OGGETTO: Il mito del debito
DATA: 08 Novembre 2022
SEZIONE: Economia
Il capitalismo finanziario cattivo non ha ucciso il capitalismo industriale buono ma ha salvato il capitalismo (per qualche tempo).
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Anche la Modernità vive nel mito. Valori, credenze, identità, contesto culturale guidano ogni scelta, azione o percezione. In maniera irrazionale, molto spesso inconsapevole, a livello individuale e collettivo. Per queste ragioni, l’analisi storico-economica di Graeme Maxton e Jorgen Randers (Reinventare la prosperità, Edizioni Ambiente, 2020) chiarisce dinamiche complesse, considerando le strutture di scenario e immaginario assieme. Con particolare attenzione all’economia guida degli Stati Uniti.

Il nostro immaginario economico emerse con Adam Smith, in una fabbrica di spilli: dieci lavoratori, mille spilli al giorno. Se la produttività fosse aumentata, specializzando ogni artigiano in una singola operazione, gli stessi operai avrebbero prodotto diecimila spilli, nel medesimo tempo. Allora, lo spillo sarebbe costato meno e i clienti sarebbero aumentati, verso un futuro di benessere e crescita economica. La prima Rivoluzione Industriale sperimentò la teoria. Così, William Blake dovette cantare la fabbrica di spilli quale oscuro mulino satanico. Gli aumenti di produttività imposero una vita orribile, nessuna igiene, orari interminabili, baraccopoli di violenza e malattie infettive. In Gran Bretagna, una persona su quattro preferì emigrare. I guadagni crebbero ma i padroni del vapore li tennero per sé.

Reinventare la prosperità (Edizioni Ambiente) di Graeme Maxton e Jorgen Randers

La tendenza mutò verso la fine del XIX secolo. I salari migliorarono. Gli orari furono ridotti. Le fabbriche divennero più sicure. Ciò dipese dalla forza del movimento operaio e dalla scarsità di mano d’opera, rispetto alla richiesta. L’aumento salariale sostenne la domanda e quindi la crescita economica. Nel Novecento, arrivarono fogne, acquedotti, case salubri, trasporti, comunicazioni veloci. La mortalità infantile fu abbattuta. Allora, anche una demografia poté sostenere l’economia. Altro che spilli. Nel 1930, John Maynard Keynes fece una grande promessa alla generazione dei nipoti: quindici ore di lavoro settimanali, poi fuori a divertirsi. Proiezione plausibile, tanto la produzione aumentava.

Pochi anni più tardi, negli Stati Uniti di Franklin Roosvelt, l’economista Simon Kuznets elaborò il moderno sistema per calcolare il Pil (prodotto interno lordo). Occorreva valutare la possibilità di produrre – al contempo – materiale bellico e beni di consumo. Kuznets avrebbe negato esplicitamente la possibilità di misurare il benessere con il Pil. Ciò nonostante, i decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale risemantizzarono il parametro.

Difficilmente avrebbe potuto essere altrimenti. Nel corso dei miracoli economici occidentali, la crescita del Pil equivalse a maggiori entrate fiscali, migliori servizi pubblici, salari più alti, orari lavorativi più brevi, ferie, elettrodomestici, emancipazione femminile. Negli Stati Uniti del 1905, il 5% della popolazione riscuoteva il 33% del reddito. Nel 1953, tale quota era già scesa al 20%. E la stessa riduzione delle diseguaglianze avvenne in Europa occidentale, con decisione ancora maggiore. Mentre la crescita economica abbatteva perfino la disoccupazione. Poiché il Pil crebbe più velocemente della produttività media. Così i lavoratori già occupati non bastarono a sostenere l’espansione e occorse assumerne di nuovi. Le classi medie si allargarono e prosperarono.

L’epoca straordinaria dei miracoli economici ha plasmato l’immaginario economico dominante. Crediamo che la crescita del Pil combatta i mali sociali e agiamo di conseguenza. Ora come allora. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, la realtà sfida l’immaginario. Tra il 1980 e il 2010, l’economia americana è cresciuta del 2.9% ogni anno. Tra il 1979 e il 2011, il valore prodotto dai lavoratori americani è passato in media, da 25.000 a 40.000 dollari. Risultati ottimi per un’economia matura ma dagli esiti paradossali. Tra il 1979 e il 2014, il salario reale della maggior parte dei lavoratori è diminuito. Le aziende hanno smesso di offrire contributi pensionistici e assicurazioni sanitarie. L’orario è aumentato. Peggio ancora, dopo trent’anni di crescita economica, cinquanta milioni di americani (un minore su quattro) navigano tra povertà e povertà profonda, corrispondenti a 23.000 e 11.500 dollari, per una famiglia di quattro persone. I detenuti sono triplicati. Contemporaneamente, la fascia sociale più ricca (20% della popolazione) ha raddoppiato i guadagni. Addirittura, tra il 1961 e il 2005, la tassazione federale dei ricchissimi è passato da uno scandinavo 71% a meno della metà, mentre quella sui redditi bassi aumentava. In sintesi, Keynes elaborò correttamente la stima di crescita ma deluse i nipoti. Le imprese hanno delocalizzato, tagliato i salari, allungato gli orari, alzato i profitti, sotto l’influenza determinante del settore finanziario, alla ricerca di rendimenti trimestrali crescenti.

Tutto ciò è accaduto di nascosto. Grazie alla diminuzione del costo di beni come vestiti, automobili e generi alimentari. Grazie all’entusiasmo per l’elettronica di consumo. E perché l’indebitamento proteggeva la crescita, dalle tendenze avverse di salari e disoccupazione.

Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’americano medio era indebitato per tre mesi di stipendio. Nel 1980, i mesi divennero otto. Nel 2008, il deficit ha superato l’anno. Per decenni, mentre accrescevano la propria fetta, i ricchi hanno prestato il surplus ai poveri: guadagnando sugli interessi, alimentando assieme crescita e diseguaglianze. Soltanto la crisi finanziaria del 2008 ha scosso l’immaginario dominante che impediva di vedere declino della classe media e crescita del Pil, svilupparsi assieme. Una visione fugace, presto dimenticata.

In ogni caso, la bolla ormai è scoppiata. Il debito al consumo produce poca crescita. I governi hanno protetto il sistema finanziario dai prestiti che non sarebbero stati ripagati e contrastato la deflazione, stampando denaro, da immettere nell’economia tramite bassi tassi d’interesse e Qe (Quantitative Easing). Le banche centrali di Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Unione Europea hanno creato tanto denaro da “aggiungere un’intera Cina” all’economia mondiale, senza alcun valore reale sottostante. Ciò ha favorito i soggetti in grado di contrarre prestiti o vendere obbligazioni presso le banche centrali. Evidentemente non i lavoratori e l’economia reale, ove l’effetto rimbalzo è stato limitato. Quando la domanda è depressa, l’ex obbligazionista investe in oro, azioni, immobili. Corre l’inflazione dei valori patrimoniali. La realtà nega gli immaginari economici d’Occidente:

«Stampare denaro e darlo ai ricchi non funziona […] La convinzione che la crescita economica sia sempre buona non è più vera… La crescita economica nel mondo più ricco non ha migliorato gli standard di vita per la maggioranza delle persone. Non ha creato occupazione o almeno non ne ha creata abbastanza, e non ha ridotto le disuguaglianze. La stampa di denaro e i tassi di interesse ultrabassi non hanno generato un rimbalzo economico».

Graeme Maxton, Jorgen Randers, Reinventare la prosperità, Edizioni Ambiente, 2020

Nei prossimi anni, accelererà un altro processo, contrastante l’immaginario. I robot, l’intelligenza artificiale, i big data faranno crescere Pil e disoccupazione insieme. Le aziende aumenteranno i profitti, automatizzando i processi. Nei primi dieci anni del nuovo millennio statunitense, produttività e impiego disponibile hanno conosciuto tendenze opposte: più 2.5% la prima, meno 1% il secondo. Oltre alle professioni ripetitive, gli algoritmi riducono la necessità di avvocati, medici, bancari, autisti, addetti alla logistica. La prossima ondata di automazione determinerà una disoccupazione strutturale più alta. Impossibile assorbire abbastanza mano d’opera nei settori meno adatti alle macchine o trasferirsi oltre oceano, come nel XIX secolo. Nuove professioni e riqualificazione sono plausibili per pochi.

Il circolo è vizioso. Rallentare la crescita, provoca instabilità, disoccupazione, minaccia di collasso il sistema economico. Continuare la crescita fa lo stesso e devasta l’ambiente. Eppure, in passato, i governi scelsero priorità economiche differenti dal Pil. La piena occupazione, dopo la Crisi del Ventinove. Ancora l’occupazione, con il valore della moneta e una bilancia commerciale positiva, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Soltanto, al tempo delle presidenze Reagan e Thatcher, la dottrina del neoliberismo è riuscita a guidare la politica, verso stato minimo e dominio finanziario. Maxton e Randers attribuiscono tale sviluppo alla scelta umana, sottolineando il ruolo di think tank come la Mont Pelerin Society. Certo, la vittoria ideologica fu importante. A ciò, affianchiamo tuttavia anche la prospettiva di Alain de Benoist (Critica del Liberalismo, Arianna, 2019). La caduta della redditività d’investimento nell’economia reale – prossimo il limite fisico del pianeta – avrebbe spinto il capitalismo verso le bolle speculative. Ovvero: il capitalismo finanziario cattivo non ha ucciso il capitalismo industriale buono ma ha salvato il capitalismo (per qualche tempo). In quanto, capitalismo significa accumulo di capitale.

Il circolo vizioso potrebbe rompersi a lungo termine. Randers ha già osservato attentamente la dinamica globale, demografica e della produttività (2052: Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2013). Dai primi anni Settanta a oggi, il numero medio di figli per donna è passato da 4.5 a meno di 2.5. Una demografia stabile corrisponde a 2.2 figli, fecondità attesa verso metà secolo. Seguirà un lento declino della forza lavoro disponibile.

Anche la produttività aumenta da molti anni ma in maniera sempre più lenta. Dal 1970 al 2010, negli Stati Uniti, l’incremento annuo della produttività è passato, dal 2% all’1%. La produttività cresce rapidamente con l’automazione dell’industria e nelle economie arretrate. Al contrario, quando la maggior parte dei lavoratori si occupa di cura alla persona e servizi, il miglioramento è lento. La proiezione globale stagna. Rapportare le tendenze di forza lavoro potenziale e produttività, permette una previsione sulla crescita economica. Lavoratori in diminuzione e produttività stagnante prefigurano la decrescita, a partire da metà secolo. La previsione è forte, proiettando due tendenze in corso da molto tempo, difficilmente contrastabili dall’intervento umano. Un cambiamento epocale da gestire con saggezza. Ad esempio in Giappone, dal 1990 al 2010, la popolazione è invecchiata, diminuita, la crescita del Pil è stata inferiore all’1%. Eppure, Pil pro capite e consumi sono esplosi fino al 33% in più: stessa ricchezza divisa bene, tra meno persone. La replicabilità è incerta. Se pure oltre metà secolo, la decrescita globale suggerisce una flessione demografica più rapida di quella del Pil.

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