Un tempo gli dèi smisero di parlare. Fu un momento traumatico, fu l’inizio della coscienza umana. In seno a questo processo, che in una fortunata – quanto datata – teoria, lo psicologo americano Julian Jaynes ha definito il “crollo della mente bicamerale”, l’uomo assunse un contorno più familiare. La mente bicamerale presupponeva una parte “ordinante” ed una “obbediente”. Una separazione netta tra una coscienza primitiva e la risoluzione dei problemi. Così era all’epoca dell’Iliade, laddove:
«Esistono indicazioni chiare e di vario genere del fatto che gli esseri umani udissero quelle che considereremmo allucinazioni uditive: voci chiamate dèi, che emanavano da qualche parte, all’interno del cervello, proprio come le voci allucinatorie che si manifestano oggi in molte persone normali e anche in varie forme di malattia mentale»
La mente bicamerale è l’epoca degli dèi, il ciclo cosmico primario. La sapienza pura, semplice e chiara. L’assenza di ogni conflitto interiore. Questa fase precede la ragione e anche la filosofia. L’umanità nasce sapiente e declina nell’”amore” – spesso non corrisposto – per la conoscenza. La realtà, percepita inconsciamente, fa muovere le comunità umane come degli automi e le organizza gerarchicamente. Predispone la società in strutture rigidamente teocratiche, e lo fa ponendo al vertice coloro che oggi sarebbero gli ossessi, gli schizofrenici. Personalità in grado di sentire e di percepire le voci degli dèi in una misura maggiore rispetto al resto della comunità. La realtà e il sogno coincidono. Un sogno destinato a spegnersi; Eschilo per primo se ne rese conto, scoprendo il dolore della ragione umana. Un dolore sembra attraversare le membra, scuotere le viscere, animare e condannare l’umanità intera, come nell’inno a Zeus dell’Agamennone:
«Guidando il pensiero dei mortali, Zeus ha stabilito che attraverso il dolore il sapere acquisti potenza. Quando, nel sonno, goccia davanti al cuore l’affanno che ricorda il dolore, allora, anche senza la volontà dei mortali, sopraggiunge in essi un sapere che salva»
Si invoca una sapere in grado di salvare dal dolore. Illusione dell’illusione: duemila anni dopo, un altro letterato nato fatalmente al limitare della civiltà occidentale nel suo decadente avamposto americano, si fa cantore della distruttività del sapere. Così Howard Phillips Lovecraft nel Richiamo di Cthulhu, ritiene «misericordiosa» l’incapacità umana di «mettere in relazione tutto ciò che contiene il mondo». Preferibile ad una conoscenza del mondo è l’ignoranza dello stesso. L’universo della mente umana cominciato con un trauma, prosegue in una speranza di riscatto; si propaga nell’illusione di una comprensione razionale del mondo, deflagra con il ritorno degli dèi sottoforma di follia. Follia pura, congenita. Come un demone rimasto troppo a lungo a riposo. Ad un celebre dipinto ad opera del pittore più antimoderno del XV secolo, Hieronimous Bosch, L’estrazione della pietra della follia, Benjamin Labatut, ha intitolato il suo piccolo, densissimo saggio La pietra della follia. Il dipinto richiama il tentativo dell’uomo di estrarre materialmente la follia dall’umanità, laddove necessario. Sarebbe possibile riuscirci oggi? Il lavoro di Labatut è una apparentemente insensata concentrazione delle paure, ansie ed angosce che accompagnano il periodo immediatamente precedente allo spartiacque rappresentato dalla pandemia; oggi manifestatesi nuovamente nella apparente isteria collettiva nel mondo nuovo, fatto di una guerra mondiale a pezzi, di rivolte, della morte del sogno di un benessere estendibile in maniera illimitata alle masse e della progressiva fuga dalla realtà, verso altri mondi concreti o virtuali, da parte di “menti geniali” senza scrupoli e oltre l’umano. Le scienze convergono verso l’abisso. Il mondo diviene un reticolato interconnesso di crisi collettive, che il meccanismo dei social alimenta ed incrementa. Il Covid ha segnato il passaggio di consegne, ha sedato la follia, l’ha messa in gabbia e l’ha poi disvelata. La ragione si è tramutata in strumento di fuga, precipitosa, dalla realtà ormai liquefatta. Oppure si mette al servizio del controllo, continuo e capillare, inarrestabile della tecnica sull’imprevedibile. Così, a partire dalle parole di Lovecraft, Labatut sottolinea come un prodigioso senso di vuoto e di nulla sia ormai instillato nelle menti umane:
«Non abbiamo più accesso al reale. La nostra esperienza quotidiana non è meno strana e inconsistente del regno dei quanti, e gli aspetti illusori, simulati e fittizi dell’esistenza sembrano sovrastare la verità e scardinare la sacralità della ragione. Perché siamo sempre più tormentati dalla sensazione che nulla abbia senso? Perché sembra che il mondo stia per finire?»
