OGGETTO: Considerazioni sparse sulla République
DATA: 12 Luglio 2024
SEZIONE: Società
FORMATO: Visioni
AREA: Europa
Senza più ideali "da universalizzare", la teologia politica francese si ritrova sterile, mentre il suo Stato annaspa ricercando nuovi miti. Per uscire da questa spirale (che quantomeno certifica la presenza effettiva di uno Stato) l'unico modo sembra quello di ricercare un diverso criterio di amicizia-inimicizia internazionale, ma ciò non può essere fatto senza minare alla base ciò che resta della teologia politica francese, il mito stesso del laicismo repubblicano, e dunque della stessa statualità.
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Da molti anni al di qua delle Alpi si osserva sempre stupiti, come davanti ad un aurora boreale o ad una eclissi totale, il ciclo di un avvenimento molto più umano, troppo umano: una Natività di roghi, cortei e molotov che si dipana in uno scoppio fulmineo di luci in vie, gole, vetrine e strade alberate la cui irreprensibile inviolabilità, ormai violata, è l’unica cifra che appare familiare. Il ritmo della violenza rintocca ossessivo tra le valli innevate non finendo mai di interrogare il cuore italico su di una possibilità che diventa talvolta concreta, e storica, uscendo dal cimitero delle Rivoluzioni tradite di cui l’autocommiserazione del Belpaese si nutre. E che si aspetta invero che scroscino sempre giù da qualche illustre Colle.

L’impressione, nonostante ogni tentazione d’esportabilità, non è che siano solo delle montagne a separarci, ma un fossato ben più alto e profondo, se non fosse almeno che nello Stivale da sempre tutto tace o prende una via traversa, obliqua, e molto meno rumorosa. D’altronde come monito può bastare a noi osservatori il triste destino delle “repubbliche sorelle” della République su suolo italico, o più recentemente l’accantonamento (prevedibile) della riforma costituzionale sull’introduzione del semipresidezialismo “alla francese”. Di fronte però ai ciclici scoppi di violenza transalpina che ammiriamo negli anni non ci si può fermare alla sociologia né all’economia, altrimenti si nega l’irripetibile verità storica che si cela nella specificità dell’avvenimento, qualsiasi dato preso nella sua nudità è infatti in potenza universalmente valido. È invero la realtà politica francese nella sua interezza che si manifesta a noi in tutta la sua contingenza e che impone delle riflessioni obbligate. Una realtà che va al di là del suo mero apparire, e che è pienamente storica. Una realtà politica ovvero uno spazio concreto a cui si collega una idea politica capace di far prendere corpo storico ad un preciso spirito, renderlo vitale in quella vitalità massima che è il politico. 

In Francia il tema ha da sempre rilevanza assoluta, in quanto culla della statualità, sin dalla pubblicazione dei celebri “Les six livres de la république” di Jean Bodin (1576). In Jean Bodin e tutta la tradizione dei Politiques lo Stato viene teorizzato, come idea politica e finzione giuridica (la sovranità), incarnata però nella figura del sovrano, negli stessi anni in cui il Paese, più di altri, era sconvolto dalle guerre civili di religione tra ugonotti e cattolici. L’idea politica francese quindi racchiude in sé sin dalle origini, quantomeno come opposto, la latente possibilità della guerra civile, a cui la stessa idea si oppone: riuscendo ad instaurare un criterio d’ordinamento interno, la sovranità del Re e dunque dello Stato su di uno spazio conchiuso, automaticamente lo porta anche fuori di sé. L’attività principale dello Stato in generale d’altronde è, o era,  la conduzione (legittima, l’unica possibile) della guerra, e l’eliminazione di qualsiasi altro soggetto non-statuale potenzialmente atto a condurla. 

L’instaurarsi della statualità porta ad un unico ordine possibile, una unica legittimità politica superiore alle lotte confessionali e alle dispute teologiche, e dunque, come fatto incidentale (ma non meno importante), all’allontanamento dei teologi dalle trattazioni di questioni giuridico-politiche. Facendo fuoriuscire il concetto di giustizia dalla guerra, essa diventa affare pubblico dello Stato, suo assoluto monopolio; ad un ordine interno ne consegue così ancora una volta un criterio per quello esterno, e così dalle guerre civili religiose si può passare alle ordinate, rigidamente regolate dal diritto, guerre interstatali. 

