L’8 dicembre del 1955, in contrasto con la politica di destra condotta dal segretario Roberto Lucifero, filomonarchico e fautore del blocco elettorale con l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, 32 consiglieri nazionali del Partito Liberale Italiano si dimisero per promuovere con altri la costituzione del Partito Radicale dei Liberali e Democratici Italiani. Tra loro, insieme a Leopoldo Piccardi, Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Nicolò Carandini, Leo Valiani, Guido Calogero, Giovanni Ferrara, Paolo Ungari, Marco Pannella, Franco Roccella, c’era anche Eugenio Scalfari, che nel 1949 aveva cominciato a collaborare a Il mondo di Pannunzio, settimanale di cultura laica. Una matrice, quella pannunziana, entrata presto in crisi col “caso Piccardi” (i suoi precedenti rapporti col tribunale della razza portati alla luce da De Felice) e definitivamente cancellata nel 1967, ai tempi della guerra arabo-israeliana, che vide Pannunzio schierato apertamente a favore di Israele contro L’Espresso, di cui Scalfari oltre che direttore oltre che cofondatore.
Da qui si deve partire per parlare di Eugenio Scalfari, perché il liberalismo “di sinistra” era (ipse dixit e iteravit) la sua cultura originaria. Di formazione idealistica crociana, liberale, radicale, socialista (nelle cui liste approdò poi in parlamento nel 1968), imprenditore editore “contro” ma anche ben dentro quella “razza padrona” presa di mira alla metà dei Settanta come borghesia di Stato in un saggio scritto con Turani che stava alla prima repubblica come La casta di Stella e Rizzo starà alla seconda, dove i privilegiati erano i “boiardi” mutuati dalla storia russa; un libro-denuncia che sistematizzava le accuse già formulate da Piccardi contro l’inerzia della classe politica negli anni del centrismo, incapace di riformare la pubblica amministrazione.
Imprenditore, editore, ma prima di tutto – si deve dunque aggiungere – giornalista. Il fatto è che se mai questa definizione è stata stretta a qualcuno lo è stata proprio a lui che della professione può essere descritto a tutti gli effetti come un monumento, iniziato fin dal 1955 sulle pagine combattive ma non sempre “chirurgiche” de L’Espresso, settimanale di cui era stato inizialmente “direttore amministrativo” e solo dal 1963 direttore responsabile; un monumento attivo, instancabile capace di segnare un prima e un dopo con l’inizio nel gennaio del 1976 della storica avventura de la repubblica, il quotidiano tabloid prima espressione compiuta del partito di opinione, nato per stabilire legami anche con un mondo giovanile di più ampie prospettive che non si riconosceva più nel PCI.
Perché per niente nascosto sotto il giornalista-imprenditore, sotto i suoi famosi lunghissimi editoriali in cui si finiva spesso per evocare l’eternamente verde “ultima spiaggia”, sotto le inchieste e le battaglie condotte su L’Espresso (quella su caso Sifar-de Lorenzo dall’infiammata coda processuale o quella in verità non troppo gloriosa che portò infine alle dimissioni del presidente della repubblica Giovanni Leone) c’è sempre stato l’intellettuale esponente della più canonica tradizione idealista “liberal-progressista”, fedele al principio il vecchio adagio liberal aristocratico “Non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite”, caro anche all’amico e coetaneo Giorgio Napolitano. Una visione oligarchica, tipica di un giornalismo tradizionalmente legato a filo doppio con la politica e col potere in generale come quello italiano, pronto a difendere talora alcuni principi di sapore tra il deontologico e il costituzionale, come quando si rifiutò di soddisfare la richiesta di un presidente come il socialista Pertini, convinto che la repubblica potesse lanciare e sostenere una campagna per un secondo mandato “in nome del popolo” (ciò che non gli impedì tuttavia, qualche decennio più tardi, di schierarsi decisamente a favore del Mattarella bis…).
Scalfari è stato l’illustre confidente degli uomini rappresentativi, criticati e all’occorrenza difesi. Il suo obiettivo si può dire sia sempre stato quello dell’egemonia di una cultura mai scissa né dalla politica né dall’economia. Perché in penultima analisi quel mondo lì, quello dei potenti più o meno acculturati, quello degli imprenditori, quel mondo lì è sempre stato anche il suo. Un mediatore di scambi, di commerci, di conflitti e anche un accompagnatore di interessi”, come egli stesso ha scritto… Tutto considerato, più “liberal” che “di sinistra”. La politica e l’economia sono stati per lui gli interessi di una vita, le sponde entro le quali far rimbalzare in continuazione la sua autorevole voce. La politica come campo di confronto se non di battaglia contro Craxi e Berlusconi, quindi in anni a noi più vicini a favore di Napolitano così come ai tempi del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani) schierato armi e bagagli con De Mita e la sinistra democristiana, sempre interessato sia al chi siamo e dove andiamo che a cosa è e cosa può diventare il nostro paese, pronto a rivedere in tarda età anche convinzioni ritenute granitiche, come quando affermò di preferire Berlusconi a Di Maio. L’economia come campo solo di battaglia, invece, vissuto spesso in prima persona, in particolare con carlo De Benedetti e la CIR, che alla fine degli anni Ottanta riuscì infine ad acquisire la proprietà de la Repubblica da Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari (principali azionisti del Gruppo Editoriale L’Espresso).
Passioni, quelle per la politica e per l’economia, che negli ultimi tempi avevano lasciato spazio alla letteratura, alla filosofia e perfino alla teologia, ritagliandosi per sé il ruolo di uomo di pensiero prossimo alle cose ultime e alla Verità, incline a moralismi e riflessioni autobiografiche in opere dai titoli eloquenti (Incontro con Io, L’uomo che non credeva in Dio, Scuote l’anima mia Eros, L’amore, la sfida, il destino), plaudite spesso e volentieri da recensioni di amichevole o rispettosa super cortesia. Come a voler elevarsi dalle strettoie pastoie della realtà quotidiana, come avesse deciso infine di confrontarsi con massimi sistemi e domande definitive, senza dimenticare però di seguire, da editorialista o da ospite assiduo di programmi come Otto e mezzo o Di martedì, i fatti della politica fino alla fine. Sempre da più in alto, però. Come fosse ormai in una torre antica e inespugnabile da cui affacciarsi era diventato sempre più difficile…