Quella degli Stati Uniti è una storia senza eguali nel mondo: è la storia di Tredici colonie che si ribellano alla metropoli per fondare una società indipendente, libera e giusta, ufficialmente laica ed egualitaria ma praticamente plasmata dai valori del puritanesimo protestante e rigidamente divisa secondo criteri razziali e religiosi. Queste contraddizioni hanno funto da base per la guerra civile, la segregazione degli afroamericani, e il perpetuamento della supremazia wasp nella società, e continuano ad incendiare l’opinione pubblica, come palesato dalla riscrittura iconoclasta dell’identità americana e dall’emergere del nazionalismo bianco.
Nelle intenzioni dei Padri pellegrini, gli insediamenti stabiliti nel Nuovo mondo avrebbero posto le basi per la costruzione della Nuova Gerusalemme, garantendo pace e prosperità a chiunque, al di là delle convinzioni religiose. Il loro pensiero continua a permeare l’ambiente politico-ideologico statunitense, che poi si è arricchito del contributo – ancora più importante – dei Padri fondatori, uomini legati al razionalismo illuminista velatamente anticristiano, ma al tempo stesso devoti verso l’arcano e credenti nell’esistenza del Divino.
Pur attraversando un processo di secolarizzazione, come il resto dell’Occidente, l’America continua ad essere un paese in cui il cristianesimo plasma ogni sfera della società, della cultura e della politica. Non a caso, gli Stati Uniti sono anche noti come “Jesusland”. I presidenti, che abbiano fede o meno, giurano fedeltà alla nazione davanti alla Bibbia e sono circondati da predicatori e consiglieri religiosi, le stesse guerre all’estero sono spesso giustificate con leitmotiv religiosi (come la guerra al terrore di Bush Jr da egli ritenuta “santa”) e anche i politici più eterodossi sono costretti a strizzare l’occhio all’elettorato evangelico. È soltanto unendo ognuno di questi punti, dalla fondazione dei Padri Pellegrini alla nascita del neoconservatorismo, che è possibile capire le ragioni dell’incredibile astro esercitato sulla politica dalla destra religiosa e la presa del sionismo cristiano in un paese che, anno dopo anno, è sempre più secolarizzato.
Lo storico Russell Mead ha ripercorso le tappe evolutive del pensiero geopolitico e politico degli Stati Uniti nel celebre libro “Il serpente e la colomba”, il cui titolo è un diretto riferimento ad uno dei più significativi discorsi di Gesù – per sottolineare, nuovamente, il ruolo giocato dal cristianesimo nel paese. Brevemente, Mead sostiene che la politica estera di ogni amministrazione statunitense sia sostanzialmente il frutto della combinazione di posizioni jacksoniane (da Andrew Jackson), jeffersoniane (da Thomas Jefferson), hamiltoniane (da Alexander Halmilton) e wilsoniane (da Woodrow Wilson). Gli hamiltoniani sono interessati alla promozione degli interessi economici del paese nel mondo, i jeffersoniani sono diffidenti verso la presa di impegni all’estero di durata medio-lunga o indefinita, i jacksoniani credono che la sicurezza nazionale sia inestricabilmente legata ad un apparato militare forte e che valga il rischio di attuare “operazioni preventive”, mentre i wilsoniani credono nella superiorità dei valori americani e nel dovere di esportarli in tutto il mondo.
Ciascuna presidenza è il frutto dell’incontro-scontro fra queste scuole di pensiero, inclusa quella Trump – seppure sia stata magistralmente fatta passare dalla macchina propagandistica dell’internazionale populista come rivoluzionaria, perché impegnata in un’inesistente lotta contro lo stato profondo. In realtà, un semplice resoconto di questi tre anni dipinge un quadro tutt’altro che pacifista: riesumazione della dottrina Monroe in America Latina, continuazione della guerra fredda contro la Russia lanciata da Barack Obama, inizio della battaglia egemonica contro la Cina, Medio oriente in fiamme.
Nelle azioni di Trump si intravedono i riflessi di ogni scuola descritta da Mead: il jeffersoniano timore delle guerre infinite, che però non conduce alla loro conclusione, l’oliatura jacksoniana del complesso militare-industriale con miliardi di dollari, la difesa hamiltoniana degli interessi delle multinazionali statunitensi nel mondo e, infine, la spavalderia wilsoniana con cui viene imposta agli altri paesi la volontà di Washington.
“Una ragione per ogni regione”, con questa frase potrebbe essere racchiusa la visione che gli Stati Uniti hanno del pianeta – dove per ragione si intende motivo di intervento. Ad esempio, la dottrina Monroe del 1823 è la ragione per l’America latina, il manifesto destino del 1845 è la ragione dell’universalismo liberale e del bellicismo neoconservatore, mentre il contenimento del 1947 è la ragione di una russofobia che non avrà mai fine. È importante capire anche un’altra cosa: dottrine elaborate in determinati periodi per rispondere ad esigenze specifiche possono essere facilmente adattate ad altri contesti operativi al mutare delle relazioni internazionali – è il caso, ad esempio, delle teorie sul cortile di casa e sul contenimento.
Il primo concetto è stato applicato prima all’America Latina e poi all’Europa che, dal post-1945, è de facto un protettorato che è stato sottomesso a Washington attraverso mezzi economico-finanziari (stretta integrazione dei mercati), culturali (americanizzazione di valori e costumi), e militari (Alleanza atlantica).
Il secondo concetto è oggi applicato alla Cina e all’Iran, dopo esser stato tradizionalmente associato alla Russia. Mentre la guerra a distanza con Teheran procede ininterrottamente dal 1979, l’anno della rivoluzione khomeinista e dell’emancipazione dal colonialismo angloamericano, quella con Pechino è stata iniziata dall’amministrazione Trump e sarà probabilmente lo scontro egemonico più rilevante di questa prima parte del nuovo secolo.
La geopolitica degli Stati Uniti non è ricerca di spazio vitale, quanto di omologazione del mondo ad un preciso disegno – ed è proprio ciò che la rende unica nel suo genere. Bellicismo economico e muscolarismo militare a parte, Washington ha costruito un impero le cui fondamenta sono basate su un’egemonia di tipo culturale, che spazia dalla diffusione del wilsoniano senso di superiorità del liberalismo alla lobotomizzazione indotta dalla gigantesca industria dello spettacolo del paese. Proprio quest’ultimo aspetto sarà l’oggetto di approfondimento della prossima puntata di Confini.