Il nostro Continente è come un pendolo, esso oscilla ossessivo tra la terza guerra mondiale e la neutralità energetica. Ciò che conta di questo meccanismo non è uno scopo definito bensì la sua stessa velocità. Qualsiasi cosa, purché sia in fretta! La frenesia progressiva delinea un contorno che non ha bisogno di contenuto, non necessita di assumere un significante che rischia d’altra parte di rendere la linearità meno netta, meno assoluta. La progressione indica già nella sua direzione il contenuto.
E’ così che in verità non c’è alcuna distinzione tra i due poli del pendolo, così come non c’è distinzione tra i progetti di allargamento dell’Unione, il Green Deal, il riarmo, la guerra… tutto si sovrappone, si confonde, affolla le coscienze dei decisori e le fa straripare. Si pretende di sintetizzare ciò che è impossibile sintetizzare, di includere ciò che si esclude coprendo tutto con formule vaghe, lanciando scadenze nel vuoto di anni lontani per avere quantomeno la rappresentazione di un senso dell’agire, di una certa volontà in azione. Rassicurati dal fatto che ci si muove, dal 2022, in un contesto con pochissimo margine di azione e che, più che ancorarci ad una identità chiara, rende meno visibile l’implosione.
In questo senso le elezioni Europee sono state emblematiche, perlomeno per quello che riguarda l’astensionismo ormai cronico. Ciò che appare come uno spazio vuoto in verità ha da dire molto di più sulla condizione dell’Europa e dei suoi Stati, anzi si potrebbe dire che nello spazio dell’astensione si trova la reale identità del Continente, ed elezioni come quella francese con un alto tasso di partecipazione segnano invece la propria eccezionalità, spinta più dalle contingenze che da un reale cambio di paradigma su ciò che si ama chiamare “la crisi della democrazia”.
Ad ogni tornata elettorale ciò che i partiti, nazionali o sovranazionali, possono offrire all’elettore non è che, invero, la propria costellazione di opinioni e posizioni sugli eventi del mondo. Una galassia polverizzata, frammentata proprio perché il contesto in cui si muovono è granitico, definito da altro che da loro stessi, o da altro che sia il proprio Stato. In Europa, e in Occidente, la legittimazione del Politico è esterna al Politico stesso.
Si è già parlato a questo proposito di principio di Natura. Principio che è la condizione di universalità (e auto-trascendenza) o di espansione dell’identità dell’Io che lo Stato pone in quanto si costituisce al suo interno come zona pubblica. Condizione visibile già nel Cinquecento e cristallina ad esempio in un passo dei saggi di Montaigne: “Sono così assetato di libertà che se mi fosse proibito l’accesso in qualche angolo delle Indie, vivrei in certo modo meno a mio agio”. La zona pubblica è il mondo oggettivo e naturale del principio di Natura, tanto più la stessa zona è interna all’individuo, tanto più l’espansione dell’identità dell’Io dipende, si fonda sulla neutralità spirituale ed etica di cui è informata la zona pubblica statale. L’oggettività della zona pubblica è l’oggettività della Natura, di un ordine naturale che si pensa vada oltre lo Stato ma ne è inevitabilmente ricompreso.
Così il concetto di sovranità, esclusivo perché inizialmente consustanziale alla figura individuale del Principe, si allarga contemporaneamente all’attività espansiva dell’Io fino a mutarsi nel concetto di sovranità popolare. Da quel momento, parallelamente all’assunzione del suffragio universale maschile, è la natura oggettiva umana, presa nell’astrazione di un popolo, la forza che si auto-ordina politicamente. Non più l’atto singolo di un Principe, una decisione, ma l’immanenza stessa. Ciò segna la storia della legittimità dello Stato, non in una dialettica conflitto-ordine (che mostrava comunque un certo personalismo della sovranità, incarnandola) bensì nella coincidenza tra sovranità e la neutralità implicita alla zona pubblica.
Come è evidente è la sovranità che istituisce suddetta zona. L’origine è sempre particolare e politica, violentemente politica. Eppure la cifra distintiva della sovranità, non avendo più contenuto (poiché non esiste più una sua negazione concreta e storica), si ribalta: in ogni decisione, nella serie infinita di decisioni sovrane esiste implicitamente quel nucleo di neutralità che la zona pubblica necessita. Non è più quest’ultima che rende evidente la violenza su cui si fonda bensì l’unico compito della decisione è ristabilire uno stato pre-esistente, naturale, oggettivo (che si esplica nella sovranità popolare). Non è suo compito fondare alcunché, altrimenti si dovrebbe ammettere una qualche artificialità, una in-fondatezza originaria.
La decisione stabilisce questa continuità. A livello internazionale, come già analizzato nell’articolo precedente, la potenza e la sopravvivenza dello Stato si danno così in un unico momento, in unico spazio. Il diritto internazionale rende tutto ciò molto evidente, giacché tra i suoi principi cardine figura quello di auto-determinazione dei popoli. Non esiste distinzione chiara tra Stato e popolo, come si nota anche dall’ampio uso del riconoscimento internazionale in materia.
