A scrivere settimane dopo questo reportage, ci si rende conto di essere stati tra gli ultimi visitatori civili dell’area colpita dal disastro nucleare di Černobyl’ (aprile 1986). Dopo di noi, si svolgeranno le esercitazioni in ambiente post-apocalittico delle truppe di Kiev – quasi in scenari da videogame –e poi tuona la guerra vera, e i tank dell’aquila bicipite cingolano sulla fanghiglia della Foresta Rossa.
Kiev, 7 gennaio 2022, alba fredda color blu acciaio. Prima dei carri armati.
Ci presentiamo puntuali all’appuntamento datoci dall’agenzia turistica a cui ci siamo rivolti. Černobyl’ Tour eye-opening experience of post-Apocalyptic world: così recita la targa all’ingresso dell’ufficio sulla discesa Andriivs’kyi sotto la cattedrale ortodossa di Sant’Andrea, costruita dall’architetto italiano Bartolomeo Rastrelli, un gioiello turchese nel panorama di grigio inverno. Un grosso autobus accoglie i visitatori. È un gruppo eterogeneo, babele di lingue, vari tratti somatici, passaporti multicolori. Siamo i curiosi, i voyeur della disgrazia, i gitanti dell’apocalisse. I turisti della tragedia. Vogliamo andare a fare due passi nella Zona di Alienazione di Černobyl’, a visitare i luoghi del grande disastro nucleare, là, nella regione della Polesia dove s’incontrano (e si scontrano) i confini di Ucraina, Russia, Bielorussia, area sensibile tornata ad essere caldissima, anzi incandescente, anzi ustionante, per ragioni geostrategiche e militari. Soffiano venti di guerra sul fiume Pryp”jat’, i cingoli sono oliati e pronti, i soldati ucraini fanno le esercitazioni tra i ruderi arrugginiti della Zona.
La nostra guida è una donna energica di nome Oxana. Parla un inglese accademico, impeccabile. È preparatissima, durante il tragitto racconta con precisione storia, aneddoti e retroscena del tremendo incidente del 1986 che ebbe immediate tragiche conseguenze sulla terra di Polesia e che poi influenzò l’intero modello energetico di tutto il mondo. Il nucleare faceva e fa paura. Non si scherza con l’atomo.
Oxana snocciola luoghi che andremo a vedere. – Villaggio fantasma di Zalissya – La città di Černobyl’- Il mastodontico Radar DUGA – per l’intercettazione di missili balistici intercontinentali – la muraglia d’acciaio che tutto sente; “Russian woodpecker” 700 metri di lunghezza per 150 metri di altezza, ruggine un tempo segretissima nascosta nei boschi e camuffata da campo estivo dei giovani pionieri URSS- Poi la Foresta Rossa– E la famigerata centrale nucleare con il suo sarcofago del reattore numero 4 imprigionato là sotto come un dio crudele – Infine la tappa più interessante di tutte: Pripyat, la città morta giovane (1970-1986), dove le case sono silenziose.
Aneddoto buffo per sdrammatizzare la tenebrosità del luogo: Oxana aveva appena finito di farci mille raccomandazioni, di non toccare alcunché, di non sedersi e di non poggiare gli zaini in terra, che un robusto sino-americano vestito da primavera californiana (siamo in Ucraina a gennaio …), con le braghe a vita bassa che mostrano il canyon della vergogna tra i chiapponi, appena messo piede fuori dal bus, costui scivola goffo su una lastra di ghiaccio con le scarpette da yacht e capitombola in terra con il culo mezzo fuori, strisciando sull’asfalto viscido come una foca obesa, esquarciandosi i palmi delle mani. Terrorizzato, temendo la sua vita ormai al lumicino per le radiazioni mortali ormai impresse sottocute, cadrà in una cupa disperazione per tutta la durata della gita.
La visita di un giorno interno nella Zona non si dimentica. L’esperienza è sì turistica perché siamo portati al pascolo dalla brava e severa Oxana, pastorella che ci conta in continuazione, ci controlla, ci sgrida ci dà regole e divieti, ma al contempo, potente. Oggi abbiamo l’incredibile occasione di sbirciare nel buco della serratura della storia novecentesca, quando la cattiva opera dell’uomo ferì la natura in profondità e la superbia della scienza implose su sé stessa, al tempo della lunga agonia dell’Impero Rosso in viaggio verso il crollo, verso l’autodistruzione.
I
Uskorenie – Accelerazione
URSS metà anni Ottanta, perestrojka – ristrutturazione.
