Le reazioni del mondo ai recenti tragici avvenimenti del conflitto Russia-Ucraina e della guerra israelo-palestinese inducono a compiere alcune riflessioni sul mutamento della scena geopolitica internazionale. Bisogna porsi alcuni interrogativi necessari. È proprio vero che l’uomo considera la libertà il bene più prezioso di cui si possa godere? Oppure questa affermazione ha solamente un valore politico-cerimoniale? C’è ancora la consapevolezza che la libertà è stata il motore del progresso umano ed è alla base della crescita civile degli individui? O piuttosto è un bene di cui beneficiamo senza renderci conto della sua preziosità? Tali interrogativi sono necessari per comprendere per quale motivo gli Stati fondati sulle libertà dei cittadini e sul pluralismo politico, cioè quelli così detti “occidentali”, negli ultimi anni stiano incorrendo in serie difficoltà, non solo nel rapportarsi con il resto del mondo, ma anche nel funzionamento delle loro istituzioni politiche e sociali.
Alla fine del Novecento ci fu la diffusa illusione che, con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, nel mondo sarebbe “scoppiata” una sorta di pace “augustea”. In quegli anni era quasi plebiscitaria l’opinione che l’allargamento dei mercati e la diffusione del sistema capitalista avrebbero procurato al mondo un generale aumento di benessere economico e di libertà. Proprio nel 1991 con la dissoluzione della Jugoslavia scoppiò una guerra in seno all’Europa. Gli Accordi di Dayton, concepiti più come un cessate il fuoco che come una garanzia di stabilità duratura, hanno creato un sistema istituzionale asimmetrico e complesso. La comunità internazionale, rappresentata dall’Ufficio dell’Alto Rappresentante, continua a monitorare il processo di pace.
Tuttavia, il sistema di rappresentanza etnico-nazionale, sebbene mirato a garantire una pace fragile, perpetua la supremazia dei partiti nazionalisti su quelli civici, limitando il potere dello Stato centrale e alimentando una rivalsa etnonazionalista. Il potere politico è suddiviso tra i tre popoli costituenti (bosgnacchi, croati e serbi): la Presidenza e la Camera dei Popoli vengono eletti secondo la suddivisione delle due entità principali, la Federazione di Bosnia ed Erzegovina e la Republika Srpska. Per quanto concerne la Bosnia-Erzegovina, la questione risulta molto più complessa. Nel 2016, il referendum sul Giorno della Republika Srpska ha rappresentato uno spartiacque, segnando un’escalation delle tensioni politiche. Il negazionismo, reso reato, e il boicottaggio delle istituzioni centrali da parte di Milorad Dodik, leader serbo-bosniaco, hanno ulteriormente polarizzato la situazione. La mancanza di una memoria collettiva sui fatti della guerra, unita alla manipolazione politica della narrazione etnica, ha impedito lo sviluppo di un’identità civica nazionale, contribuendo al perpetuarsi della crisi. Altro tema fondamentale è quello nazionalismo in Bosnia-Erzegovina. La retorica nazionalista, per essere efficace, necessita costantemente di un “altro” con cui confrontarsi e da cui differenziarsi. Questo ha portato a una situazione in cui ogni gruppo etnico cerca di monopolizzare il potere politico all’interno del proprio gruppo, impedendo riforme necessarie per un federalismo più funzionale e una migliore amministrazione. L’esempio del caso Sejdic-Finci v Bosnia-Herzegovina evidenzia i limiti della costituzione attuale, che richiede riforme per risolvere i problemi strutturali del sistema.
A distanza di trent’anni lo Stato della Bosnia-Erzegovina si presenta ancora come una vera e propria polveriera pronta ad esplodere. Questa zona, a partire dal Medioevo sino alla contemporaneità, si è sempre connotata per una forte instabilità, che si è andata accentuando nel 1990 con lo scioglimento della Jugoslavia e nel 1991 con lo scoppio della guerra balcanica. Alla base del conflitto c’è soprattutto una instabilità politica, economica e sociale, che portò alla formazione di movimenti nazionalisti. Il dirigente della Lega dei Comunisti di Serbia, Slobodan Milošević, fu molto abile a manovrare tali movimenti facendo leva sull’idea di una Grande Serbia. Milošević, per ottenere ciò che voleva, utilizzò le frange violente delle tifoserie da stadio organizzate in milizie paramilitari, l’Esercito regolare della Jugoslavia socialista (l’Esercito Popolare Jugoslavo, JNA) e i dirigenti serbi dell’Alleanza Socialista di Jugoslavia (comunisti jugoslavi). Nel frattempo nel giugno 1991 promosse prima la guerra in Slovenia e poi la guerra in Croazia, cercando di fare in tutti i modi e in tutti i sensi “terra bruciata”. La Bosnia ed Erzegovina fu coinvolta involontariamente in tale furia bellica per vari motivi e a vari titoli. La guerra divampò subito dopo il referendum sull’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina dalla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e la conseguente dichiarazione di indipendenza. Gli attori principali del conflitto furono le forze armate della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina e delle formazioni militari delle autoproclamate Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e Repubblica Croata dell’Erzeg-Bosnia. Al conflitto parteciparono anche formazioni paramilitari, e in esso furono coinvolti anche la forza di protezione delle Nazioni Unite UNPROFOR e la NATO. Durante la guerra furono commessi molteplici crimini di guerra e atroci massacri nell’ambito di vere e proprie operazioni di pulizia etnica. Alla sua fine diede un contributo la NATO con una decisa azione militare aerea repressiva, denominata Operazione Deliberate Force, che indusse le forze serbe ad accettare la cessazione delle ostilità e partecipare alle trattative di pace a Dayton. Arriva ora la pace di Dayton.
