OGGETTO: Come stiamo perdendo l’Africa
DATA: 29 Gennaio 2025
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Africa
Il golpe militare in Niger non è che l’ultimo colpo di scena nella grande partita africana tra l’Oriente e l’Occidente. Che ora si scopre in svantaggio.
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Pubblicato il 6 agosto 2023

Tre piani, stile colonico, la facciata sobria ma non per questo priva di una sua eleganza; non fosse per il tricolore d’ordinanza sarebbe indistinguibile da una residenza privata di lusso. E invece, complici il filo spinato e le sbarre alle finestre, l’ambasciata di Francia nella capitale nigerina Niamey ha finito per somigliare ad una prigione. Suoi sfortunati inquilini erano fino a poche ore fa i diplomatici della legazione transalpina; a far loro da carcerieri qualche migliaio di persone, riversatesi inferocite attorno al piccolo compound. Così la gente ha reagito al collasso del governo di Mohamed Bazoum, rovesciato qualche giorno fa da un improvviso colpo di Stato militare: con rabbia, frustrazione, e un senso di rivalsa ben riassunto dal grido «Abbasso la Francia! Viva Putin!» a più riprese scandito dagli astanti. Pur coi dovuti distinguo, viene difficile non ripensare al caos afghano di due anni fa, se non per l’andamento dei disordini, fortunatamente incruenti, senza dubbio per il loro significato: l’Eliseo — e forse l’Europa tutta — hanno avuto la loro Kabul.

D’altronde, quella francese in Niger era una presenza molto più che ventennale; strappato alla concorrenza degli esploratori anglo-tedeschi durante la famigerata conferenza di Berlino del 1885, da allora il territorio del moderno Paese africano (indipendente dal 1960) è uno dei tanti cortili oltremare della Marianna. Che conta di tornarvi a brevissimo: Parigi sembra infatti intenta ad unirsi all’ultimatum della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale, in inglese ECOWAS, dichiaratasi pronta ad intervenire qualora i golpisti dovessero rifiutarsi di fare un passo indietro. La giunta militare nigerina ha per contro incassato il sostegno dei vicini Mali e Burkina Faso, recentemente interessati da analoghe rivolte pretoriane; chiarita dopo un’iniziale incertezza anche la posizione dell’Algeria, il cui ministero degli Esteri si è affrettato a smentire le voci circolate in merito ad un potenziale sostegno in favore degli ufficiali ribelli, e della Federazione Russa, da dove il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov auspica laconico «il ripristino della legalità».

La tensione resta comunque altissima; e mentre Bruxelles medita una (improbabile) risposta UE, nel Vecchio Continente si torna a parlare dei nostri dirimpettai. Passata d’improvviso la sbornia bellica, sui giornali il sorpreso allarmismo — «In Niger è in gioco la sicurezza europea», scrive  senza giri di parole La Repubblica — fa il paio con le analisi delle Cassandre di turno: finalmente degnati di ascolto, gli africanisti ricordano ai distratti che quello nigerino è soltanto l’ultimo scossone in un’area non a caso soprannominata Coup Belt, la “cintura dei golpe”. Due putsch ciascuno nei citati Mali e Burkina Faso, altrettanti in Sudan, uno in Guinea Bissau, nella Guinea Conakry e in Chad; nello stesso Niger una sollevazione era stata repressa già nel 2021. Tutto nell’arco degli ultimi tre anni, a riprova dell’incredibile instabilità di una regione troppo a lungo trascurata dalle nazioni occidentali, ora costrette loro malgrado a fare i conti col declino della propria influenza nei rispettivi ex imperi e con la speculare ascesa degli avversari sino-russi.

Non è un segreto che Mosca, e ancor più Pechino, guardino all’Africa come ad una gigantesca crepa nell’egemonia globale dell’Ovest, con ambedue da tempo impegnate a farne una vera e propria spaccatura. L’impressione è che vi stiano riuscendo, forti tra le altre cose di una retorica anti-colonialista abilmente traslata nel ventunesimo secolo e che, non da ultimo in virtù del persistente lascito ideologico della contesa tra i blocchi, sta riscuotendo parecchio consenso anche su queste sponde. Accanto ad un inedito complottismo di stampo liberal, ormai propenso a vedere lo zampino del Gruppo Wagner ovunque (sottolineiamo che al momento i mercenari di Yevgheny Prighozin non sono presenti in Niger, e il golpe pare sia dovuto a dissidi intestini tra esecutivo e forze armate), in Italia la lettura liberazionista incontra simpatie trasversali dentro e fuori dal Parlamento: l’ennesima débâcle francese nel Continente Nero, e contestualmente l’avanzarvi delle potenze orientali, sarebbero secondo taluni il preludio ad un definitivo risveglio panafricano.

