Tra le tante letture date del conflitto ucraino, ce n’è una che va di gran moda. È quella, definiamola storicista, di chi paragona lo scontro tra il Golia russo e il Davide suo vicino alla Seconda Guerra Mondiale. Mosca sarebbe il centro nevralgico di un altro Reich Millenario, quel Russk’ij Mir da tempo al centro delle ambizioni del Cremlino; Kiev, per contro, interpreterebbe la parte di solitario baluardo della libertà contro la tirannia dilagante che all’epoca fu della Londra assediata. Ne consegue naturalmente che Putin debba essere la reincarnazione del germanico Fürher — Internet gli ha subito affibbiato lo stridente nomignolo Putler — ed il suo omologo Zelensky un redivivo Winston Churchill, autorevole leader e roccia del suo popolo.
In questo mosaico dai toni hollywoodiani abbiamo riservato per noi stessi il modesto ruolo dell’arsenale democratico, in precedenza appartenuto agli Stati Uniti. Lontani eppure mai così vicini, tanto ricchi quanto riluttanti, ma nondimeno partecipi, emotivamente e materialmente, del dramma straniero: autoreferenzialità del casting a parte, va riconosciuta una superficiale somiglianza. Superficiale, appunto; perché se fin da subito l’America dei primissimi Anni ’40 si mise a disposizione dell’ex madrepatria (e poi, grande ironia, della Russia sovietica), noi abbiamo esitato. Azzoppata dalla dipendenza energetica e da un’inflazione galoppante, l’Europa si è presentata all’appuntamento con la Storia impreparata e in ritardo. Colpa degli appeasers, si dice nei salotti buoni rievocando il tragico Neville Chamberlain; pacifisti scaduti e quinte colonne senza le quali si sarebbe riusciti a dare una risposta compatta all’aggressione neozarista.
Può darsi che tale teoria abbia del merito. Dopo il summit tenutosi nella capitale ucraina un paio di settimane fa, l’UE sembra aver abbandonato le sue iniziali riserve in favore di una posizione netta: supporto pieno ed incondizionato al Paese invaso — nonché alla sua candidatura a membro dell’Unione, confermata da pochi giorni — e ferma condanna della guerra. Salta così il fronte della trattativa; è festa grande soprattutto in Italia, dove esso rimane comunque trasversale e attivo. Ma proprio il Bel Paese, eterno ventre molle di questo continente sempre più sgangherato, esemplifica alla perfezione tutte le contraddizioni e le criticità di una linea politica votata all’istrionismo patologico. Ai fiumi di retorica riversati nelle aule del Parlamento e sulle pagine dei giornali non hanno fatto da corredo quelle considerazioni pragmatiche che pure sarebbe lecito aspettarsi a fronte della non banale decisione di impegnarsi in un confronto armato con una potenza nucleare.
Nessuno, a Roma come a Bruxelles, Berlino e, in misura minore, Parigi, si è ancora cimentato nel delineare i nostri obiettivi politici o la strategia da attuare per raggiungerli. Alle Camere Mario Draghi si è limitato a parlare di una generica responsabilità di difendere l’Ucraina: bisogna tenere la barra dritta e proseguire con armi e sanzioni, ha spiegato il Premier. Come s’intenda dar seguito a questo (legittimo) proposito non è però dato sapere. Sulla composizione dei nostri aiuti militari rimane il segreto di Stato, così come sull’entità delle scorte cui stiamo attingendo per fornirli; aldilà della mancanza di trasparenza, solo in parte giustificabile, lascia interdetti il fatto che dal Governo non sia arrivata alcuna rassicurazione in merito all’impatto degli invii sulla prontezza operativa delle Forze Armate e in particolare dell’Esercito, perenne ultima ruota del carro nell’assegnazione dei fondi della Difesa.
Similmente assente qualsivoglia accenno ad un piano con cui venire incontro nell’immediato alle accresciute necessità del settore. La consapevolezza che questa sia destinata ad essere una guerra lunga ed intensa pare aver fatto breccia presso l’opinione pubblica; meno a Palazzo Chigi, dove non risulta siano allo studio nuove acquisizioni di armamenti o iniziative a sostegno dell’industria bellica. Un ulteriore indizio del lassismo intorno alla questione lo si può individuare nel silenzio del Ministero dell’Economia. Le armi, specie nelle quantità richieste sul fronte ucraino, costano, e di denaro da spendere ce n’è al momento assai poco: con la svalutazione monetaria ben oltre i livelli di guardia e la BCE costretta di conseguenza ad innalzare i tassi d’interesse, un incremento così repentino del deficit sarebbe a dir poco controproducente. Non a caso anche la decisione di adeguare il nostro budget militare allo standard NATO (2% del PIL) verrà implementata appieno soltanto nel 2026; in mancanza di coperture sufficienti, l’unica soluzione possibile è distribuire la spesa su un arco di tempo che però stride con l’asserita urgenza del riarmo.