Al primo Stato, perlomeno consapevole di esserlo, si affiancherà poi la prima Repubblica, che è il frutto più maturo del lungo processo di secolarizzazione che inaugura lo Stato stesso. La Repubblica, fondandosi sui principi universali, egalitari e laici, della ragione umana, non può che creare al suo interno la guerra civile (o la sua concreta possibilità), la tensione tra l’assolutismo degli ideali democratici e la realtà, lo spazio storico in cui suddetti ideali vengono a contatto. La soluzione proviene dalle stesse forze universalistiche che muovono il repubblicanesimo e che lo spingono inevitabilmente al di là di esso, a confrontarsi con le sue eterne nemesi monarchiche. Dalla guerra civile si passa così alla guerra di leva, in cui per la prima volta tutti i cittadini compartecipano dello sforzo bellico (si calcola che in Francia tra il 1800 e il 1814 siano state mobilitate ben due milioni di persone) in quanto facenti parte di un unico corpus nazionale. È nella guerra di leva che gli ideali rivoluzionari si incarnano storicamente, stravolgendo il modo stesso di condurre la guerra, come le campagne napoleoniche dimostreranno bene. 

L’azione esterna dello Stato, perdendo progressivamente all’interno il significato storico su cui era fondato (l‘ancien regime), giunge a determinare così il suo ordinamento interno, donando una forma concreta e una escatologia ai principi universali e laici repubblicani. Non è certo un caso che alla lotta che per più di vent’anni contrappose la Francia alle innumerevoli coalizioni di teste coronate si accompagnasse all’interno con i regimi più sanguinari o i cesarismi più disparati: la Repubblica per sua natura (in quanto fondata su principi universali) poteva esistere, acquistare reale consistenza, solo nello scontro con qualcos’altro percepito opposto da sé. O dall’altra parte implodere nella guerra civile, e mostrarsi così chiaramente per quello che era: una diversa forma di assolutismo. 

Da allora molto è cambiato nel panorama europeo, ad essere stravolta è oggi la costituzione stessa dello Stato: il suo diritto a fare la guerra, a livello internazionale, e la sovrana facoltà di emettere moneta, a livello interno. Due ambiti statuali per eccellenza vengono strappati all’assoluto imperio statale in un modo che fino a settant’anni fa era impensabile, e nonostante ciò si può affermare comunque che lo Stato persista come forma e che tra gli Stati europei la Francia lo sia, ancora, per definizione. La Francia rimane di fatto l’unica potenza europea con un peso diplomatico non indifferente e con un esercito di proiezione globale, oltre a possedere una burocrazia ed un corpo diplomatico ampio ed efficiente, incarnazione perfetta dell’Etat. Lo Stato francese si mantiene ancora, molto di più che in tutta Europa, come centro di gravità della propria teologia politica. La Francia dunque possiede tutto quello che di necessario esiste per una efficace ed incisiva azione internazionale, la sua stessa struttura tradisce questa tensione alla dimensione esterna per gli stessi motivi che duecento anni fa animavano la prima Repubblica. Senonché oggi il mondo è molto più grande della Francia, e fatalmente più simile ad essa di quanto non sia mai stato. 

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Roma, Aprile 2024. XVII Martedì di Dissipatio

Non si può certo negare infatti che quei principi universali su cui si fonda la teologia politica transalpina non abbiano assunto una dimensione superiore rispetto al piccolo spazio francese, ma proprio per la loro dimensione globale non si può imputare il passaggio all’Esagono, troppo debole per una proiezione tale e la cui esistenza rimane nonostante tutto ancorata all’Europa. Solo ad un’isola è possibile attribuire un simile avvenimento, e in particolare a quell’“isola continentale” rappresentata dagli Stati Uniti. Essi, vincendo la guerra, hanno anche vinto lo stesso concetto di Moderno, e di conseguenza d’Occidente, includendo nella linea “d’isolamento” del loro emisfero occidentale tutta Europa. Gli ideali rivoluzionari francesi si diluiscono così in quelli americani e la dimensione esterna in cui lo Stato francese agiva partendo sempre dalle sue proprie premesse universali diventa già di per sé universalizzata. Quel rapporto conflittuale tra democrazie e autoritarismi (declinazione dello scontro tra repubbliche e monarchie) si assolutizza e cristallizza sin nelle norme internazionali; un rapporto la cui giustificazione, legittimità e fondamento ideale fa però inevitabilmente capo ad un altro Stato. L’azione internazionale francese viene così a ritrovarsi in balia di una legittimità che non proviene più da sé stessa, come la crisi del 1956 mostrò bene e come il resto d’Europa scoprirà poi. La fondatezza morale della teologia politica francese viene a trovarsi già al di fuori dello stesso Stato francese, sterilizzandone la proiezione. I diritti dell’uomo, l’autodeterminazione dei popoli, il libero mercato e il costituzionalismo democratico sono già in sé parametri di discrimine universale, un discrimine che è monopolio del giudizio americano sin dalle sue origini, implicito sin nella dottrina Monroe (1823). 