Se è innegabile che di rado l’avvento della decolonizzazione abbia coinciso con l’effettiva fine del subordine di numerosi Stati africani nei confronti dei loro ex dominatori, altrettanto non si può non essere scettici di fronte allo sbandierato filantropismo di Russia e Cina. In particolare quest’ultima sembra avviata a replicare in alcune zone dell’Africa le medesime dinamiche di dipendenza contro le quali si scaglia a parole; preoccupano la scarsa attenzione alle condizioni della manodopera, il progressivo assorbimento dell’industria mineraria di Paesi quali la Repubblica Democratica del Congo e lo Zimbabwe, e l’inflessibilità in ambito creditizio. Al contrario, la strategia russa è di carattere perlopiù militare: povera di mezzi, la Federazione fa leva sull’importante contributo dato alla lotta al jihadismo internazionale per presentarsi come partner affidabile in materia di sicurezza a discapito degli Stati Uniti e dei loro alleati, che ancora scontano il danno d’immagine derivante dai disastrosi interventi in Medio Oriente e nell’Asia Centrale.

Dalla padella alla brace, verrebbe da dire con amaro sarcasmo. Rimane il fatto che in Africa la penetrazione economico-militare degli attori revisionisti prosegue indisturbata: perché? È certamente plausibile che il fenomeno sia da ricondurre in buona parte alle ansie, più e meno legittime, delle classi dirigenti locali, o alla loro proverbiale cupidigia; tuttavia, questa ratio si può applicare pressoché identica anche alla pluridecennale ingerenza dell’Occidente, senza che essa riesca a spiegare la rinnovata infatuazione per l’orso ed il dragone delle moderne leadership africane. La radice del cambiamento va allora ricercata non tanto nella natura dei benefici offerti, quanto nelle condizioni imposte per accedervi. A fare affari coi russi si rischia l’isolamento, a farli coi cinesi di ritrovarsi ostaggio degli strozzini di Stato; ma né gli uni né gli altri si interessano — per ora — dell’assetto interno dei propri interlocutori, le cui velleità autoritarie e l’enfasi sulla regime stability che ne deriva li rendono anzi assai malleabili.

Si tratta di un approccio diametralmente opposto a quello euro-americano, imperniato da almeno trent’anni sull’equivalenza popperiana tra democrazia e sviluppo. L’uno non può prescindere dall’altra; ecco dunque che i programmi occidentali di aiuto, anche militare, sono con sempre maggior frequenza vincolati all’attuazione di sostanziali riforme istituzionali e legislative, nonché alla liberalizzazione del mercato. Per molti regimi ciò equivarrebbe ad auto-sabotarsi: la distribuzione del potere cozzerebbe non solo con la struttura verticale connaturata alle dittature, specie di origine militare o rivoluzionaria, ma anche con i fragili equilibri etnico-tribali tipici dello Stato post-coloniale africano, mentre l’apertura commerciale imporrebbe di rinunciare alle reti clientelari e all’autarchismo nazionalista che costituiscono spessissimo le uniche vere fonti di consenso di tali sistemi autocratici. Meglio piuttosto rivolgersi a soggetti che, sebbene a condizioni nel complesso peggiori, promettono di lasciare inalterate le architetture politiche esistenti.

L’evidente attrattiva esercitata in Africa e altrove da questo modello d’interazione non-ideologico è destinata a sopravvivere ad una eventuale normalizzazione della crisi nigerina, tanto più che essa dovrà con ogni probabilità passare dal ricorso alla forza; alla prospettiva immediata di un imprevedibile conflitto su scala sub-regionale si aggiunge così quella a medio e lungo termine di un ulteriore acuirsi dell’ostilità anti-occidentale in tutto il continente. Una situazione lose-lose che riflette la colpevole passività delle nostre cancellerie: occorre una strategia condivisa di ampio respiro, capace di trascendere la sfera della security e proporre uno schema di sviluppo alternativo all’insidioso Beijing Consensus cinese. Frattanto, la nostra unica opzione è sporcarci le mani. Constatato il fallimento della crociata democratica degli ultimi anni, nel poco tempo che abbiamo a disposizione non ci resta che rispondere alla moneta con la moneta e alla violenza con la violenza, comprando o estorcendo la lealtà che non siamo riusciti ad ottenere finora.

In altre parole, serve ritornare allo spigliato pragmatismo — o alla pura mancanza di scrupoli: scelga il lettore — della Guerra Fredda. Se ne combatte oggi una seconda, ancora più feroce della precedente e nella quale l’Africa e gli africani, dal Nord crocevia di miseria e speranze al Sud perennemente sull’orlo del baratro, giocheranno un ruolo centrale. Risorse naturali, avamposti strategici, perfino le persone e lo spazio sono già oggetto di una corsa sfrenata; piaccia o meno, si corre più veloci senza il bagaglio di aspirazioni progressiste che da troppo tempo ci portiamo dietro a mo’ di kiplinghiano fardello dell’uomo bianco. Buona fortuna ai partecipanti, dunque, e che vinca il peggiore.

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