Gira una barzelletta da tardo impero sovietico:
«Se vuoi riempirti il frigo di cibo, collegalo alla radio».
Significa che c’è una bella distanza tra il paradiso socialista raccontato dalla propaganda e la realtà dei fatti. Si tira la cinghia.
L’Impero Rosso si sta ammalando, il sistema soffre di falle, il baraccone non è più sostenibile. Zastoj – stagnazione è lo spettro da combattere, il declino economico lungo due decenni, cronico.
Il nuovo Segretario Generale del PCUS Michail Gorbacev, succeduto alla guida dell’URSS dopo la dipartita della cariatide ortodossa Černenko, crede fortemente nelle riforme. Vuole con decisione rilanciare il vecchio gigante stanco. Circola una parola: uskorenie – accelerazione. È la dottrina della nuova era, del futuro socialista proiettato moderno e solido nel terzo millennio, vestito con una nuova pelle, ma che custodisca il medesimo cuore di falce&martello. Corpo nuovo ma con la stessa anima. Produttività raddoppiata entro la fine del millennio, dinamicità socioeconomica, accelerazione, subito. Bisogna correre senza indugi verso il progresso tecnico e scientifico. L’innovazione tecnologica è la chiave di volta dell’uskorenie, il mezzo per raggiungere il fine, la nuova rivoluzione del prodotto interno lordo, avanti compagni la glasnost ci attende, una nuova URSS per mille anni.
25 febbraio 1986, nella gigantesca sala del Palazzo dei Congressi del Cremlino, il compagno segretario Gorbacev prende la parola dinnanzi a 5000 delegati da tutte le repubbliche dell’Unione. È il centro del sistema, il nucleo della galassia sovietica lì riunita.
«Per anni, l’attività del partito e degli organismi statali non ha saputo tenere il passo alle esigenze del nostro tempo, e della vita stessa».
È un lunghissimo discorso-fiume che dura una giornata intera. Nelle parole del compagno segretario ci sono tutte le linee guida del nuovo corso. Nuovo piano quinquennale turbo-atomico: tecnologia energetica in primis, sopra tutta la gerarchia di cose e intenti; progressivo abbandono dell’utilizzo dei combustibili fossili per il nucleare; costruzione di centrali nucleari moderne molto più potenti delle precedenti; dimenticarsi dei vecchi rottami termoelettrici. Nu-cle-a-re: le sillabe atomiche che scolpiscono il progresso. La scienza al servizio del socialismo può e deve plasmare il nucleo atomico per il grande slancio. C’è euforia al congresso, ogni obiettivo può e deve essere raggiunto con la corsa al nucleare per soddisfare l’enorme fame di energia del gitante URSS.
L’acronimo del grande slancio è RBMK – Reaktor Bolsoj Moscnosti Kanal’nyi – Reattore di Grande Potenza a Canali. Trattasi di tecnologia di derivazione militare, reattori già usati, in scala ridotta, sui sottomarini nucleari della marina sovietica. I progettisti e i sostenitori del progetto giurano che questi reattori sono sicurissimi, più sicuri dei samovar per il tè, impossibile che esplodano, giurano che sono così sicuri da essere tranquillamente installati e messi in funzione sulla Piazza Rossa durante la festa dei lavoratori del primo maggio. I RBMK sono più potenti dei VVER refrigerati ad acqua e sono anche più economici da costruire. Per l’alto politburo è la soluzione migliore, e pazienza se il resto del mondo opta per l’altra soluzione analoga ai VVER, ovvero gli occidentali PWR – Pressurized Water Reactor – Reattore pressurizzato ad acqua; gli RBMK sono il diktat per il presente-futuro. Impianto di Černobyl’ compreso.
II
Černobyl’ – e la profezia della Stella Assenzio
Cronache storiche tramandano di una Černobyl’ la cui nascita si perde nel medioevo, quando era nel territorio personale di caccia dei principi di Kiev, in un tempo lontano signori dai Carpazi al Volga. Černobyl’ o Čornobyl’, che richiama il colore čornyj, cioè nero in lingua ucraina. Nero come i cespugli di Artemisia vulgaris – artemisia comune, arbusto conosciuto con un più comune assenzio.
Assenzio: c’è chi collega questo termine che identifica la geografia del luogo con una profezia biblica, la profezia della Stella Assenzio.
