Intervista

«L'Europa ignora l’unico collante che le permetterebbe di sentirsi parte di una civiltà comune: il suo patrimonio culturale millenario.» Il futuro della tecnodestra con Vincenzo Sofo

Vincenzo Sofo, già eurodeputato, agitatore culturale, ed attualmente consigliere del ministro della cultura Giuli, non ha dubbi sul significato che vuole dare alla "tecnodestra" e che aldilà di entusiasmi avveniristici e demonizzazioni ha indagato ed enunciato nel suo saggio "Tecnodestra. L'Europa politica nell'era Musk" (Paesi edizioni). Un testo in cui Sofo rilegge le evoluzioni delle destre europee di fronte alle sfide della storia - dalla crisi del 2008 alla ritirata della globalizzazione fino al rapporto col trumpismo - cercando di affrontare un tema su tutti: il futuro e la possibilità di una tecnocrazia di destra per l'Europa.
«L'Europa ignora l’unico collante che le permetterebbe di sentirsi parte di una civiltà comune: il suo patrimonio culturale millenario.» Il futuro della tecnodestra con Vincenzo Sofo
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Pochi termini hanno avuto una esegesi e una polisemia che così tanto ha fatto discutere e catturato l’attenzione della stampa come quello di “Tecnodestra”. Tanto che verrebbe da chiedersi cosa essa sia realmente. E se realmente esista. Per alcuni è la matrice culturale di una sedicente internazionale reazionaria che va da Trump a Putin passando per Afd, per altri invece la banalizzazione con cui si vuole descrivere il matrimonio di reciproca convenienza tra capitalismo politico occidentale e movimenti post populisti di destra. Per altri è la sintesi finale tra libertarianismo e valori reazionari con una proiezione verso un transumanesimo aristocratico. Vincenzo Sofo, già eurodeputato, agitatore culturale, ed attualmente consigliere del ministro della cultura Giuli, invece non ha dubbi sul significato che vuole dare a questo termine e che aldilà di entusiasmi avveniristici e demonizzazioni ha indagato ed enunciato nel suo saggio “Tecnodestra. L’Europa politica nell’era Musk” (Paesi edizioni). Un testo in cui Sofo rilegge le evoluzioni delle destre europee di fronte alle sfide della storia – dalla crisi del 2008 alla ritirata della globalizzazione fino al rapporto col trumpismo – cercando di affrontare un tema su tutti: il futuro e la possibilità di una tecnocrazia di destra per l’Europa. Consegnando al lettore un’indagine che regala una risposta originale alla spinosissima domanda “che cos’è la Tecnodestra”.

Perché “Tecnodestra” e quali sono le caratteristiche di questa nuova ondata culturale e ideologica del panorama occidentale?

L’idea del libro nasce in realtà un paio di anni fa, quando da parlamentare europeo in carica stavo cercando di usare il mio mandato per riportare a destra una coscienza patriottica europea, che la stagione sovranista aveva ammaccato favorendo inconsciamente la confusione tra la battaglia per cambiare il progetto europeo con quella contro il progetto europeo. Così pensai di pubblicare un libro per spronare la destra a non farsi schiacciare nella dicotomia Globalismo versus Sovranismo ma neppure in quella Progressismo versus Conservatorismo, perché il mondo in cui viviamo sta cambiando radicalmente e ciò sta cambiando anche gli stessi paradigmi con i quali lo affrontiamo. Così quando la sinistra ha coniato il termine Tecnodestra, da essa inteso come definizione dispregiativa del rapporto tra destre e big tech, ho pensato di reinterpretarlo provocatoriamente come tecnocrazia di destra, cioè di destra alla sfida del governo.

Quali sono le linee guida del MEGA e come tale visione ridisegnerà i rapporti transatlantici e comunitari? E che conseguenze porterà il MEGA per il MIGA (Make Italy Great Again)?

