Gli esseri umani sono come le maschere dell’opera dei pupi. Bei nomi carichi di destino, che vivono i copioni eterni delle leggende, dei cunti, del teatro, tra la verità e la finzione. Mossi e suggestionati dalle presenze inquietanti del Cavaliere, della morte e del diavolo, che accompagnano le trame di queste marionette forsennate, che si smarriscono lungo i sentieri della misericordia o della follia, mentre i fili d’acciaio del puparo conducono queste esistenze transitorie fino al momento gioioso e tragico, catartico e inaccettabile, della calata del sipario. Gli uomini, come le loro pazzie, sono cose che passano. Resta l’opera, lo spettacolo, la messa in scena che li accompagna. La maschera buffonesca e infernale, drammatica ed esilarante che li porta sulla scena ad interpretare lo scontro eterno della salvezza e delle ultime faville del diavolo. Maestro nel rappresentare questa tensione, nel decodificare la farsa che muove le performance di ogni giorno è Pietrangelo Buttafuoco. Buttafuoco, intellettuale visionario e controcorrente, alfiere di una cultura aristocratica e popolare, epurata e proscritta, ma allo stesso tempo originaria e atemporale, nei suoi romanzi ha raccontato le tavole e fili di questa rappresentazione attraverso opere memorabili. Da quell’Iliade, barocca e imperdonabile che è Le uova del drago, alla spirituale poesia degli incontri tra Il lupo e la luna. Passando per il dedalo urbano de I baci sono definitivi fino all’ultimo romanzo: Sono cose che passano (La Nave di Teseo, 2021).
L’opera si presenta come una creatura ibrida tra un faustiano Divorzio all’Italiana e un Delitto e castigo di Sicilia. Raccontando le storia del Barone baro Rodolfo Polizzi e della sua consorte la Principessa Ottavia di Bauci. Una storia che immerge il lettore nella Leonforte degli anni ’50, in un clima gioioso e vitale, in cui pandemonio e divertimento creano lo scenario per il tragicomico requiem del Barone Polizzi, sedicente nobile che finisce per diventare l’involontario protagonista delle brame e dei capricci della principessa di Bauci. Il barone, sposato con una donna smisurata rispetto alle sue mediocri possibilità, viene trascinato nel mondo snob e raffinato di una Capo d’Orlando che ha ospitato Yeats e Pound, nei ricordi inquietanti dei Sabba studenteschi di Cefalù, nel mondo elitario dell’entre nous in cui è visto come un goffo inciampo, un originale passatempo. In cui la carismatica Ottavia, sequestrata dai suoi capricci giovanili, nella villa di Leonforte, con la suocera madre padrona e l’amica cosmopolita Lucy Thompson, rimugina sulla sua esistenza e decide, suggerita dal demone Famelico, di affrancarsi da quel mondo minuscolo e affascinante in cui vive da confinata. Decisione che causerà un pandemonio tra commedia e cuntu, in cui attraverso i siparietti della vita dei personaggi, si mostra un ritratto biografico ed autobiografico della Sicilia, dell’uomo e delle sue avventure.
Ricostruendo un presepe leonfortese, tra le riprese di Rossellini e il carisma del candidato Nino Buttafuoco, il gusto eccentrico della commedia all’italiana e la riflessione di quel sentimento del contrario del dissonante, più acuto di tante noiosissime digressioni parapsicologiche. Tramite la maschera cavalleresca di quell’arcangelo mutilato che fu Carlo Delcroix, deputato monarchico amico di Nenni che metterà ordine alle pazzie dei personaggi, e quella diabolica e sensuale della principessa di Bauci. Un personaggio ammaliante e delicato, decadente nella sua noia da principesca Madame Bovary e i suoi desideri sfrenati. Una vicenda atipica che diventa travolgente attraverso lo stile di Buttafuoco. Uno stile che in Sono cose che passano, abbandona il gusto barocco ed eccessivo dei primi romanzi, per tuffarsi in una prosa essenziale, divertente, poetica. Perché come un Huysmans leonfortese, l’autore, ha affinato il suo stile alla luce delle tavole del palcoscenico e dai microfoni della radio. Andando all’essenziale, facendo vivere ai personaggi la scena, facendoli muovere, con i loro rumori, le notti d’amore, le lenzuola che cantano e le banchine spumeggianti che si popolano di folla. Che riscopre il sacro dissacrandosi nell’immersione, nei rimandi, nelle corrispondenze. Un disvelamento nell’abbandono nell’abbandonarsi al sacro. Perché il divertimento, il sacro, lo stile è evidenza. Come “il teatro obbligato tra gli angeli e i diavoli che negli uomini si combatte all’interno del proprio io. Di questo scontro Dio non è uno spettatore passivo, ma il regista. E la misericordia è il contenuto di questa narrazione”. Sostituendo le moribonde dolcezze di quel barocco Controcorrente che fu Le uova del drago, con l’essenzialità e la teatralità del sacro, che ha come En route e La Cattedrale, “Sono cose che passano”.
Quanto l’opera dei pupi ha influenzato la sua visione dell’arte e del romanzo? E quanto, come in Le uova del drago, i personaggi del romanzo rispecchiano quelli dei pupari?