Dall’Apocalisse di Giovanni, versetti 8.10 e 8.11:
«Il terzo angelo suonò la tromba e cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia, e colpì un terzo dei fiumi e le sorgenti delle acque. La stella si chiama Assenzio; un terzo delle acque si mutò in assenzio e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano divenute amare».
Se Černobyl’ è insediamento antico, la cui componente sette-ottocentesca maggioritaria era di ceppo ebreo ortodosso fino al 1941, anno dell’invasione tedesca e delle Einsatzgruppen al seguito, la città di Pripyat invece è ben più recente. Si tratta di una città modello, costruita dal nulla nel 1970 e cresciuta fino al 1986, quando da un giorno all’altro, i 50.000 abitanti sono costretti ad abbandonare le proprie case. A Pripyat, moderna e all’avanguardia, si vive meglio che nel resto dell’URSS. Centro privilegiato, con ottimi impianti sportivi e di aggregazione, non ci sono code per fare la spesa, i negozi sono ben forniti di salsicce e formaggio, gran lusso.
Nell’area tutto ruota attorno all’attività principale, che è la centrale nucleare: unità 1 e 2, le 3 e 4 operative di recente, gemelle e ospitate dal medesimo edificio-colosso, e la 5, ancora in costruzione, circondata da una selva di alte gru. Saldo al comando di quella speciale area strategico-tecnologica c’è il super direttore Viktor Brjuchanov, potente instancabile ingegnere formatosi nell’uzbeka Tashkent, viceré tecnico alla guida di un esercito civile di maestranze specializzate. È una sorta di moderno signore feudale di indubbia esperienza nel campo energetico, lì insediato da Mosca non per ragioni dinastiche come un tempo scomparso per sempre, ma per meriti organizzativi, manageriali, politici. È uno degli uomini chiave dell’uskorenie – accelerazione tanto cara a Gorbacev ed entourage. È affiancato dai dirigenti Nikolai Fomin, capo ingegnere, e Anatolij Djatlov, vicecapo ingegnere. Černobyl’, viceregno sovietico degli ingegneri.
È la vetrina moderna di un’URSS che si vuol mostrare proiettata verso il progresso, dinamica, capace, tecnologica, dove si vive bene, in pace e in sicurezza. A detta degli ingegneri, la casta più alta di Černobyl’-Pripyat, il bacino di raffreddamento della centrale può essere usato benissimo per l’allevamento di pesci, tanto l’impianto è sicuro. Nella grande vasca artificiale si riproducono le trote e carpe in gran numero. A tarda notte, pescatori di frodo, spesso gli stessi operai della centrale, s’avventurano nel bacino, per la pesca clandestina di mezzanotte.
III
Il disastro
«Immagina di essere al volante di un’auto. Accendi il motore, cominci a muoverti, acceleri piano piano, cambi marcia. Stai viaggiando ai sessanta all’ora, e decidi di sollevare il piede dall’acceleratore. Di colpo, però, l’auto sembra accelerare da sola. La velocità aumenta: ottanta, cento, centotrenta, centocinquanta chilometri orari … Tu provi a frenare, ma è inutile, vai sempre più forte. Ecco, come ti sentiresti?».
Vitalij Borec’, ingegnere nucleare incaricato di preparare la tabella di marcia per il test all’unità 4.
25 aprile 1986, venerdì.
Tempo sereno su Černobyl’, operai, tecnici, impiegati attendevano la sirena per staccare il turno e godersi un fine settimana di svago e primavera. Clima tiepido e tranquillo, regolare, voglia di gita fuoriporta, di natura, è il momento del giusto riposo guadagnato con il lavoro sodo.
Ma non tutti possono staccare, una centrale nucleare affinché funzioni ha ritmi e protocolli che impongono cicli continui di turnisti, ovvio. Inoltre, a fine aprile è previsto lo spegnimento dell’unità 4, necessario per le attività di manutenzione e riparazione. Come in altre occasioni simili, il particolare momento tecnico che precede lo shutdown del reattore consente di eseguire una serie di test per saggiare i sistemi. Il test previsto per quel fatidico 25 aprile ’86 all’unità 4 ha come scopo quello di verificare la turbina a vapore.
