OGGETTO: Soldati semplici del capitale
DATA: 18 Giugno 2023
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
A metà strada tra il proletariato e la borghesia, ma senza la prospettiva di un assalto al cielo: la classe degli impiegati di oggi è la stessa di cent'anni fa
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I grandi intellettuali hanno la capacità di cogliere le dinamiche essenziali dei fenomeni sociali anche quando sono ai loro primordi. Siegfried Kracauer rientra appieno in questa categoria e con il suo Gli impiegati, raccolta di saggi pubblicati dalla “Frankfurter Zeitung” agli inizi degli anni Trenta, delinea in maniera lucida e straordinariamente attuale la nuova figura dell’impiegato, che si impone come categoria sociale centrale nella Berlino tra le due guerre. Non è un caso che, nonostante gli sconquassamenti e le rivoluzioni culturali e tecnologiche di quasi un secolo, venga ripubblicato nel 2020 per Meltemi mantenendo intatta la sua freschezza analitica. La scelta di accompagnarlo a una nota introduttiva di Luciano Gallino risalente alla prima edizione italiana degli anni Ottanta e a un saggio di Maurizio Guerri esplicita la traiettoria temporale in cui la forza argomentativa del libro rimane intatta: tra la Berlino del 1929, la Torino degli anni Ottanta o la Milano dei nostri giorni è più visibile l’invarianza o la differenza?

Il libro si presenta come una “diagnosi” di questa nuova figura sociale a metà strada tra il proletariato e la borghesia. Gli impiegati, soprattutto quelli delle grandi aziende, non sono proletari perché quasi sempre provengono da un ceto più elevato, quella piccola borghesia tedesca uscita distrutta dalla Prima Guerra Mondiale e che fatica a ritrovare il suo ruolo nella società; ma non si possono dire neanche borghesi perché condividono con il proletariato la situazione economico-sociale: stessa precarietà lavorativa, stessa posizione subalterna nei confronti del potere, simile prospettiva di massa. Una delle più belle metafore di Kracauer è proprio quella che descrive la differenza “esistenziale” tra proletari e impiegati. Gli operai hanno una forte coscienza di classe “coperta da concetti marxisti”, che, anche se si tratta di un marxismo volgare, diventa un tetto che protegge e un’avanguardia indispensabile per il mitico assalto al cielo. Gli impiegati, invece, sono dei senza tetto “spirituale”, non hanno quelle fondamenta politico-sociali in grado di trasformare la massa in corpo politico unito e consapevole delle proprie aspirazioni e rivendicazioni. L’assenza di una visione di classe è evidenziata da una diffusa mentalità individualista, appannaggio della discendenza borghese, che li isola e li contrappone l’uno all’altro rendendo impossibile una chiara e matura coscienza di sé. La massa impiegatizia è un ircocervo sociale: avrebbe tutte le caratteristiche per intraprendere una lotta di classe, ma risulta uno degli ingranaggi meglio aderente all’ingegneria economico-sociale moderna.

Kracauer, tra le altre cose critico del cinema e autore di diversi saggi sul grande schermo, si dilunga sulla vita culturale degli impiegati sottolineando il legame tra la razionalizzazione del lavoro e la comparsa dell’agognato tempo libero per le immense masse di nuovi lavoratori. Le attività di svago servono per distrarre l’attenzione degli impiegati, per rendere più difficile una presa di coscienza della propria situazione di subalternità. La sempre più variegata e sensazionale offerta di beni culturali diventa un valore in sé e, come sintetizza l’autore in uno dei suoi non rari periodi quasi poetici, alla fine 

“Quello che resta sono i locali luminosi, inondati di luce […]. L’influenza benefica che il flusso di luce esercita sul personale, oltreché sulla voglia di comprare, potrebbe consistere al massimo nel fatto che il personale ne viene stordito abbastanza da dimenticare l’alloggio stretto e senza luce. Ma la luce acceca, piuttosto di illuminare, e forse tutta la luce che negli ultimi tempi inonda le nostre grandi città serve non da ultimo ad accrescere il buio”