Ciò rende più evidente da dove derivi la legittimità di uno Stato. Il diritto all’esistenza discende infatti dalla capacità di stare dentro (o dietro) il principio di Natura attraverso il monopolio della potenza di ogni singolo individuo, oltre a quello classico del monopolio della violenza. Ora, come spiegare l’astensionismo stando a quello che si è scritto? Deriva da uno sfasamento o da una eccessiva sovrapposizione tra Stato e il singolo in quanto oggetto del monopolio della potenza?
A questo proposito è bene ricordare che il monopolio della potenza non appartiene in senso stretto ad ogni Stato, ma a quegli Stati che più perfettamente si intestano il principio di Natura, poiché il contenuto del monopolio della potenza è per l’esattezza l’incarnazione nello Stato di certi attributi del principio di Natura. Attributi che corrispondono ad universali che, benché si mascherino come tali, sono politici (perché politica è l’origine della zona pubblica). Non serve che i suddetti siano concreti ma che abbiano in sé, esprimano la potenza, la possibilità di cui l’individuo è informato in quanto informato della zona pubblica. Il concetto di democrazia è uno di questi, perlomeno in Occidente.
Si ha perciò l’estensione universale del principio di Natura (la sovrapposizione di neutralità e sovranità), poiché universale è l’estensione dello Stato, sulla quale si consuma la lotta per un effettivo monopolio di suddetti termini. Esprimendo dunque da una parte la realtà di un sistema internazionale (che nell’articolo precedente si era paragonata al Dio di Spinoza) e dall’altra una politica internazionale che si svolge al suo interno e che rispetta un certo ordine di rapporti di forza. Prendendo dall’altro lato il discorso sulla sostanza che si è visto in Spinoza non si può quindi che approdare a Leibniz. Esso, contrariamente al filosofo olandese, riteneva che la sostanza fosse solo indivuale, non immanente, poiché cercava di ristabilire una certa verticalità gerarchica nel mondo necessaria a salvare il ruolo del Dio cristiano dalle dottrine spinoziste.
Suddetta sostanza individuale è la monade (da cui il trattato “Monadologia”): un’entità metafisica minima e indivisibile che costituisce nella sua moltitudine tutto l’Universo. Ciò che distingue le monadi è unicamente un principio di moto interno (poiché qualsiasi moto impresso esternamente non dice nulla sulla realtà individuale di una monade, così come di un corpo) costituito dalle percezioni del mondo che la monade stessa esprime. Essa è un punto di forza e di espressione. Ogni monade in quanto esistente esprime determinate percezioni frutto di differenti “angolature”, punti di vista sulla realtà. La monade è specchio vivente del mondo, lo riflette in sé interamente nella sua particolare costituzione, nella quantità infinita di percezioni e relazioni da cui è costituita.
Il principio del moto interno corrisponde in Leibniz alle appetizioni, con le quali la monade passa da una percezione ad un’altra mentre tramite le appercezioni, la coscienza delle percezioni, si fa monade razionale. Questo è particolarmente interessante per spiegare a livello internazionale la teoria del monopolio della potenza, prendendo come già detto il funzionamento dalla parte dei singoli Stati e non a livello di sistema internazionale. Interessante perché, nonostante per Spinoza la sostanza sia l’immanenza e per Leibniz essa sia solamente singolare, come si è visto nella politica contemporanea le due sostanze possono darsi entrambe allo stesso momento (pur tenendo fermo il fatto che si sta parlando, quando si parla di Stato, di una finzione di una sostanza).
Si potrebbe dire infatti che lo Stato corrisponda ad una monade, un centro di forza espressiva. Nella monade-Stato le percezioni sono declinazioni, o più precisamente affezioni, modi politici (o come scritto prima a galassie polverizzate di posizioni politiche) che non possono che giungere dal mondo, dall’oggettività del principio di Natura. L’appetizione perciò è la decisione politica sovrana, che pur passando da una scelta ad un’altra, ha come limite il contenuto di un determinato monopolio della potenza. Allo stesso tempo gli Stati partecipano di un unico mondo oggettivo, il loro “Dentro” infinito, e di una loro organizzazione peculiare, che si costruisce ancora una volta attorno ad un monopolio della potenza e che determina “l’angolatura” delle loro percezioni, delle decisioni politiche di cui sono informati.
È evidente dunque come la sovranità non abbia di per sé alcun carattere teologico-politico, non consiste di una visibilità e superiorità sull’immanenza, e dunque nella negazione di qualcosa d’altro da sé (lo stato di natura ad esempio) ma della sua adesione al principio di Natura, alla sua “volontà di impotenza”. La sovranità è un principio dinamico interno allo Stato stesso, che può solo ordinare certe priorità, non può mai agire su sé stesso, poiché la sovranità popolare non può agire su di sé, può solo esistere o meno, può solo darsi o meno (e da questo punto di vista si vede in sostanza il suo essere artificio, perché artificio e astrazione teologica-politica è il popolo nella sua interezza).