In Europa e in particolare in Italia abbiamo la sindrome di esterofilia e spesso, appena vediamo qualcosa di successo altrove, abbiamo il riflesso di volerlo subito copiare e incollare da noi. È una sorta di complesso di inferiorità che abbiamo soprattutto rispetto agli Stati Uniti. Eppure parliamo di due continenti diversi, con culture e società che – pur essendo da decenni al centro di un’opera di standardizzazione – restano parzialmente diverse. Le offerte politiche devono partire dalla presa di coscienza di queste diversità e specificità e i primi a doverle rivendicare dovrebbero essere proprio le destre, definendosi identitarie e sovraniste. Ciò non toglie che sia interesse di entrambe le sponde dell’Atlantico mantenere saldo il rapporto e che, proprio in virtù di questa connessione, le destre debbano coltivare più che in passato i rapporti oltreoceano. Ma non deve essere una scusa per togliersi di dosso la responsabilità di lavorare per offrire agli europei un’agenda politica di destra cucita ad hoc sulle necessità dell’Europa. Per farlo però bisogna innanzitutto integrare definitivamente che non ci può essere MIGA senza MEGA, proprio come non ci può essere MEGA senza MIGA.

Quali sono le origini e radici della Tecnodestra e quanto il globalismo della tecnosinistra woke ha favorito la polarizzazione in cui siamo immersi?

Il rapporto tra amministrazione Trump e Big Tech è conseguenza della forza immane che queste ultime hanno assunto nell’economia e negli affari internazionali. Tale condizione non è causa delle destre ma dell’agenda globalista perseguita negli ultimi decenni che ha consentito a queste aziende di diventare dei veri e propri Stati digitali ai quali sottomettere le politiche degli Stati nazionali. A mio avviso ciò che Trump sta cercando di fare è invertire l’ordine gerarchico, cioè allinearle e all’agenda geopolitica americana. Un’operazione possibile perché la competizione tra Usa e Cina si gioca in priimis sul fronte tecnologico, dove i colossi digitali cinesi hanno ormai raggiunto e rischiano di superare quelli americani. Dunque il patto tra Trump e Big Tech è utile a entrambi perché impostato su un do ut des: gli uni accettano di mettere tutta la loro forza a disposizione degli interessi geopolitici americani, l’altro accetta di liberarle dai lacci burocratici e legislativi per permettere loro di sprigionare tutta la forza possibile.

Come è cambiata la visione e il ruolo della destra dalla crisi del 2008 a oggi e quali sono stati i suoi momenti di svolta?

Ho deciso di iniziare il mio libro con un riferimento temporale preciso, l’anno 2009, perché lo ritengo un momento di svolta fondamentale. Il mondo e il panorama politico attuale hanno infatti la loro genesi nella crisi economica dell’epoca che ha terremotato l’impalcatura liberal-globalista facendo aprire gli occhi alle popolazioni sulle inefficienze e sulle diseguaglianze che tale modello, fino a quel momento venduto come infallibile, arreca. Da lì nasce l’ondata dei populismi e dei sovranismi. Un altro momento di svolta è il 2016, l’avvento di Trump, che ha due conseguenze: la prima è l’evoluzione della dicotomia politica da globalisti contro sovranisti a progressisti contro conservatori, poiché il Tycoon porta alla luce il fenomeno dell’ideologia woke ergendosi a paladino della resistenza; la seconda è l’avvio dei ragionamenti di autonomia strategica dell’Europa, spinti dal duo Merkel-Macron in funzione proprio anti-Trump. Il problema è che la velocità di tali svolte ha provocato talvolta a destra confusioni e cortocircuiti ideologici, soprattutto in rapporto al ruolo dell’Europa, soggetto rimasto schiacciato tra le due dicotomie citate ed elevata erroneamente a simbolo dei nostri mali.

Quali sono i nodi dell’attuale Europa che a malincuore si conferma ammalato gigante economico e perdurante nano politico vittima di utopismi green e woke? E come invertire questa deriva?

Il problema dell’Europa è identitario. Da decenni tentiamo di trovare un motore di integrazione o degli pseudovalori da dare all’UE per far sì che i cittadini possano aderirvi. Si è provato a usare la moneta unica e il mercato comune, persino l’Erasmus, come motori di unificazione e la cosa ha fallito. Si è provato a creare un’impalcatura valoriale green e woke e la cosa ha fallito. Ora si sta provando a usare la paura per la guerra contro la Russia come collante e l’esercito europeo come motore ma anche in questo caso probabilmente si fallirà. Per il semplice fatto che si tratta di collanti artificiali mentre, non si sa perché, continuiamo a ignorare l’unico collante naturale che permetterebbe ai popoli europei di sentirsi parte di un progetto e una civiltà comune: il nostro patrimonio storico, culturale e valoriale millenario. L’Europa nella sua storia non è quasi mai stata un soggetto politico unico ma è sempre stata una civiltà. Sarebbe ora di prenderne atto e di cambiare l’approccio.