Test unità 4 all’impianto nucleare di Černobyl’ 25/4/1986, in breve: simulare una situazione di crisi, con guasto elettrico fittizio e successivo blackout. A quale scopo? Se un evento di qualche natura portasse allo spegnimento shutdown involontario allora si avrebbe l’interruzione dell’alimentazione elettrica necessaria a pompare liquido refrigerante per abbassare la temperatura del nocciolo ed evitare così il meltdown, cioè la fusione. In questa situazione di allarme rosso, i progettisti hanno pensato ad una serie di generatori diesel d’emergenza, che porterebbero l’energia sufficiente per il funzionamento delle pompe dell’acqua. Però attenzione: i generatori d’emergenza si attiverebbero solo dopo 45 secondi dallo shutdown e in quel lasso di tempo, che a noi pare irrisorio, in realtà si possono celare grandi insidie nel contesto di un grave guasto al reattore. È un buco temporale, misterioso e nero, che può divorare tutto e tutti. Occorre pensare a quei 45 secondi di buio, bisogna mettere un tappo alla falla nella sicurezza. Pensiamo al problema con le nostre menti semplici, non istruite presso l’Istituto di fisica e tecnologia di Mosca o al Politecnico dell’allora Leningrado, dunque cervelli non troppo scienziati: la soluzione giunge dalla turbina a vapore, senza stare a girarci troppo attorno. Già perché se mettiamo sull’ ”off” l’impianto, la turbina per un po’ continua a girare per inerzia grazie alla residua pressione del vapore, e quell’ingranaggio rotante può produrre l’energia mancante per tappare quel buco temporale di cui si scriveva prima, e quindi mantenere in funzione le pompe. Però tutto ciò a livello teorico, si deve avere la prova pratica, ed ecco pertanto lo scopo del test.
24 aprile, la tabella di marcia pianificata dall’ingegnere Vitalij Borec’ subisce ritardi. Lo spegnimento dell’impianto slitta al 25. Quel giorno le procedure di shutdown controllato sono sotto la responsabilità del capoturno Igor Kazachkov.
Kazachkov segue il programma. Spegne il sistema di emergenza per il pompaggio dell’acqua nel circuito di raffreddamento. Inizia l’arresto dell’impianto, della durata complessiva di qualche ora. La squadra di Kazachkov ha ultimato il proprio turno, è ora del cambio della guardia nella sala di controllo. Arriva l’ingegner Yurii Trehub coi suoi. Emerge subito un problema serio di coordinamento tecnico tra le squadre. Secondo la tabella di marcia originaria, lo spegnimento del reattore dovrebbe già essere concluso. Non è così. Trehub si trova spaesato, in una situazione per cui non è preparato. Il programma non gli è chiaro in tutti i suoi dettagli minuziosi. La potenza della centrale ora è dimezzata e il sistema di raffreddamento di emergenza disattivato. Il momento è delicato, ma non c’è alcuna scelta, l’ordine è di andare avanti con il programma. Il test prosegue. Davanti agli uomini in camice e cuffia bianca, assomiglianti a chirurghi, quattromila tra indicatori, spie, lancette, bottoni con sigle in cirillico, brillano sul gigantesco pannello dei comandi: una costellazione di pulsanti e luci. L’orologio nella sala prosegue i suoi giri pomeridiani ma non c’è ancora l’ordine per lo shutdown definitivo. Trehub è chino sulle carte, le sfoglia. Ha dubbi, tanti, troppi punti interrogativi in testa. È angosciato. Chiama al telefono l’ingegnere capo Fomin e l’ingegnere vicecapo Djatlov … Yurii, devi aspettare.
Il vicecapo Anatolij Djatlov, responsabile dello spegnimento dell’unità 4, non ha fretta. È una bella sera per una passeggiata, e i quattro chilometri dal suo condominio di Pripyat in Prospekt Lenina fino alla sala di comando se li fa a piedi. Non è certo la prima volta; è una sua buona abitudine per tenersi in forma. Baffuto veterano dell’industria energetica sovietica, appassionato di poesia classica russa, è personaggio estremamente sicuro di sé. È conscio della sua straordinaria competenza in materia nucleare, un luminare nella comunità di Černobyl’. Questo suo valore si traduce però con i sottoposti in arroganza e in supponenza. Esige ferrea disciplina, con chi sbaglia è feroce. Alfiere della tecnica, assume quell’atteggiamento talvolta riscontrabile in scienziati in carriera, di successo: onnipotenza.
Finalmente Djatlov raggiunge la centrale; sono le ore 23 della sera. La squadra di Trehub smonta, ora è il turno di Aleksandr Akimov. Trehub decide comunque di rimanere come semplice spettatore per assistere al test. Akimov non è a suo agio. Si aspettava che il test fosse già eseguito, non sapeva dei ritardi. Tocca a lui e ai suoi uomini procedere con lo spegnimento. Ma Akimov manca di preparazione per questa fase delicatissima. Il tempo è agli sgoccioli. Al volo, Trebub cerca di spiegare al collega cosa ha capito lui del procedimento. Ma i dubbi sono tanti e Djatlov, dall’alto della sua posizione, rifiuta di dare spiegazioni utili. La sala controllo è affollata di camici bianchi. C’è tensione.
