Il fatto avvenne all’imbrunire di un giorno d’ottobre del 1972 in Cile, quando l’ombra e la luce ancora si contendono i profili delle cose. Hector non poteva sapere che in quell’ora così confusa avrebbe vissuto la più inequivocabile delle esperienze. Guidava a tutta velocità il suo camion per arrivare a Santiago prima del mattino, seguendo l’ordine che gli aveva imposto il computer. In realtà Hector non aveva mai visto un computer in vita sua, ma Juan – il compagno che parlava sempre durante le assemblee del cordone industriale – gli aveva spiegato il meccanismo: ogni fabbrica ha un telex, una specie di telegrafo molto potente, con cui tutti i giorni invia dati importanti a un grande calcolatore elettronico in una sala di comando nascosta nella Moneda – il palazzo del presidente. In base alle informazioni raccolte – la quantità di merce prodotta, gli operai impiegati, le materie prime necessarie – il computer pianifica in maniera ottimale l’economia del Paese. Cybersyn, la cibernetica al servizio del popolo: così Juan aveva chiamato questo meccanismo rivoluzionario, ma la reale portata del cambiamento non era molto chiara nei pensieri di Hector. D’altronde, che fossero i padroni a ordinargli cosa fare, o una macchina, la situazione non gli sembrava migliore.
«È qui che ti sbagli compañero Hector! – lo aveva incalzato Juan disegnando una leva su un ritaglio di giornale – Noi siamo questo sacco di riso all’estremità della leva, mentre i padroni quei quattro chicchi dall’altra parte. In condizioni normali dove scende la leva compañero? La leva scende dalla nostra parte, perché siamo di più e contiamo di più, ma la leva non scende mai dalla nostra parte. E lo sai perché compañero? Perché i padroni capiscono prima di noi come funziona la leva e sanno che basta spostare un po’ il fulcro e le forze si riequilibrano compañero, e se lo spostano di più, ecco che loro, pochi, scendono, e noi, tanti, non contiamo più. E il fulcro, compañero, prima erano la frusta e la spada, poi la macchina a vapore e adesso è il computer. Se invece impariamo a conoscere la leva prima dei padroni non potranno più spostare il fulcro a loro piacimento e contare più di noi. Per questo Cybersyn è rivoluzionario compañero, perché ci appropriamo del futuro prima che ce lo rubino i padroni. E poi guarda tutta questa gente che partecipa, che lavora di più ma è meno stanca… non ti senti più felice compañero?!».
In effetti da quando il presidente aveva nazionalizzato la sua fabbrica, anche Hector si sentiva pervaso da quell’energia collettiva che si sperimenta soltanto in preziosi periodi della vita. Si sentiva parte di una progettualità condivisa, in cui il suo contributo diventava importante come quello di tutti gli altri. Per questo quando gli dissero che doveva arrivare a Santiago prima dell’alba perché il suo carico era di vitale importanza per il governo l’adrenalina spazzò ogni dubbio.
Hector non si poteva definire propriamente un autista, ma da quando era iniziato lo sciopero nazionale degli autotrasportatori aveva dato la disponibilità a coprire l’assenza dei camionisti, mettendosi alla guida dei pochi e malandati mezzi che rimanevano a disposizione del cordone industriale. Lo sciopero aveva paralizzato il Paese bloccando quasi tutte le merci e mettendo a dura prova il governo centrale. Juan aveva detto che la mente della mobilitazione si trovava a Washington, ma i bastoni che picchiavano i crumiri erano quelli dei fascisti di Patria Y Libertad, e si potevano nascondere dietro ogni curva del Paese. La loro arma più pericolosa erano i Miguelitos, delle catene di chiodi di ferro che lanciavano sulle strade per bucare le ruote dei pochi camion che forzavano lo sciopero.
«Occhi aperti compañero Hector, non solo vogliono riprendere il potere, ma usano i nostri stessi mezzi. Sai perché i chiodi che buttano per terra si chiamano Miguelitos, compañero? Perché per la prima volta li ha utilizzati il compañero Miguel Enriquez, il fondatore del MIR. Ci rubano le armi, ci rubano gli scioperi, non hanno fantasia compañero. Per questo sono reazionari, perché pure nella lotta non hanno il coraggio dell’immaginazione. Invece noi guardiamo avanti, per questo devi arrivare a Santiago prima di domani compañero!».
Hector non capiva perché il carico del suo camion fosse così importante per “la via cilena al socialismo”. Forse il rame, l’oro cileno che teneva in piedi tutta l’economia, sarebbe stato più utile alla causa. Oppure i fucili e le munizioni, per essere pronti a difendere La Moneda nel caso di un attacco diretto al presidente. Invece, doveva arrivare a destinazione prima dell’alba per consegnare in tempo ai bambini della capitale quello che era considerato lo strumento e la misura del progresso socialista: due cucchiai di latte in polvere ciascuno.
La strada scendeva lungo una vallata costeggiando un fiumiciattolo che scorreva a una decina di metri dalla carreggiata. Hector non aveva acceso i fari per paura di essere scoperto, e perché era in quel momento della sera in cui l’occhio si abitua alla penombra e sembra ancora presto per illuminare l’orizzonte. La radio gracchiava suoni incomprensibili, intervallando canzoni popolari a dichiarazioni altisonanti di qualche ministro sullo stato dello sciopero. Hector non capiva tante cose di quei mesi così turbolenti in Cile. Svoltò una curva stretta e la strada iniziò a scendere più ripida, quasi volesse tuffarsi nell’oscurità della vallata dove scorreva il fiume. Però aveva ragione Juan, Hector si sentiva più felice.
Proprio in quel momento sentì una botta sotto al cofano e un rumore sordo. Il camion si impuntò, poi il peso del carico lo fece sollevare, quindi rotolò lungo la scarpata e, dopo diverse giravolte, trovò pace ribaltato sul letto del ruscello. Gli pneumatici anteriori ancora giravano crivellati dai chiodi, mentre la preziosa polvere bianca si riversava nelle acque fredde del rivo. Finalmente la notte aveva assorbito la vallata, e il fiume di latte la illuminava scorrendo tranquillamente verso la capitale.