OGGETTO: La grande confusione dell'ordine globale
DATA: 04 Marzo 2022
SEZIONE: Società
FORMATO: Analisi
AREA: Europa
2008, Covid e Ucraina: tre crisi che svelano le debolezze di un mondo sempre più paradossale.
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Sembra proprio che la competenza non basti a governare il mondo. Nonostante le loro conoscenze, gli esperti si sono dimostrati impreparati a prevedere e, in buona parte, ad affrontare le più gravi crisi contemporanee.

Ci sono decenni in cui niente sembra accadere. Poi, all’improvviso, i lampi. 2008, 2020, 2022: crisi economica, pandemia, Ucraina. «Grande è la confusione sotto il cielo – diceva il leader comunista cinese Mao Zedong – quindi la situazione è eccellente». Ma la situazione, oggi, è tutt’altro che eccellente. Non ci sono solo le crisi che hanno ri-descritto la contemporaneità, generando danni sociali, perdite umane ed economiche. Dietro tutto ciò si nascondono paradossi e debolezze di un mondo “sviluppato, globalizzato e interconnesso”, che si sta rivelando incapace di visione e dialogo. Insomma, crisi all’interno delle crisi. Di cosa si tratta?

In primis, c’è la crisi degli esperti. L’economia e la medicina, adesso la geopolitica. I tecnici che forniscono consulenze sono ovunque: dalle istituzioni ai giornali alle aziende. Eppure, non sono stati in grado di prevedere nulla di ciò che è accaduto. Si potrebbe obiettare che questa capacità raramente è esistita nella storia. Ed è vero. Tuttavia, se si pensa agli strumenti di cui disponiamo e ai progressi fatti fino ad oggi, la situazione pare ancor più grave. A cosa servono organizzazioni internazionali, tecnologie, strumenti di analisi economica, se non riusciamo a prevedere crisi così profonde?

Avveniva nel 2007 quando, negli Stati Uniti, il valore dei beni immobiliari cresceva ogni anno di qualche punto percentuale e il mercato del credito era in espansione. Dopo il crollo dei mutui subprime a luglio, la Federal Reserve Bank e altri analisti finanziari avevano persino previsto una (seppur lieve) crescita economica per il 2008. Tutti sappiamo com’è andata a finire.

Poi, fino ai primissimi giorni di marzo 2020, in Italia non sapevamo ancora se chiudere il Paese e cosa fare delle mascherine. Il piano pandemico era aggiornato al 2006. Le terapie intensive erano inizialmente poche (5.000 unità) per un Paese così anziano (primo al mondo insieme a Germania e Giappone; nel 2021 l’età media in Italia era di 46 anni).

Infine, la guerra. La tensione nel Donbass va avanti dal 2014, ha coinvolto attori internazionali (il secondo protocollo di Minsk è stato firmato anche da Francia e Germania) e costretto moltissimi ucraini a fuggire dal Sud del Paese. Un articolo di Foreign Affairs ricorda che, a gennaio 2022, il Partito Comunista della Federazione Russa aveva chiesto ufficialmente di riconoscere l’indipendenza del Donbass. Possibile che esperti di geopolitica (termine troppe volte abusato) e istituzioni non avessero previsto tutto ciò?

Sembra proprio che la competenza non basti a governare il mondo. Nonostante le loro conoscenze, gli esperti si sono dimostrati impreparati a prevedere e, in buona parte, ad affrontare le più gravi crisi contemporanee. Colpa solamente dei tecnici? No, certamente. Nessuno ne mette in dubbio la professionalità. Tutto ciò, però, non è niente senza la capacità di saper decidere dove e come collocare queste conoscenze. Qui entra in gioco un’altra domanda: ma la competenza veramente necessaria è quella degli esperti, o quella dei politici? Non devono essere i politici i primi ad essere competenti affinché il lavoro dei tecnici sia messo a frutto? La competenza della politica non potrebbe, e dovrebbe, trovare il comune denominatore delle specifiche competenze nell’interesse generale? Governare tecnica e interesse generale, facendoli coincidere e rendendoli chiari, concreti. Non è questa la vera competenza di cui abbiamo bisogno?