Il 2020 si è aperto chiudendo in casa – letteralmente – le grandiose rivolte scatenatesi in due contesti altamente simbolici: la rivolta dei gilet gialli francese e quella antigovernativa in Cile. La Francia, caposaldo imprescindibile delle svolte rivoluzionarie collettive nella storia contemporanea, si è ritrovata devastata. Una rivolta anti-moderna e popolare al tempo stesso. Il caro benzina coagula l’estrema insofferenza contro un ambientalismo elitario e di facciata. Condensa la spaccatura tra il centro tecnico e “progressista” e la periferia. Qualcuno direbbe tra i “buoni” e i “populisti”. Quasi contemporaneamente, in Cile, comincia un roboante, insensato attacco al nucleo simbolico del neoliberismo occidentale. Sulle strade ancora insanguinate dalla dittatura di Pinochet, nata dalla fine del primo esperimento socialista senza colpi di Stato nella storia dell’America Latina, si sollevano le masse. Insorgono, insofferenti di un mondo che pure dovrebbe appartenergli, fatto di iperproduzione, di consumismo sfrenato e di banalizzazione popolare di ogni esperienza umana:
«I media lo definirono un estallido social, perché era l’unica certezza: che fosse un’esplosione, un’apocalisse, una tracimazione imponente di primeva, lovecraftiana vitalità, alimentata da quello strano fenomeno di risacca per cui le energie represse prima o poi rifluiscono nel presente, riportando a galla tutto ciò che abbiamo scelto di nascondere, dimenticare o negare»
Che l’età delle masse fosse in corsa verso l’ignoto era evidente da tempo. Superati i limiti imposti dal tempo, dal corpo e dalla biologia; sganciati da ogni legame con il passato (visto spesso in ottica puramente negativa); svincolati da ogni appartenenza formale o effettiva a qualsiasi fede religiosa o politica, il pianeta è un unico oceano di disuguaglianze ed angosce che ribolle. Un caos che lungi dal significato produttivo di origine greca, assume la valenza distorta di una tempesta insensata ed infinita. Chiusi, volenti o nolenti, in casa; soli con le nostre coscienze, al sicuro da ogni contatto umano, abbiamo visto il caos emergere dagli abissi. Il mondo ha ripreso la sua corsa, mortificato e denudato, infreddolito ed insicuro. Privo di qualsiasi narrazione che all’occhio vigile delle menti progressiste non risulti in odore di reazione populista ed antimoderna:
«Soggiogati dalla velocità, ci siamo trasformati in alcioni, in martin pescatori che s’immergono a occhi chiusi, storditi dall’impeto dello slancio e accecati dall’impatto con l’acqua. È come fossimo caduti preda di un processo rapidissimo dalla quasi totale imprevedibilità»
La stessa divinità, sconfitta ed umiliata, rimossa dalla naturale evoluzione umana, sembra essersi tramutata nella sua nemesi. Funesto Demiurgo – direbbe Cioran – che gioca con le sue creature, divertendosi a torturarle. Che non vede nell’uomo se non un accidente del caso, che somiglia alle divinità, o alle forze, misteriose, impenetrabili ed orribili della cosmologia lovecraftiana. Spettri di catastrofi nucleari, ambientali o socio-economiche emergono dal cadavere. Quale umanità ne rimarrà? Soltanto degli spettatori inerti, dei megalomani, degli schizofrenici. Gli dèi che ritornano. Sembra di rivedevi l’ultimo uomo descritto da Shiel. Scrivendo il suo allucinante romanzo apocalittico La nube purpurea, egli delinea all’inizio dello scoccare del secolo infinito novecentesco, la preghiera disperata di un’umanità in panne, mutilata del progresso e della coscienza, rivolto nuovamente al dio tremendo, cieco e gorgogliante, destatosi come una divinità lovecraftiana dal suo sonno millenario:
«Nel tessuto del mondo è inserito, come un filo, un silenzio sorridente; e alla fine degli eventi troviamo sempre una grossa scritta con queste parole: “Perché avete temuto?”. Perciò, una calma speranza è che meglio ci si addice; e infatti è questo appunto l’atteggiamento che possiamo osservare nei più umili tra i nostri concittadini, dal cui cuore si alza il sospiro: “Anche se Egli mi uccide, avrò fiducia tuttavia in Lui”. Ascoltaci, dunque, o Signore! O Signore, volgi in basso lo sguardo, e salvaci!»