La sola certezza, lo si è detto, è che il bagno di sangue continuerà per i mesi a venire. E che sarà costoso: l’esplosione del prezzo delle forniture di gas, corrente e carburanti, unito al pesantissimo contraccolpo di una gestione pandemica ovunque poco attenta alla tutela delle finanze pubbliche, stanno mettendo a dura prova un elettorato già stremato da due anni di emergenza pressoché ininterrotta. Che il già scarso consenso alla linea oltranzista sposata da questo esecutivo possa infine scemare del tutto è una possibilità concreta, come concreta è la questione di tenuta della maggioranza che tale stato di cose inevitabilmente pone. Eppure, fatti salvi gli strepitii di un Movimento Cinque Stelle ormai al tramonto essa è quasi del tutto fuori dal dibattito politico, in Aula o sulla stampa; perlopiù si fa finta di nulla, affidandosi al pilota automatico in attesa di un voto in cui molti contano di usare l’inedita situazione internazionale a mo’ di clava contro gli avversari.
Nel complesso, più che gli USA di Roosevelt sembriamo ricordare la Francia di Daladier, e potrebbe presto arrivare un Reynaud nostrano a sostituirlo; paragone assai meno lusinghiero degli altri fatti finora, ma che alla luce dei fatti riesce impossibile non fare. Soprattutto, è difficile allontanare la sensazione di essere finiti come allora nel vicolo cieco della drôle de guerre. A centoventotto giorni dall’inizio delle ostilità continua a mancare una visione di fondo: cosa vogliamo ottenere? Quali sono i nostri obiettivi concreti nel breve, medio e lungo periodo? Accantonati i triti sofismi sulla “preservazione dell’ordine liberale”, fin troppo spesso l’ingrato compito di rispondere a questi interrogativi fondamentali ricade su Zelensky, il quale però pare afflitto dalla nostra stessa, atavica, indecisione. Ripristinare i confini del 24 febbraio o spingersi oltre e riprendersi le aree occupate dai russi nel 2014; il presidente ucraino, ridotto suo malgrado a novello Amleto in quella che è senza dubbio la prova più ardua della propria carriera attoriale, oscilla costantemente tra queste due opzioni, incerto su quale scegliere.
Il risultato è una confusione tattica dai riverberi drammatici. Battuto a Severodonetsk, in queste ore l’esercito ucraino in ritirata ha abbandonato Lysichansk senza combattere: un colpo pesantissimo per il morale delle unità di prima linea, decimate da perdite nell’ordine di centinaia di morti al giorno. Tocca perlopiù a coscritti inesperti e miliziani della Difesa Territoriale riempire gli enormi vuoti creati dalla soverchiante superiorità materiale russa. La sperequazione di forze è sempre più evidente, e l’attendismo occidentale — dettato, va ammesso, anche da serie problematiche logistiche — rischia di renderla insormontabile. Non aiuta poi il fatto che i vertici militari di Kiev rimangano ad oggi inalterati nonostante la loro chiara inadeguatezza. In epoche ancora recenti, uno Stato Maggiore che avesse assistito inerte alla conquista di un quinto del territorio nazionale da parte di un invasore sarebbe stato messo alla porta, se non al muro; invece i generali rimangono al proprio posto, e insieme a loro il Ministro della Difesa, la cui amicizia con Zelensky lo ha per ora schermato da qualsiasi provvedimento.
Di queste criticità, alcune scontate, altre gravissime, non si dà né si chiede conto. Le principali testate sono appiattite su posizioni acriticamente filoucraine: pochissimo spazio viene lasciato ad analisi più equilibrate, complice anche il timore che i loro autori possano vedersi tacciati di stare dalla parte di Putin. Si perpetuano così il meccanismo censorio emerso con la pandemia e il conformismo narcisista che lo anima. Ma gli eleganti esercizi di onanismo dati alle stampe ogni giorno vanno a discapito della causa ucraina che vorrebbero perorare, nonché di una discussione pubblica la quale, visti i temi affrontati, richiederebbe onestà e raziocinio. Quanto alla politica, il rifiuto di agire è parimenti in diretta continuità col periodo dell’emergenza sanitaria; il medesimo abuso sistematico della delega che ha caratterizzato la tarda parte di questa legislatura si ripropone ora in chiave bellica, con gli ucraini chiamati a portare avanti un’agenda militare irrealizzabile nel disinteresse generale.
L’indifferenza delle classi dirigenti dell’Ovest rispetto all’effettiva conduzione di questa guerra denota su tutto un’impressionante superficialità nell’approcciarsi agli affari internazionali, conflitti inclusi. E rivela un fatto inconfessabile: in fondo, di come davvero andrà a finire in Ucraina, non ci importa. Vittoria o sconfitta, entrambi vanno bene purché si riescano a salvare la faccia e i lucrosi rapporti commerciali con la Russia, aspettando che a Kiev capiscano l’antifona e aprano da sé un negoziato. Ne nascerà una pace monca, foriera di altre carneficine. Noi saremo di nuovo sorpresi, titubanti, indisposti; e di nuovo non ci resterà che vincere, alla maniera sordida che conosciamo.