Oggi come questi movimenti conservatori, neoreazionari e post populisti possono creare quella classe dirigente tecnica, politica e intellettuale che gli è stata sempre recriminato di non avere e guidare il nuovo corso europeo?

Per poter guidare un nuovo corso europeo bisogna innanzitutto integrare la necessità di avere un’Europa geopolitica forte e dunque di sviluppare un’idea di Europa, chiaramente e soprattutto concretamente. Ciò significa uscire dalla “comfort zone” degli argomenti sui quali le destre spesso si concentrano per iniziare ad affrontare e approfondire le posizioni su temi nuovi, di frontiera, dove fino a oggi a riflettere è stata soprattutto la sinistra. È il motivo per il quale nel mio libro parlo molto poco, ad esempio, di immigrazione e woke mentre mi soffermo molto di più su temi come le città globali o le guerre cognitive. Perché il mondo progressista, di fronte agli sconvolgimenti del nuovo mondo, una riposta – ci piaccia o no – si è subito adoperato per darla, come ci dimostra il manifesto de Il Grande Reset. Il mondo conservatore invece è in ritardo e, se ritarda troppo, rischia che siano gli altri a decidere la direzione da prendere su molti temi magari poco mainstream ma molto determinanti per il futuro delle nostre società.

Oggi la politica trumpiane sembra ad esempio caratterizzata da una nuova sintesi tra mitologie originaria (il mito della frontiera in primis) e progetti avveniristici del Capitalismo politico, pensiamo al tema della frontiera spaziale e di Marte. Come possono conciliarsi disegni avveniristici e valori identitari?

La cosiddetta tecnodestra americana è infatti per noi destre europee la sintesi dei dilemmi che dovremo affrontare. L’accelerazione del progresso è ormai un fatto compiuto del quale dobbiamo prendere atto e che dobbiamo capire come gestire. Dunque il tema non è più scegliere tra disegni avveniristici e valori identitari bensì come salvaguardare questi ultimi in uno scenario avveniristico. O meglio come far sì che il mondo del futuro resti comunque basato sui valori identitari che caratterizzano la nostra civiltà. Il senso del mio libro è proprio questo: è ora che la destra si metta al lavoro per aggiornare la propria agenda e adattarla al mondo che sta arrivando. Altrimenti questa agenda si ridurrà a poema nostalgico dei tempi che furono, invece che elevarsi a guida operativa ai tempi che saranno.

Nel testo compie un elogio della frontiera. Quale significato e importanza ha il valore della frontiera specie rispetto alle sue inedite declinazioni (digitale, spaziale, biologica)?

In effetti il libro è impostato tutto sul concetto di frontiera, di domande e analisi su quale sia la dimensione giusta dei confini da porre ma anche fin dove sia giusto spingere la frontiera del progresso. Credo che il futuro dell’Europa si giochi tutto sull’interpretazione che si darà a questo concetto. Perché la tenuta degli Stati nazionali è oggi messa in crisi sia dall’alto attraverso la concorrenza delle organizzazioni sovranazionali e dai progetti spaziali, sia dal basso attraverso la concorrenza delle città globali e del mondo digitale. E perché la tenuta delle nostre società dipenderà da fin dove ci avventureremo nella sfida a Dio e alla Natura.

Da Singapore agli studi di Parag Khanna come valuta l’ascesa delle tecnocittà e delle nuove città-stato? E perché de-metropolizzare?

