Diciamo che anch’io sono un “odiatore” di professione. Come tale, quindi, amo tutti coloro che “odiano” in campo letterario. Ad esempio odio il nettare appiccicoso (e anche dal retrogusto amarognolo) di gente come la Murgia e i suoi sodali, editori compresi, che rispecchia il più insopportabile dei canovacci del politicamente corretto e del dire ciò che la gente ormai vuole ascoltare, dopo il trionfo dell’“Impero del bene” che ha modificato il libero arbitrio culturale del nostro pensiero e dello stessomercato editoriale. Già con quest’incipit, lead, cappello giornalistico, potrei benissimo essere preso per un fascista, un salviniano, forse anche qualcosa in più, invece ne ho solo le ‘palle piene’. Io, addirittura cambierei la locuzione “politicamente corretto” con qualcosa di più simile a “imbecillità genetizzata” o “ipocrisia caramellosa”: ma andrebbe anche bene “tirannia fidelizzata”. Oggi contano i personaggi-show, coloro che vendono libri da macero spacciati per capolavori, che schizzano nelle classifiche delle vendite. A me fanno schifo. Nessuno dei grandi scrittori del passato ha dovuto la propria fama al suo “essere un personaggio pubblico”, un influencer culturale: e per non sbagliare con la memoria mi lascio la clausola di salvaguardia, “forse eccetto rare eccezioni”. E mi rendo conto di avere troppi classici ancora non letti (quante vite dovrei vivere per leggerli tutti?), ragion per cui cerco essi e solo essi. Dei cosiddetti “contemporanei” pochi hanno meritato il sopimento del mio “odio letterario”.
Oggi mi metto di buzzo buono per parlare di un libro e di un autore detestato dai melliflui che leggono solo i finalisti dei vari Premi letterari; autore il quale, peraltro, parla di un altro autore sovente vituperato e poco conosciuto rispetto alla sua produzione e ai suoi meriti, tranne che per gli amanti di un certo genere ormai di culto. Ne ho contezza, la sto facendo difficile, io stesso faccio fatica a seguirmi, ma per come le leggo io le cazzate che circolano in giro, anche voi dovrete fare un piccolo sforzo e assecondarmi. Se non vi sarete già stancati delle troppe premesse. Un libro deve farmi male, procurarmi spasmi muscolari e l’escherichia coli, prendermi a cazzotti, farmi mettere in dubbio che io stia leggendo, costringermi a riscriverlo con gli occhi pagina dopo pagina. E nello stesso tempo lasciarmi con qualcosa che sia più di un dubbio. Un’angoscia letteraria che non andrà più via. Ricapitoliamo: il saggio in argomento è scritto da Michel Houellebecq, autore già di suo inviso agli amanti dello “stilnovo letterario” per il sovente ricorso, nei suoi libri, al sesso mercenario, alle perversioni sessuali, alla misoginia, all’islamofobia, a certe forme di razzismo, al maschilismo. Almeno queste sono le accuse che si leggono nei suoi confronti, mentre io trovo i suoi scritti molto vicini a quel “farmi male” che un libro deve possedere come qualità per farsi leggere. Questo libro è un saggio redatto negli anni Novanta da Houellebecq dal titolo Contro il mondo, contro la vita, dove ci racconta il suo H.P. Lovecraft.
E siamo messi bene, perché uno scrittore definito razzista ci parla di un suo predecessore (per quanto di genere totalmente diverso) sicuramente razzista. Ma io aggiungerò al calderone, che già potrebbe essere saturo, un ulteriore libro (lo citerò appena qua e là) del “solitario di Providence” (Lovecraft): un altro saggio, L’orrore soprannaturale in letteratura, apparso per la prima volta nel 1927 su una rivista e subito stroncato per il suo “stile offensivo” e per aver usato “il termine cosmico circa ventiquattro volte”. Per Giorgio Manganelli:
“Lovecraft aveva grande e spericolato talento, ma qualcosa gli mancava, qualcosa che cercava invano di simulare: non era un filologo, un erudito e finse di esserlo con una certa ingenuità”.
Vi raccomando gli eruditi dei nostri tempi, il più delle volte pastelle di luoghi, nomi, epoche, personaggi veri e a volte inventati, sacro, profano, pignoleria filologica, ma illegibili per mancanza di stile e per troppa confusione di elementi affastellati. Molto meglio lo “stile offensivo” di Lovecraft e le ‘perversioni’ dello stesso suo saggista Houellebecq. Per parlare di Lovecraft rivisitato da Houellebecq, usiamo come inizio l’articolo del collega Claudio Chianese, scritto su queste stesse colonne:
“H.P. Lovecraft è un autore scandaloso, ma non in quanto razzista. Il suo attacco al mondo moderno è molto più radicale. La sua narrazione mitologica annienta tutto il pensiero progressista, dall’umanesimo rinascimentale, passando per Marx, fino al nostro entusiasmo per i diritti civili. Lovecraft ci attende oltre l’ultimo tratto di strada, quello che non abbiamo il coraggio di percorrere”.