Caduta la tensione esterna che si accompagna da sempre alla Repubblica, e in generale a tutte le democrazie, su cosa fondare dunque l’ordinamento interno? Sopratutto alla luce del fatto che esso proviene dall’esterno in un moto contrario e opposto: sono i principi del diritto internazionale e lo stesso concetto di Occidente che si impongono sulla realtà statuale, che ne determinano la costituzione e la traiettoria. I principi universali della Repubblica, stando così le cose, non possono creare nello spazio alcun ordinamento che non venga dall’esterno, e non possono agire internazionalmente senza ricalcare le forme dell’Occidente. 

La Repubblica è infine privata di qualsiasi scopo storico proprio, la potenza di quel serbatoio di forze storiche che la conducevano sempre fuori di sé annullata, e così anche la legittimità interna dei più disparati cesarismi e regimi, compreso lo Stato. Sul piano interno dunque ecco che si mostra in tutta la sua nudità lo Stato nella forma più burocratizzata ed organizzativa, un Leviatano contro cui si rivolgono gli stessi ideali repubblicani e le più diverse forze sociali, che agiscono grazie, e a causa, del nulla storico in cui lo Stato francese stesso si è costretto fondandosi su principi universali. Certo, lo Stato rimane ancora come soggetto internazionale imprescindibile e ogni sua azione è comunque ricondotta ad un interesse peculiare, ma per quanto riguarda lo Stato (culturalmente e geograficamente) europeo questa azione è priva di un senso storico, di una visione che la giustifichi oltre al mero interesse nazionale (che d’altronde ha perso ogni legame con la collettività), di una idea politica particolare di cui è svuotato nei confronti del più ampio Occidente.

Contro lo Stato, o l’idea di Stato che è propria della Francia (e dunque dell’Europa), agisce lo stesso ordinamento internazionale che si fonda, d’altra parte, sull’idea americana di Stato liberale, in cui la sfera etico-economica è ritenuta superiore a quella politica in quanto antecedente alla stessa costituzione politica. In questo punto divergono perciò le due Rivoluzioni.

Il fatto che nell’Esagono ciclicamente avvengano rivolte è il segno in effetti della presenza di un vero Stato (ed è anche per questo probabilmente che in Italia non succede niente di tutto ciò), la cui legittimità proviene però solo dalla sua immanenza. Lo Stato francese tradisce così quotidianamente, in modo molto più visibile, gli ideali repubblicani su cui in teoria si fonda, ma che non può far valere perché infine sottratti alla sua decisione e alla sua azione. Subendo dall’altra parte il loro influsso esterno che arriva ad erodere il dominio dello Stato stesso e la sua classica pretesa monopolistica, ovvero quella di ricomprendere tutti i rapporti politici in una unità politica più ampia. Da cui il tasso di astensione record, la crisi della democrazia rappresentativa (emblematica in questo senso la posizione giustificatoria di Melenchon e France Insoumise sulle violenze) e la crisi di legittimità dei sindaci.

Per uscire da questa spirale (che quantomeno certifica la presenza effettiva di uno Stato) l’unico modo sembra quello di ricercare un diverso criterio di amicizia-inimicizia internazionale, ma ciò non può essere fatto senza minare alla base ciò che resta della teologia politica francese, il mito stesso del laicismo repubblicano, e dunque della stessa statualità. È senza dubbio fondamentale per l’Esagono una nuova auto-fondazione, un nuovo ordinamento interno. La Francia in questa chiave è l’esempio più estremo di una situazione generale (in quanto Stato) a cui non può mai essere ricondotta facilmente, perlomeno nei confronti degli Stati Uniti, la cui possibilità di isolamento, oltre a far parte della storia del pensiero americano, è sempre possibile (seppur prevedibilmente in modo traumatico) data la natura da “isola continentale”. Il destino delle due sorelle repubblicane (e dell’Europa) si biforca così nella loro diversa natura, terranea e marittima. E con essa il destino dell’Occidente.

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