Come ho appena detto, dietro il modello di sviluppo dei territori incentrato sulle metropoli c’è un progetto politico di sfida agli Stati nazionali. Quelle che all’inizio sembravano essere semplicemente delle grandi città, delle città sempre più grandi, sono diventate oggi delle città globali, delle città-stato modellate tutte secondo gli stessi standard architettonici e ideologici, costruite tutte per attirare e favorire lo sviluppo di popolazioni di persone aderenti all’ideologia globalista. De-metropolizzare significa dunque contrastare questo progetto politico ma anche, soprattutto, proporre un modello di sviluppo alternativo a quello attuale che – come spiego – sta comunque scoppiando perché la vita in queste città globali è sempre più insostenibile economicamente, socialmente ed ecologicamente.

Che futuro potrà darci il sentiero di un’Europa latina, sulla scia di Koyeve e in integrazione col cattolicesimo politico di Bergoglio, capace di guardare a Sud, alle prospettive euroafricane e euromediterranee? E quanto sarà importante l’asse con la Francia?

L’Unione Europea è fatta di sottoeurope, di aree di influenza. Lo vediamo con Visegrad, con i paesi frugali, con il Trimarium, con i satelliti tedeschi. L’unica parte di Europa a non essersi costituita come area di influenza è l’Europa occidentale seppur costituisce una gamba fondamentale dell’Europa considerando che contiente Francia e Italia, due nazioni fondatrici non solo dell’UE ma della storia e della civiltà europea. Questa parte di Europa può giocare un ruolo fondamentale nel ruolo che potrà avere il nostro continente perché possiede la proiezione mediterranea, perché costituisce il patrimonio linguistico e culturale di buona parte dei popoli di due continenti strategici come Africa e Sud America, perché contiene le radici di una civiltà globale qual è il cristianesimo.

Cosa non capiscono gli europei di Elon Musk e quanto il muskismo può essere un’opportunità o un limite per l’Europa e per la destra?

Elon Musk è innanzitutto un imprenditore. Ma a capo di un ecosistema di aziende che costituiscono oggi una forza pari se non superiore a quella di uno Stato. Musk con le sue aziende può decidere le sorti di una guerra, può consentire o meno ai cittadini delle nostre aree periferiche di avere o meno internet. È dunque di fatto una sorta di capo di Stato. Ciò fa paura ma ormai è realtà. E non riguarda solo Musk, anche se egli è oggi il più pop e il più viisibile di questi imprenditori-capi di Stato con i quali, piaccia o no, dobbiamo avere a che fare. Per capirci, sono certo che se oggi chiedessimo alle persone se sia peggio perdere la propria carta d’identità o il proprio profilo social, moltissimi considererebbero più grave la seconda. Il processo di concentrazione dei capitali, delle produzioni e dei servizi ha favorito e favorirà sempre di più questa situazione. Ma non dobbiamo mai dimenticare che un imprenditore deve rispondere comunque agli interessi delle proprie aziende mentre un capo di Stato a quelli dei propri cittadini. Motivo per il quale la destra deve lottare per il mantenimento del primato della Politica sulle scelte che riguardano il futuro della nostra società.

– L’ultimo capitolo del suo libro si chiama “Dio o Musk?”. Quale sarà il futuro della destra il conservatorismo cristiano o il futurismo postumano di Musk?

È la conclusione-provocazione che faccio alla destra. Non a caso il titolo del capitolo è una domanda e non un’affermazione, poiché la questione è quantomai aperta poiché il dibattito deve ancora iniziare. Personalmente spero che la destra non si getti, consapevolmente o inconsapevolmente, nell’ideologia transumanista che comporterebbe lo sgretolamento di tutti i nostri valori. Ma credo anche che, se vogliamo che ciò non accada, dobbiamo comunque avere la capacità di adattare il conservatorismo attuale alle sfide del futuro, altrimenti si ridurrà a passatismo finendo per uscire fuori dai giochi. Per evitare le due derive, serve dunque iniziare a far dialogare a destra l’approccio conservatore e quello futurista per lavorare alla costruzione di una nuova sintesi.

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Una critica all’idea di “tecnodestra”

La tecnica non ha colore, è uno strumento di potere, che non può costitutivamente avere alcuna connotazione politica poiché è il contrario della verità e della scienza. La tecnica assume il moto della macchinazione dell’esattezza, che riduce costantemente la libertà umana, quest'ultima, presupposto di qualunque verità. La macchinazione ha unicamente il neoliberismo quale terreno fertile; nessuna “destra” è ad essa necessaria.

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