Houellebecq non scrive un saggio apologetico, ci spiega cosa vi è di affascinante nell’opera di Lovecraft, taglia un po’ il superfluo e ci racconta di un uomo la cui architettura narrativa è sottostante alla superficie delle cose scritte. Un saggio anche psicologico (Lovecraft avrebbe aborrito la parola psicologia) che rispecchia, in letteratura, la vita di un uomo che già da ragazzo odiava ogni forma di vita: “Il mondo puzza. Un tanfo misto di cadaverico e di pesce […] l’universo è una cosa francamente disgustosa”, chiosa Houellebecq, interprete di Lovecraft. Non è facile inquadrare Lovecraft nel suo “delirio integrale” dal quale espelle ogni forma di attesa psicologica, egli pone invece la condizione di sbatterci nel delirio: “Si avvicineranno sempre di più le cose che claudicano, strisciano, saltellano. E infine riuscirete a vederle”. Nel libro “L’orrore soprannaturale in letteratura”, Lovecraft parla di se stesso e di ciò che sta scrivendo come “proposito di una nullità”: “La mia vita è stata quieta, priva di eventi, piatta e, nel migliore dei casi apparirà vuota e scialba”. Dopo aver letto all’età di “cinque anni” le Mille e una notte, si mise a recitare la parte dell’arabo folle, assumendo il nome saraceno di Abdoul Alhazred, ma fu negli anni successivi che lo collocò “cronologicamente nell’Ottavo secolo e gli attribuì il terribile e innominabile Necronomicon”. Un grimorio, un libro magico rilegato in pelle umana che conterrebbe tutte le nequizie e tutte le potenze del male. Un libro mai esistito se non nella fantasia di Lovecraft, ma citato e ricercato come se fosse esistito veramente e ciò scatenò la curiosità degli amanti del genere, lasciandoli ovviamente delusi. Di questo testo demoniaco molti provarono a dimostrarne l’autenticità per quanto lo stesso Lovecraft avesse sempre smentito creduloni, fanatici e studiosi di scienze occulte. E ci risparmiamo i Miti di Cthulhu, non siamo qua per raccontare o recensire le opere di Lovecraft. Stiamo affrontando il saggio di Houellebecq che unisce alla sua maniera e col suo stile a volte macchinoso e pedante, ma con una capacità d’attrazione unica, biografia e opera del “misantropo di Providence”.
Houellebecq non fa apologetica, mette a nudo un autore pieno di contraddizioni che tuttavia ne alimentano il fascino: “La deliberata piattezza dei personaggi di Lovecraft contribuisce a rinforzare il potere di persuasione del suo universo”, dal quale, dalle “grandi opere” in poi, l’intento sarà quello di “descrivere realtà ripugnanti, non psicosi”. Un mondo materiale, personaggi materiali, realtà materiali (per quanto Lovecraft trascrivesse sempre i suoi sogni per trasporli dopo in scrittura) che trovano sostegno in discipline quali anatomia, scienza, matematica, fisica, architettura,paleontologia, archeologia, linguistica: insomma una vocazione per quell’erudizione che forse non possedeva (come obiettato da Manganelli). Ma un ventaglio di argomenti scientifici che costruiscono un’architettura non fatta di volumi geometrici e calcoli matematici, bensì letterari:
“Sarà il primo a intuire il potere poetico della topologia e a emozionarsi davanti ai lavori di Gödel sulla non-compiutezza dei sistemi logici formali”.
I personaggi, le atmosfere, le mostruosità dei libri di Lovecraft “si avvicineranno sempre di più, le cose che claudicano, strisciano, saltellano. E infine riuscirete a vederle”, scrive Houellebecq. “Nei suoi ultimi racconti, Lovecraft utilizza dunque i multiformi mezzi della descrizione di un sapere totale” (e sempre Manganelli incazzato).
Mentre lo stesso “sociopatico” di Rhode Island attanagliato dal concetto di “paura cosmica”, di quegli esseri che ci sono preesistiti e si trovano in qualche dove, pronti a risvegliarsi (per violare le nostre leggi di natura), nel saggio “L’orrore soprannaturale in letteratura” spiega:
“Il vero raconto fantastico contiene qualcosa in più dell’assassinio segreto, delle ossa che grondano sangue, o di una forma avvolta di lenzuolo che, secondo vieto copione, avanza accompagnata da uno stridore di catene. Deve aleggiare in esso un’atmosfera soffocante e inspiegabile paura di forze estranee, sconosciute […] una paura o una sconfitta nociva e specialissima subita dalle stabili leggi della natura che costituiscono la nostra unica difesa contro gli assalti dei demoni e del caos”.
