisibile di Adam Smith tornerà a sistemare le cose. Nell’attesa, le tre grandi economie del continente (Germania, Francia e Italia) si cureranno con l’ossigeno di Stato come storia e tradizione economica consigliano. La scusa dell’emergenza c’è, perché non approfittarne soprattutto ora che a rallentare non è l’Italia ma chi del suo rallentamento faceva tesoro? Che si fermi un vagone poteva andar bene; che si fermi la locomotiva proprio no. Torna lo Stato senza chinare la testa ed ammettere che lo Stato è bello. Meglio di così non si può. Poi dici le pandemie…
Non è chiaro se la città di Maastricht sarà coventrizzata, ma per certo per un po’ il suo nome non rappresenterà più il bengodi della virtù eco-finanziaria europea. I parametri sono numeri scritti a matita, in fondo. Bisognava trovare il modo di riparare ad errori senza ammettere di averli commessi; è un concetto molto creativo e molto italiano ma probabilmente ideale per Bruxelles come unico strumento possibile per uscire dal guado. Lo Stato ritorna: il merito o la colpa è del Covid che alla fine serve a tutti. Il conto così anche stavolta non lo pagherà nessuno. O quasi…