Gli accordi furono firmati nel novembre del 1995 dai presidenti Alija Izetbegovic per la Bosnia-Erzegovina, Franjo Tuđman per la Croazia e Slobodan Milošević per la Repubblica Federale Jugoslava. Così si cristallizzò il fronte di guerra, e questo lo si evince chiaramente esaminando una cartina politica della Bosnia-Erzegovina.
La maggioranza è composta dalla Republika Srpska, poi abbiamo la Federazione di Bosnia-Erzegovina suddivisa in dieci cantoni. I cantoni sono organizzati in dieci governi autonomi, mentre la Republika Srpska funziona come un vero e proprio stato. Con gli accordi di Dayton si stabilì che la comunità internazionale fosse sempre presente all’interno dello stato con l’instaurazione dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante. Tale figura ha il compito di monitorare il processo di pace ed eventuali violazioni degli accordi di Dayton. Tali accordi consegnano alla Bosnia-Erzegovina un complesso sistema di rappresentanza etnico-nazionale, che spesso va a contraddire sé stesso e i propri principi. Gli accordi avevano previsto la rappresentanza dei tre popoli costituenti bosniakitia (bosniaco-musulmani), i serbi e i croati. Ogni gruppo elegge un presidente, dunque quella della Bosnia-Erzegovina è una presidenza tripartita, dove ogni otto mesi uno dei tre ricopre come primus inter pares la carica di presidente, garantendo così un’eguale rappresentanza delle tre componenti dello stato. Gli accordi di Dayton indirettamente andarono però a sancire la supremazia dei partiti nazionalistici su quelli civici. In tal modo la rappresentanza non è mai civica e trasversale, ma sempre etnica. Il potere politico è sempre inteso come espressione dei tre popoli costituenti. La presidenza e la Camera dei popoli sono eletti secondo la suddivisione delle due entità: dieci cantoni e Republika Srpska. Gli accordi di Dayton sono una continuazione delle teorie di pulizia etnica portate avanti durante la guerra.
Tutto ciò ha condotto il paese in questi ultimi anni ad una fortissima instabilità e crisi istituzionale. Quest’ultima è iniziata a fine luglio 2021, quando l’Alto Rappresentante impose un emendamento ai bosniaci, il quale puniva il negazionismo del genocidio di Serebrenica, ove nel 1995 vennero massacrati più di 8000 musulmani-bosniaci in età militare. Il rappresentante serbo-bosniaco, Milorad Dodik, da questo momento ha iniziato a boicottare le istituzioni centrale dello Stato della Bosnia-Erzegovina. Una delle minacce è quella di ritirare l’esercito serbo-bosniaco e andare a costituire un proprio esercito, così proprio come era successo con lo scoppio della guerra. Tali minacce hanno allertato la Comunità internazionale. A ciò va aggiunto che nel 2016 si decise di istituire un giorno per la Republika Srpska. Ciò si fece attraverso un referendum, poi definito incostituzionale. Il giorno scelto fu il 9 gennaio, stesso giorno, non a caso, che nel 1992 portò alla creazione della Republika Srpska.e allo scoppio della guerra. L’incostituzionalità sta nel fatto che venne scelto il giorno di Santo Stefano. Tale giorno, per costituzione, proprio stando agli accordi di Dayton, non poteva essere stabilito. Dal 2016 in poi le istituzioni locali serbo-bosniache sono sempre più attrito con quelle nazionali. Ad oggi non risulta esserci un punto di svolta e nessuna delle due entità è pronta a fare un passo indietro.