Nell’Occidente in particolare ogni monade-Stato è tenuta insieme, nella sua organizzazione, dal dominio di una monade razionale (seppur per Leibniz non ci fosse una gerarchia stretta tra le monadi sostanzialmente quella razionale, quella umana, domina sulle altre animali, che hanno solo percezioni confuse e non hanno l’appercezione). Il mondo delle monadi è infatti oggetto della loro tensione espansiva, il loro conatus, per esprimere più realtà possibile, per legare a sé più monadi.
La monade-Stato razionale è quella che ha appercezione, ovvero auto-coscienza, ovvero la capacità di agire sui contenuti del monopolio della potenza. Le altre monadi agiscono dal di dentro di questo monopolio. Agendo all’interno è così possibile far coincidere violenza e potenza, sopravvivenza e potenza per ogni singolo Stato. Si può pensare così, citando Leibniz, al “migliore dei mondi possibili”.
Il problema dunque, quando si guarda all’astensionismo nell’Unione Europea, non è dato da una sfasatura tra monopolio di potenza e Stato ma da una loro eccessiva sovrapposizione.
Quando a proposito dell’Europa si parla di democrazia, libertà, benessere, neutralità tecnologica non si sta definendo niente di identificabile con l’Europa stessa, niente di concreto, ma sempre un universale politico. È il richiamo ad un monopolio della potenza che trascende gli Stati stessi. Trascendendoli in toto perché nel progetto funzionalista dell’Unione Europea non c’era alcuna appercezione sulla reale consistenza di suddetti universali (e anzi il funzionalismo li esprimeva perfettamente). L’Unione Europea è una organizzazione, una disposizione di monadi-Stati senza una monade razionale, la quale si può dire siano invece gli Stati Uniti, che perlomeno mostrano appercezione nel secolare dibattito (e concreta possibilità) tra isolamento e intervento. È un dualismo dello spirito americano insito sin nelle origini, che corrisponde ad una capacità di agire sul contenuto del monopolio di quegli universali che l’Unione Europea, in quanto unione economica e non politica, non ha mai avuto. L’astensionismo è logica conseguenza, proprio perché paradossalmente, muovendosi in un monopolio della potenza altrui gli Stati europei realizzano pienamente quel principio di Natura, quell’ordine naturale (che si pensa) al di là dello Stato, la corrispondenza tra potenza e violenza. È il sistema, sempre citando Leibniz, di una “armonia prestabilita”.
La monade Stato che ha appercezione invece, che può prendere distanza ed agire sui contenuti del suo monopolio non potrà mai incarnarsi perfettamente (a meno che un’altra monade giunga all’appercezione) ma persisterà in una dissociazione, in un dualismo come quello americano, per cui violenza e potenza spingono per una autonomizzazione (e in ciò il dilemma morale americano è esempio emblematico, come già analizzato nell’articolo di Foreign Affairs “The Age of a-morality”.
Perché votare dunque, se non è individuabile una certa distanza, una inimicizia fondamentale? Nessun partito occidentale ne ha la capacità, perché ogni partito non ha appercezione di quegli universali in cui si muove, mostrandosi come mero mezzo con cui ordinare scale di infinite priorità e incombenze, di infiniti temi (etico-economici) che componendosi e frazionandosi costituiscono una identità politica, come un dipinto puntinista. Non c’è distanza, mediazione del partito tra l’Io e lo Stato, ma esso è l’Io stesso, nella sua frammentazione, nello Stato.
Votare o non votare è così equivalente e anzi la procedura di voto in quest’ottica assume un aspetto del tutto singolare: giacché la zona pubblica è consustanziale all’individuo stesso e ne fonda l’identità il voto diventa assolutamente superfluo, un gesto, una procedura meccanica svuotata di qualsiasi significato. Il disinteresse è la conseguenza del fatto che non ci sia distanza tra l’Io e lo Stato (così come non c’è distanza reale tra “partiti”) poiché l’Io scopre la sua identità nello Stato, nella realtà della sua zona pubblica.
L’identità sussiste anche senza una partecipazione attiva e anzi non è assolutamente richiesta se l’identità stessa vuole rispondere di un mondo oggettivo quale la Natura, quale la sovranità popolare. Di cui, come la zona pubblica, non si può dire niente perché sottratta ad ogni giudizio. Essa ha funzione, in quanto universale, meramente esterna. Non afferma o nega alcunché, bensì si giustifica con la propria immanenza, con il proprio esserci.
La polarizzazione indotta dal populismo è a questo proposito il tentativo di ridare sostanza al concetto teologico-politico di sovranità popolare, come afferma Geminello Preterossi in “Teologia politica e diritto” (Editori Laterza, 2022). Tentativo fallito ad oggi poiché si può dare sostanza, si può affermare qualcosa sulla sovranità solo negando qualcos’altro, o negando, frazionando la stessa. E siccome lo spazio della sovranità popolare è spazio universale la negazione è guerra civile.
La tensione tra sovranità e neutralità, violenza e potenza, non è una contraddizione interna solo allo Stato, ma anche all’individuo contemporaneo. Entrambi sono i lati di una medaglia, di una potenza che si sforza di essere ciò che è senza mai riuscirci del tutto, senza mai farsi reale sostanza.