Lasciamo perdere il capitolo che scrive Houellebcq sul matrimonio di Lovecraft nel corso del quale lo scrittore di Providence dimostrò frigidità e inibizione a causa di un puritanesimo di base che lo condusse ad una forma più dichiarata di razzismo. E New York (“fetida Babilonia”, “colosso straniero, bastardo e mistificato”) per lui rappresentò quel mondo caotico (multirazziale) che impersonava i mondi caotici e misteriosi dei suoi libri, con “ripugnanti creature da incubo” (l’ultimo virgolettato è di Houellebecq). Houellebecq, per quanto appassionato di Lovecraft non esita tuttavia a definire la sua scrittura, in un particolare contesto, in questo modo:
“Il gusto per il dettaglio e la progresssione drammaturgica rendono effettivamente la lettura snervante”.
E quasi paradossalmente Houellebecq “avvicina” il suo autore giovanile amato, indovinate a chi? A Immanuel Kant: me cojoni! “Così come Kant vuole porre le fondamenta di una morale ‘non solo per l’uomo ma per tutte le creature in grado di ragionare’, Lovecraft vuole creare un fantastico capace di terrorizzare ogni creatura dotata di ragione”. E per inciso: “ Sia il ‘solitario di Könisberg e il ‘recluso di Providence’ sono accomunati dalla volontà eroica e paradossale di trascendere l’umanità”. Qua il mio “amico” francese, bravissimo nell’individuare lo stato di sottomissione della civiltà europea (più mille altre cose e linguaggi davvero graffianti), secondo me se la poteva risparmiare: Kant e Lovecraft, oltre che per argomenti, sono su piani culturali distanti non so quanto l’uno dall’altro. Accostamento infelice. Tuttavia dopo aver studiato con sangue e sudore Kant, dopo aver letto Lovecraft (ma gli preferirò sempre E.A. Poe) e lo stesso Houellebecq, negli ultimi anni Limonov e Breton, non puoi esimerti dalla domanda: “Ma che cazzo c’entrano Raimo e la Murgia con i miei soldi da spendere in libri e col mio arricchimento intellettuale?”. Anzi: “Che c’entrano con la letteratura?”.
Houellebecq ammette di avere verso Lovecraft “un’attrazione strana e contraddittoria”, in fondo è anch’egli attratto dal nichilismo sociale del collega statunitense, specialmente quando questi confessa che “niente ha senso, nemmeno i personaggi dei libri”. E come potrebbe non piacere a Houellebecq uno che dice “… la verità può portare al suicidio, o quantomeno determinare una depressione quasi suicida”? Tant’è che chiosa, sulle affermazioni di Lovecraft: “Certo, la vita non ha senso. Ma neppure la morte ne ha”. Nichilismo per nichilismo. E quando Lovecraft scrive che “la vita è una cosa orrenda” Houellebecq gli fa l’eco: “In questo siamo esattamente i lettori che Lovecraft voleva [in quanto egli è] un paradossale refrigerio per tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, siano arrivati a provare un’autentica avversione per la vita in tutte le sue forme”. Paradosso per paradosso. In fondo due personaggi ‘entropici’ (disordinati, disorganizzati) e nello stesso tempo ‘distopici’ (una realtà presentata come incubo e non più come anelito, sogno), laddove nessuna utopia positiva è permessa. “Un odio assoluto – spiega Houellebecq – per il mondo in generale, aggravato da un disgusto particolare per il mondo moderno. Ecco riassunto l’atteggiamento di Lovecraft”. E va da sé come mai Lovecraft rifiuti “nella sua opera ogni allusione di natura sessuale”. Vita, mondo, amore, sesso, umanità sono concetti invisi al “recluso di Providence” ma vi è di più, l’odio razziale, non trascurato nel suo saggio da Michel Houellebecq.
“In realtà Lovecraft è sempre stato razzista” annota lo scrittore d’Oltralpe, ma si trattava di una forma di razzismo legato alla classe sociale d’appartenenza, “l’antica borghesia protestante e puritana del New England”. A New York-Babilonia “le sue opinioni razziste si trasformeranno in una vera e propria nevrosi razziale”. Finisce in povertà, non troverà lavoro (non è intraprendente, piuttosto schivo, non ha la minima idea della realtà che si nasconde dietro parole come dinamismo, competitività, senso commerciale, efficienza) e in quella metropoli vedrà solamente “orripilanti negri simili a giganteschi scimpanzé” e “giudei dalla faccia di ratto”. Ma Lovecraft detesta tutte le razze, compresi “italo-mongolo-semiti” e il suo delirio dal sapore di maledizione, anatema, provoca in lui uno “stato di estasi poetica”.Trovo molto interessante invece, come Lovecraft nel suo saggio “L’orrore soprannaturale in letteratura” (dove passa in rassegna personaggi e stili romanzeschi), metta Dante fra i pionieri “nella presa di possesso dell’atmosfera macabra”.
Invece agli scrittori che oggi fanno tendenza, a quelli dalla scrittura beneducata e zuccherina affiderei la riflessione che fa André Breton in apertura del suo “Nadja”: “Chi sono, io?”.