A tutto ciò si aggiunga un ulteriore elemento di instabilità cavalcato dai governi nazionalisti a proprio piacimento: l’immigrazione. I Balcani occidentali sono situati al centro dell’Europa e sono geograficamente circondati dagli Stati membri dell’Unione Europea. Quei territori, geograficamente parlando, risultano strategici e un importante polo di transito. Questo fa di essi uno dei principali corridoi per i migranti diretti verso l’Unione. Con il termine “rotta dei Balcani occidentali” ci si riferisce agli arrivi irregolari mediante la regione composta da: Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia. Bisogna dire che tale rotta (La rotta dei Balcani occidentali) per chi proviene dall’Asia Minore e dal Nord Africa è da considerarsi via d’accesso principale all’Europa. Il picco migratorio passante per questa via si è avuto nel 2015. Andando avanti con gli anni è andato diminuendo, anche a causa dello sbarramento voluto, su richiesta dell’Unione, dalla Turchia di Erdogan. Tuttavia, dal 2019 ha ricominciato ad aumentare e alcuni governi sovranisti, come quello Serbo, hanno utilizzato la scusa migratoria per accollare le colpe della precaria situazione economica.
Ora c’è da chiedersi cosa l’Europa stia facendo in merito. Tutti i paesi dell’ex Jugoslavia hanno concluso con l’Unione Europea un accordo di stabilizzazione e di associazione che definisce il quadro generale delle rispettive relazioni con l’UE.
L’Unione, da parte sua, ha adottato e continua ad adottare ha adottato una serie di misure, che potremmo definire contenitive, per affrontare la situazione migratoria lungo la rotta balcanica. Il 5 dicembre 2022 la Commissione europea ha presentato un piano d’azione dell’UE per i Balcani occidentali. Il piano individua una serie di misure operative per rafforzare il partenariato con i Balcani occidentali, alla luce del loro status unico nella prospettiva di adesione all’UE e dei loro continui sforzi di allineamento alle norme dell’Unione. Questa attraverso lo strumento di assistenza preadesione (IPA) fornisce agli stati in questione assistenza finanziaria e tecnica per sopperire all’emergenza migratoria. Tra il 2021 e il 2022 l’UE ha sostenuto azioni connesse alla migrazione nella regione nell’ambito dell’IPA III per un valore totale di 201,7 milioni di euro.
La realtà è però differente. Per i migranti bloccati in quelle zone, in particolare in Serbia, si tratta di un vero inferno, a volte un limbo. Due principali zone di smistamento sono quelle di Sid e di Bogovadja. Qui, nei campi governativi, vengono fatti aspettare pezzi di umanità varia. C’è da dire che i campi sono ben gestiti dal Programma comunitario, Serbia e Caritas Italiana e Ipsia (ONg delle Acli), ma i tempi di attesa per un visto sono infiniti. Per far comprendere lo stato d’animo di quelle persone ecco le parole di Gianluca Artoni in un reportage dal titolo Solidarietà, oltre il muro d’Europa pubblicato in Osservatorio Balcani e Caucaso il 22 gennaio 2018: «Sembravano le stesse facce che avevo incontrato ormai 20 anni fa nei campi profughi croati subito dopo la guerra. Abbiamo distribuito alcune merende per bambini e portato dei vestiti, ma sopratutto è stato gettato un ponte. Con Nevena, una dei responsabili del campo, umanissima e disponibile, si intravede la possibilità di fare attività di animazione per bambini….». Chi riesce scappa attraverso i boschi cercando di raggiungere la tanto desiderata Europa.
Secondo i dati riportati negli ultimi Europe Monthly Report di UNHCR inerenti a settembre e ottobre 2019:
In particolare, tra gennaio e novembre 2019, Bosnia ed Erzegovina, Albania e Montenegro hanno visto un aumento degli arrivi complessivi pari al 28% rispetto allo stesso periodo del 2018. Secondo i dati resi noti da Save the Children nel rapporto trimestrale relativo al periodo aprile-giugno 2019, un terzo dei rifugiati e migranti in transito nei Balcani è rappresentato da minori non accompagnati. Le statistiche sono poi andate diminuendo durante il periodo Covid, ma hanno ripreso a salire già dal 2021 per avere un picco nel 2023, il 36% in più rispetto al 2018. Un dato molto rilevante, soprattutto se si prendono in considerazione le politiche europee a supporto di quegli stati.
Dunque, quella balcanica è una situazione di profonda instabilità, quella della politica interna e quella esterna. A ciò si deve però aggiungere un terzo fattore di rischio, quello del profondo odio tra le nuove generazioni delle diverse etnie. Questi ragazzi pur non avendo vissuto quella realtà e quelle atrocità raccontano gli episodi bellici come se li avessero vissuti in prima persona. Le ferite e le spaccature all’interno di quelle famiglie sono ancora vive. I serbi non vogliono accettare questa riduzione del loro territorio imposta dall’alto, la quale vede offuscata la loro “grandezza” e ancora sognano una “Grande Serbia”, mentre i popoli invasi non riescono ancora a perdonare le atrocità subite. Questo in soldoni, l’unica soluzione rimane il dialogo costruttivo. Il dialogo per scongiurare la guerra.