Akimov si siede alla scrivania, sfoglia manuali, carte, dati, appunti. Djatlov gli fiata sul collo. Gli dice a muso duro che non c’è più tempo per studiare, che si dia una mossa.
Al suo posto c’è un giovane ingegnere venticinquenne, il miope Leonid Toptunov, responsabile del regime operativo del reattore. Impreparato.
Mezzanotte, la potenza del reattore scende. Il giovane Toptunov continua ad abbassare le barre di controllo verso il nocciolo per ridurre dunque la produzione di energia.
Luce di allarme improvvisa: il livello dell’acqua nel reattore è troppo basso. Опасность! Danger! Pericolo!
Toptunov va nel pallone. Confuso, agitato, in difficoltà critica. Trehub corre ad aiutarlo. Aziona il comando per aprire la valvola che regola il flusso d’acqua.
In sala Akimov urla di incrementare la potenza! La potenza del reattore sta calando troppo rapidamente! Tuptunov ha pasticciato con i regolatori delle barre dei controlli, e inoltre, uno di essi è pure guasto. Akimov e Trehub affiancano lo smarrito Toptunov che non sa che pesci pigliare. Riescono a mantenere attivo il reattore. Respiro di sollievo. Si asciugano le fronti sudate.
Che fare ora? Aumentare ancora la potenza per poter effettuare il test con lo shutdown controllato, oppure spegnere adesso e al diavolo la prova delle turbine? Djatlov ordina che si vada avanti con il test, anche a un livello basso di potenza.
Djatlov e Akimov in un angolo della sala discutono duri sul livello di potenza da mantenere. Sono in disaccordo, ma alla fine è Djatlov che ha l’ultima parola, lui è il capo. Sbraita di spicciarsi.
Ore 1.19 del 26 aprile, si accendono le spie d’allarme per la pressione del vapore. Le spengono. Spengono anche le pompe di riserva. Non si rendono conto che stanno seriamente danneggiando il reattore, per mantenerlo stabile a 200 MWt. Persistono nel rimuovere barre di controllo dal nocciolo. Le spie d’emergenza si moltiplicano sul pannello, urlano il disastro imminente. Le ignorano.
Ore 1.22 repentino cambio di rotta del reattore: ora la potenza cresce veloce verso l’altro. La reazione sta accelerando. Mancano pochi secondi al test delle turbine … ma il motore sta perfondere …
Ore 1.23: viene dato l’ordine d’inizio test. Il reattore viene spento. Off.
Trentasei secondi.
Il reattore impazzisce. Il livello di potenza schizza in orbita. Akimov indica a Tuptunov il pulsante AZ-5 per lo spegnimento d’emergenza. Tuptunov lo preme. 178 barre di controllo scendono nel nocciolo per assorbire neutroni e far rallentare la reazione. Ma quegli uomini incauti non sanno che gli RBMK soffrono di un difetto di progettazione. Le barre di controllo difatti, lunghe sette metri, sono ricoperte di grafite nella loro parte iniziale e questo elemento, invece di soffocare la reazione, la accelerano. Il nocciolo diventa cuore di fuoco. Infarto del sistema. Il calore danneggia le barre di combustibile che bloccano così la discesa delle barre di controllo che non riescono a raggiungere così la parte inferiore del nucleo.
Indicatore della potenza in MWt: da 200 a 500 in uno schiocco di dita, e in un battito di ciglia a 30.000, dieci volte la norma. Le barre di combustibile si disintegrano, il vapore diventa una nube muscolosa, un’eruzione.
Ruggito improvviso nella sala di controllo, un suono bizzarro, simile a un gemito umano, un urlo di sofferenza di un gigante.
«All’inizio fu come se un’automobile Volga che procedeva al massimo della velocità avesse cominciato a frenare e a sbandare. Faceva du-du-du-du … Era qualcosa di diverso da un terremoto. Contavi fino a dieci, sentivi arrivare quel suono, poi la frequenza delle onde d’urto diminuiva. Ma la loro forza aumentava. Per ultimo è arrivato il boato dell’esplosione».
Testimonianza dell’ingegnere Yurii Trehub.