Questa considerazione apre le porte alla crisi identitaria delle istituzioni democratiche. Traendo spunto dall’Ucraina, abbiamo capito di conoscere pochissimo la Russia. È vero, il leader del Cremlino è imprevedibile perché compie azioni folli. Ma c’è di più: quanto noi europei conosciamo la cultura russa, il territorio, il loro pensiero? In teoria, moltissimo. Karl Haushofer, pilastro del pensiero geopolitico contemporaneo, aveva introdotto il concetto di Eurasia per descrivere un continente unico, che dalla Spagna arrivava fino a Cina e Russia. Si pensi anche alla cultura. Le opere di Dostoevskij (e i viaggi in Europa), Bulgakov (e le critiche sottili all’Unione Sovietica), Tolstoj (e le ipocrisie della borghesia). Ma anche musica e teatro: Prokof’ev (“Quadri di un’esposizione”), Čajkovskij (“Lo schiaccianoci”), Čechov (“Il canto del cigno”).

Eppure, nella pratica avviene tutt’altro. Negli ultimi giorni c’è addirittura chi, in Italia, ha ridicolamente pensato di cancellare un corso universitario su Dostoevskij. Si parla poi solo di reciproca dipendenza economica: noi siamo clienti, loro fornitori. L’Europa importa quasi il 40% della propria energia dalla Russia (Eurostat). Mosca è il terzo produttore di petrolio al mondo e il principale esportatore di grano. Per il resto l’incomprensione regna sovrana. I due lati del mondo sembrano distanti sotto tutti i punti di vista. Cosa si vuole dire con questo?

Primo: la Russia, per noi europei, è dietro l’angolo. Poi, conoscere la Russia non significherebbe giustificare le scelte di Putin. Piuttosto, ci permetterebbe di interpretare, anticipare e affrontare le mosse di Mosca. E, chissà, magari di favorire il dialogo quando ci sarà un nuovo leader, razionale e pacifico. La distanza tra noi e la Russia è un po’ come quella fra Putin e Macron quando erano seduti al lunghissimo tavolo di legno. Distanti sì, ma anche nella stessa stanza. Respiravano la stessa aria. Ecco, la diplomazia. Questa mancata conoscenza della Russia ha ripercussioni anche istituzionali. Tra gennaio e febbraio sono avvenute telefonate e incontri tra capi di Stato europei e il Cremlino. Non ne è venuto fuori niente. La diplomazia sembra aver fallito. Lo ha notato l’ambasciatore Vattani, due volte segretario generale della Farnesina, intervistato per Agi da Mario Sechi:

«Occorre abbandonare la formula dei vertici bilaterali, dove nessuno vuole cedere per non perdere la faccia. Chi esce con un risultato positivo mette tutti in ombra, nessuno ammette questo genere di perdite di prestigio. La vecchia diplomazia capiva che era meglio vedersi intorno a un tavolo perché è la conferenza che ha deciso».

Anche a causa di questi vulnus, il cittadino mediamente informato è stato colto alla sprovvista dall’escalation in Ucraina. Si è ritrovato da un giorno all’altro una guerra davanti agli occhi. Non era preparato, pensava che bastasse una pandemia, a stento conosceva la situazione nel Donbass e aveva poco intuito il peso delle conseguenze economiche.

Noi, da qui, non riusciamo ad orientarci bene. Foto, video, testimonianze: il materiale è moltissimo, grazie allo straordinario lavoro dei giornalisti che, per dirla con le parole di Papa Francesco, «consumano la suola delle scarpe». Tuttavia, non siamo in grado di comprendere e distinguere l’attendibilità delle fonti. Capita anche agli addetti ai lavori. Cosa ha più validità? Un video sui social che racconta in diretta gli avvenimenti o un telegiornale? Agenzie di stampa? Articoli di opinione? Non c’è un’alfabetizzazione dell’informazione. Se manca la capacità di gestire una tale mole di notizie, la ricchezza rischia di trasformarsi in carenza.

«Ma non basta tutto quello che sta succedendo? Dobbiamo andarci a cercare altre crisi?» potrebbe essere un commento più che giustificato. Eppure, si potrebbe ribattere, dalle difficoltà si può imparare molto. Certo, non è facile. Bisogna abbandonare le certezze del passato, mettersi in gioco, ascoltare. Per questo la proposta che ci si sente di fare oggi è una: acquisire consapevolezza. Verranno tempi migliori per riflettere, proporre e cambiare. Perché se è vero che non bisogna mai dimenticare l’importanza dell’oggi, è altrettanto vero che dopo il presente viene sempre il futuro

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