Il Moka Efti, leggendario locale di Berlino teatro delle serate più mondane di tutta la Germania, o i locali esotici che ricreano ambienti lontani dal grigiume cittadino quotidiano – birrerie bavaresi o finti saloon del West – trasportano l’impiegato fuori dalla sua condizione e impegnano il suo immaginario e la sua energia nervosa. Nei novanta anni che ci separano dalla prima stesura di questi ragionamenti la società si è evoluta, i dispositivi si sono complicati e moltiplicati, ma lo scontro per l’attenzione del lavoratore rimane uno dei campi di battaglia fondamentali per il controllo della società. 

Anche lo sport rientra nell’ambito di quei “beni culturali” offerti alle masse come sedativo del pensiero critico. L’attività fisica, la cura di sé, la costruzione della propria immagine come riflesso di un modello imposto dalle riviste e dai film, si rivela agli occhi di un intellettuale degli anni Trenta come una nuova manifestazione subdola e pervasiva del controllo sociale. Il bisogno di staccare dalla quotidianità monotona di un lavoro mentalmente deprimente si tramuta in una riscoperta del culto del corpo sano e bello. Se all’epoca dell’autore questa inclinazione si manifestava nei berlinesi che la domenica si cimentavano in lunghe escursioni in canoa, ai giorni d’oggi si palesa nei runner che pullulano in ogni parco della città o nei provetti campioni di padel che si celano dietro insospettabili impiegati di mezza età.

Molte sono le similitudini tra gli impiegati di Kracauer e quelli attuali e rileggendo le testimonianze dell’autore sembra che i problemi di oggi siano solo una riproposizione in versione contemporanea delle medesime difficoltà di allora. Già dalla fase di selezione del personale si notano dei tratti in comune: 

“Ognuno sia messo nel posto che è meglio in grado di ricoprire per le sue capacità, le sue conoscenze, le sue qualità psichiche e fisiche, insomma: per la natura della sua intera personalità. L’uomo giusto al posto giusto!”

Questo l’annuncio di una società per preparare gli impiegati commerciali a un esame di idoneità che risale al 1927, ma le stesse parole potrebbero tranquillamente trovarsi sulla bacheca Linkedin del visionario Hr specialist di qualche start up “innovativa” con sede nella City Life milanese. 

Oppure la ciclica paura di perdere milioni di posti di lavoro a causa dell’avvento di nuove tecnologie: negli anni Trenta erano la razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro e il nastro trasportatore, oggi sono la robotica e ChatGPT gli artefici della terrore della intellighenzia, e non, per un futuro di inoccupazione generalizzata.

Per non parlare del mai risolto problema dei disoccupati in là con gli anni esclusi dal mercato del lavoro. Quanti editoriali ci siamo sorbiti in questi anni sulla dignità calpestata, sulla difficoltà nel reinventarsi un lavoro dopo una vita, sul pietismo da talk show che teatralizza un fenomeno dimenticandosene l’analisi. Litri e litri di inchiostro quando la causa era chiara e banale già cento anni fa: “La razionalizzazione tende a passare sul cadavere dei lavoratori di età più avanzata perché a questi ultimi spetta la retribuzione massima”.

Le pagine de Gli impiegati toccano numerosi altri temi, dal rapporto tra la natura e la città alla pericolosa sovrapposizione tra morale ed estetica, riferendosi costantemente al resoconto vivido e reale di una società travolta da una crisi politica e sociale decennale. Lo stile è variegato e la scrittura tagliente e incisiva: si passa da analisi sociologiche complesse a interviste e stralci di conversazione incalzanti. 

Un classico della sociologia da riscoprire, che impone una domanda scomoda: tra un secolo sarà ancora leggibile con lo stesso interesse un saggio odierno sulla nostra condizione?

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