Il vapore imprigionato si fa mostro terribile. Picchia il rivestimento del reattore per liberarsi. E cresce, cresce, la sua spinta si fa sempre più forte sul rivestimento di 200 tonnellate battezzato Elena dagli operatori. Il vapore investe Elena, la pressione sfonda Elena.
Passano due secondi netti.
Avviene una seconda esplosione, molto più potente. Tutto trema. Le luci si spengono. Rimangono solo le fioche lampadine d’emergenza. I presenti sono sotto-shock completo. Si guardano tra loro, inebetiti. In pochi istanti si sono ritrovati nel peggior incubo possibile. Sono uomini che hanno scatenato un terremoto artificiale. Catastrofe. Nuova Pompei nucleare.
«Questa è Hiroshima!». Urla Trehub
I pescatori di frodo del bacino di raffreddamento illuminato dalle fiamme rimangono ipnotizzati davanti allo spettacolo d’inferno. Abbagliati di fronte alla colonna rosso-azzurra che si plasma in un fungo nero.
IV
Biorobot
I primi sono i vigili del fuoco della stazione di Pripyat, giunti sul posto cinque minuti dopo la seconda esplosione, poi seguiti dalle squadre arrivate da tutta la regione di Kiev. La battaglia contro il fuoco è durissima e il disastro è di una gravità impressionante. L’intero tetto dell’unità 4 è andato in frantumi e cumuli di detriti sono ovunque. I pompieri si arrampicano sul tetto della sala turbine. Il bitume si sta sciogliendo dal calore e afferra gli stivali. Il tetto è ricoperto di strani pezzi argentati, che di colpo si fanno tizzoni incendiati. I pompieri li pigliano a calci per buttarli via. Loro poveretti non lo sanno, ma quei detriti sono resti estremamente radioattivi di grafite contaminata e combustibile nucleare.
Sono sì coraggiosi i vigili del fuoco accorsi a domare l’incendio ma non addestrati a dovere. Non sanno nulla di pericoli radioattivi e di emergenze di quel tipo. Scendono in quella battaglia con un equipaggiamento assolutamente non all’altezza, in maniche di camicia. Vista la temperatura da fornace, abbandonano giacconi ignifughi e caschi protettivi. Ignari, vanno alla morte.
Prestissimo, arriva la nausea, fortissima, insopportabile, accompagnata da fitte lancinanti di emicrania e da acuta debolezza. Si fa fatica a deglutire perché lingua e gola sono gonfie. Le autoambulanze iniziano a fare la spola dalla centrale all’ospedale di Pripyat. Un operaio sembra ubriaco fradicio ma lui giura di non aver toccato un goccio. Blatera pallidissimo, ripete ammattito, un sinistro manta da personaggio conradiano di Cuore di Tenebra:
«Orrori! Orrore!».
Lo scenario all’unità 4 è di apocalisse in terra. Chi lavora a mani nude per liberare le ruote delle autopompe dai rottami metallici si ritrova con i palmi sciolti. Sono le radiazioni che mordono gli uomini. La sete li tortura. Gli incauti che si dissetano con l’acqua delle manichette raccolte dal bacino di raffreddamento si rovineranno per sempre lo stomaco. Veleno.
Presto la corsia dell’ospedale moscovita riservata alle vittime di radiazione diventerà un lazzaretto di corpi sbucciati da orribili ustioni.
Il KGB taglia le linee telefoniche interurbane per impedire che le notizie sul disastro si diffondano fuori dall’area.
Surreale è l’esperienza del cittadino di Pripyat G.N. Petrov. Rientra a casa molto tardi quella sera, e sulla via del ritorno vede il grande incendio e corre a casa terrorizzato. Una vicina di casa gli consiglia una buona vecchia cura contro le radiazioni: sgolarsi una bottiglia di vodka, per disinfettare il fisico e sconfiggere la paura. Rimedio valido per il secondo malanno, ma nullo per il primo. Sta di fatto che il compagno Petrov si mette a bere, e il giorno dopo tutto gli pare nella normalità, come se non fosse successo nulla. Dal suo balcone vede mamme coi passeggini, bimbi che giocano al parco, ragazzini che sfrecciano in bici. Un altro suo vicino è sul tetto ad abbronzarsi, tutto allegro. Il vicino scende poi da Petrov per un cicchetto. È molto contento, dice che quel giorno ci si abbronza particolarmente bene, con rapidità. L’uomo puzza di bruciato, quasi la pelle gli fuma. E poi è davvero troppo allegro, come se fosse ubriaco fradicio o drogato. Chiama il tetto “la spiaggia”. Alla sera un’ambulanza lo porta via di gran carriera, sta malissimo, abbrustolito dai raggi gamma.
Il 27 aprile le autorità decidono per l’evacuazione totale della città.
Pripyat, 27/04/1986 abitanti alle ore 12: 50.000.
Pripyat, 27/04/1986 abitanti alle ore 18: 0.
Rimangono solo i tecnici dei reattori che stanno lavorando per lo spegnimento totale della centrale di Černobyl’ e i cani randagi.
Dopo i pompieri tocca agli elicotteristi esporsi all’aria avvelenata. Una flotta di cento elicotteri militari, gigantesche libellule meccaniche con la stella rossa sulla carlinga, fanno la spola dalla piazza principale di Pripyat al buco nel reattore dell’unità 4. Una volta sopra l’obiettivo, gli avieri spalancano il portello laterale e a forza di braccia rovesciano sacchi di sabbia sopra la ferita infetta della centrale. Centinaia i voli effettuati, e gli equipaggi vengono di continuo bombardati dalle radiazioni. Nessuno all’inizio è certo che quell’ingrato dovere possa servire a qualcosa, ma si deve dare l’idea di sapere esattamente cosa si sta facendo, e di trasmettere sicurezza, come se quelle azioni di “sabbiature” dal cielo su un reattore che spurga morte fosse la cura necessaria, prevista per emergenze simili, da protocollo. Ma il protocollo non c’è.
«Il tempo era magnifico, il sole splendeva, i campi erano in fiore, e la natura ritornava alla vita. Eppure, lì vicino abbiamo visto un corvo che non riusciva a prendere il volo: era troppo debole».
Ricordi di un elicotterista.
Per evitare una nuova esplosione, ci si convince che si debba rimuovere l’acqua radioattiva che allaga il fondo dell’unità 4. Infatti, se il combustibile fuoriuscito dal nocciolo fuso raggiungesse l’acqua, si scatenerebbe allora un nuovo geyser titanico di vapore, provocando altre ondate di radioattività.
Si cerca qualche coraggioso, qualche eroe, qualche suicida che abbia il fegato di scendere nei sotterranei, nei corridoi bui sommersi di acqua acida. Offrono premi in denaro, automobili, appartamenti. Ma chi accetta non lo fa per le ricompense materiali. C’è piuttosto un sentimento che muove quegli uomini, una volontà di sacrificio, si gettano stoici tra le braccia della morte per il bene della collettività, per un senso supremo del dovere. Per fare il loro lavoro costi quel che costi, fino in fondo. L’avanguardia sub è composta da tre tecnici dell’impianto, tre ingegneri che ben conoscono quei meandri d’inferno, e si immergono con le mute per aprire valvole e far defluire l’acqua assassina in camere di raccolta, da dove poi i sommozzatori dei vigili del fuoco la risucchieranno con le pompe. I tre ingegneri muoiono nelle settimane successive. Destino segnato, loro stessi ne sono consci.
Likvidatory – liquidatori sono le migliaia di uomini e donne coinvolti nelle difficili operazioni di pulizia e di messa in sicurezza dell’area. Militari di leva di diciotto anni, riservisti dell’Armata Rossa, persone dai ministeri, dal partito, dalle costellazioni di enti pubblici sono chiamati dalla grancassa propagandistica a dare il proprio contributo.
Tra loro, i più famosi, rimasti impressi nell’immaginario storico della lotta umana contro il disastro, sono i biorobot che operano sul tetto dell’unità 3. Il loro compito – ingratissimo – è di ripulire il tetto del reattore gemello dai detriti radioattivi piovuti dall’adiacente numero 4. Sembrano effettivamente dei cyborg âgé, mezzi umani mezzi macchine, marziani in VHS, comparse eroiche di un film di fantascienza sovietica vecchio di trentacinque anni. Sono infagottati nella plastica, con speciali grembiuli da fucinatori, protetti da maschere per la guerra chimica e da rozze protezioni di piombo per i genitali. Corrono così vestiti i ragazzi sul tetto dell’unità 3, svelti in mezzo giro d’orologio Vostok, a spalare una manciata di grafite, gettare giù un pezzo di cemento, e poi viadentro all’edificio, in fuga dal soffio invisibile che penetra la plastica, la pelle, e s’attacca alle ossa.
Молчат Дома – Судно / Life is hard and uncomfortable / But it’s comfortable to die / Жить тяжело и не уютно / Зато уютно умирать
V
Conseguenze
Il disastro di Černobyl’ ha rilasciato nell’aria una quantità di radiazioni paragonabili a cinquecento bombe di Hiroshima.
L’incidente non ha avuto solo conseguenze dal punto di vista umanitario ma i suoi effetti si sono spinti oltre, fino a danneggiare un intero sistema tecnologico e politico. L’intera industria energetica sovietica, che tanto aveva confidato nei miracoli del nucleare, ne è stata completamente compromessa. E questo duro colpo ad un comparto così strategico come quello dell’energia, base e fonte per qualsiasi politica di sviluppo industriale, e dunque economico e sociale, ha avuto serie ripercussioni su tutta la tenuta dell’entità URSS.
Černobyl’ non è stata la causa del collasso dell’URSS ma una delle tante cause, e quelle vecchie immagini anni ’80 di telecamere traballanti salgono al rango di immagini simbolo – simboli tra tanti altri simboli di una caduta di un impero.
Cinque anni dalla catastrofe e la superpotenza di Mosca sarebbe finita in pezzi, smembrata, ammalata all’interno, diventata una pallida ombra all’esterno. Un gigante arteriosclerotico, dalle ossa marce, e dai piedi d’argilla. Qualcuno profetizzò la fine della storia. Di certo c’è stato uno shock violento nella fede tecnologica: scienza e tecnica non sono ancora indiscutibili padrone del mondo.
Dopo la fatale battuta d’arresto di piani quinquennali, di entusiasmi per un nuovo corso che non si realizzerà mai, di ristrutturazioni per traghettare il gigante rosso nel nuovo millennio e lì farlo durare e prosperare, si inaugura l’epoca della glasnost’ – trasparenza, politica lodevole nelle sue intenzioni di anticorruzione-antiburocrazia-anticensura ma fallimentare sul lato pratico. Evidentemente, l’URSS non era pronta per questa rotta inedita. Quella che s’intendeva come uskorenie – accelerazione verso il futuro, diviene accelerazione verso l’autodistruzione. Le basi per la dissoluzione della galassia delle Repubbliche Sovietiche, si gettano a Černobyl’. La Repubblica più importante del sistema rosso dopo la Russia, l’Ucraina, prende maggiore coscienza e distanza da Mosca proprio con le conseguenze dell’esplosione del reattore numero 4.
VI
Uskorenie – accelerazione verso la dissoluzione.
La miccia che fece esplodere il reattore fu quel maledetto test delle turbine. Il test fu sì causa scatenante di un disastro, ma le fondamenta su cui s’era eretta la centrale nucleare di Černobyl’ erano già guaste da tempo, dalla costruzione dell’impianto stesso. La notte tra il 25 e il 26 aprile 1986 – certamente complici tutti gli errori umani che si vuole – ci fu la rottura repentina e rabbiosa di un macchinario tecnologico nato difettoso, il momento in cui il banco d’alchimista mal costruito esplode in faccia all’incauto costruttore. S’aggiunga la colpevole alterigia di chi si sentiva capace di domare e ottenere qualsiasi cosa dall’energia atomica, un atteggiamento che si tradusse in gravi mancanze di sicurezza nonché in manifestazioni di sufficienza e sottovalutazione di potenziale pericolo.
Oggi nella Zona di Alienazione di Černobyl’ paiono lontani i tempi di quando nascevano vitelli albini senza occhi e i pini del bosco ribattezzato Foresta Rossa cambiavano colore. L’habitat, distante dal formicolio molesto dell’uomo, si è ripopolato. La regione ha una fauna ritornata selvaggia, libera, che mostra come sarebbe il pianeta Terra se l’uomo si levasse definitivamente dai coglioni. Basta darle il tempo, e la natura si riprende il proprio spazio anche dopo un cataclisma nucleare. Uccelli di oltre duecento specie, linci, volpi, lupi, orsi bruni, cavalli allo stato brado, pesci nonché colonie di gatti e cani randagi hanno trovato uno spazio nuovo … nuovo sì ma allo stesso tempo antichissimo, prima della civiltà e dei suoi danni.
Ascoltiamo il leggero fischio del vento tra i pioppi di Kopachi, il vento porta altri rumori, ringhi meccanici e di tronchi spezzati da una forza che avanza decisa nel bosco. Un ronzio cupo di motore su di giri sale d’intensità, il cannone di un carro T-90 sbuca dalla foresta.