Io sono nato dentro il contesto della coralità, del teatro, dell’opera dei pupi. Il contesto del racconto che si costruisce passo dopo passo nell’immediatezza e nell’intrattenimento. Non mi vergogno di dire che l’intrattenimento è fondamentale nell’opera d’arte. Per me una delle regole a cui attenersi, tutta artigiana, è non passare le notti insonni a cesellare le pagine con descrizioni forbite e mille dettagli per procurare il sonno e la noia al proprio lettore. Per quanto riguarda i personaggi, in realtà è tutto molto semplice. Tutti quelli che sembrano veri in realtà sono finti, mentre quelli più grotteschi e assurdi, sono veri. In questo ho aggiunto un altro canone, un altro metro di giudizio: la commedia. La commedia che come esercizio scenico, drammaturgico, tecnico, si dimostra uno scandaglio psicologico molto più forte di quello offerto dal dramma, dal realismo, dalla cronaca. Perché con la commedia si possono mostrare tutte le sfumature dell’animo umano, attraverso un ventaglio di emozioni, di umori molto più difficile da affrontare. Infatti quando ci si avventura nella lettura, non bisognerebbe solo dire “Buona lettura”, ma anche “Buon divertimento”.
Che relazione esiste tra questo libro e l’incisione di Dürer Il cavaliere, la morte il diavolo?
È un tassello che porta con sé un continuo rimando e richiamo all’introspezione interiore, ad esiti anche teologici, alla sfida ovvia tra il bene il male. Al combattimento inesorabile che più ci riguarda e ci coinvolge: quello dentro noi stessi. Per me è stato naturale il riferimento a quest’opera di Dürer perché i personaggi in scena nel romanzo si portavano da sé in scena queste maschere, suscitandole. La figura di Carlo Delcroix, carico delle avversità e le piaghe del non avere le braccia e la vista, riesce ad essere luce pur essendo nel buio, ad abbracciare senza avere gli arti superiori. Le altre maschere si accompagnano alla morte, subendo i rimandi del Diavolo anche nei momenti di sosta della loro vita quotidiana. Rimandi che riguardano ognuno di noi. Perché quando meno te lo aspetti, seduto su un autobus, sbirciando il tuo riflesso su un finestrino, al posto di restituirci la nostra immagine, potresti notare che quello specchio ci mostra qualcos’altro. Può essere la corazza del cavaliere, le corna del Diavolo, oppure il teschio della morte.
Frizzante, atipico, faustiano e tragicomico. La trama del suo romanzo è particolarissima: come è nata l’opera?
Mi è nata l’idea quando, molti anni fa, da ragazzo, incontrando Giano Accame, il genero di Carlo Delcroix, alla domanda “ma tu sei di Leonforte”, mi ha raccontato la vicenda che poi ha dato origine a Sono cose che passano.
Possiamo considerare la sua opera un cuntu come nel caso delle Uova del drago?
Per me questo tipo di idea è importante. Sono passati molti anni dalle Uova del drago e penso di aver affinato nel tempo la mia scrittura in virtù dell’oralità. Attraverso il confronto con il teatro e con la radio che mi ha aiutato moltissimo nello sviluppo di questo romanzo.
La morte è un tema importante nel romanzo. La nostra società, a contrario, pare non accettare la morte…
Come dice sempre il mio compare Baldo, che fa il primario a Padova, la differenza principale è nel rapporto con la morte tra il nord e il sud. Dicendomi “Compà, quando stai male al sud, se hai il rischio di morire, lasci l’ospedale e torni a casa. Mentre al nord quando si è malati e tutto sembra precipitare si lascia casa e si va a morire in ospedale”. Ciò è verissimo per il mondo di oggi perché si mette tra parentesi quanto di più naturale e paradossalmente gioioso ci sia nella vita, la consapevolezza del transito dalla dimensione terrena a quella soprannaturale. Ci sono cose che rimangono innate, ancestrali nella vita, nonostante non si dicano o manifestino, ma si diventa uomo, si matura, quando ci si confronta con chi hai di più caro e se ne va. Come nel romanzo, alla morte dei cari si spalanca la finestra, in modo che l’anima se ne va e dici “a buon luogo”. Facendo questi riti si ha l’accortezza e la serenità di saper convivere con la morte. Nel mio personale, superata la mezza età, ho avuto modo di confrontarmi con i passaggi di nonni, zii, cugini, parenti che se ne sono andati. Verificando ogni volta la serenità, che si compendia in un semplicissimo verso, una preghiera: da Dio veniamo a Dio torniamo, o meglio, da Lui veniamo a lui torniamo.
Dai manifesti Vota Nono Buttafuoco al presepe Leonfortese quanto c’è del suo personale e quanto di altre sue opere?
Di autobiografico nulla, di mio tutto. Mi ricordo una cosa che insegnava nella pratica della scrittura Eugenio Scalfari: farsi spugna. Immergendosi nei fatti, prendere tutto quello che hai intorno e poi poco a poco sviluppare il racconto.
Ci sono gli dei, il demonio, la morte. Che ruolo hanno il soprannaturale, il sacro, il numinoso nella sua opera?
Ci sono sempre. Anche se prima non avrei saputo trovare il modo di spiegarle. Ora, dopo aver letto Henry Corbin e la sua idea dell’immaginale ho le parole per spiegarlo. Per esempio, ci siamo sentiti prima telefonicamente poi ci siamo visti per realizzare questa intervista. Ed io e te ci portiamo dentro in interiore homine, un qualcosa che poi ha un risvolto nell’esterno. Perché intorno a noi ci sono delle presenze che albergano, che ci stanno accanto, a volte ci fanno divertire. Corbin ci dice che possiamo avere vicino presenze luminose o presenze pestifere, come il Famelico del mio romanzo. Bisogna incominciare a imparare ad abituarsi a guardare con lo sguardo, non solo con gli occhi. Osservando con il cuore, con la mente, con il sangue. Ricordando sempre che il mondo dietro il mondo è abitatissimo e bisogna saper affinare la capacità di saperlo guardare attraverso la sensibilità, l’immaginazione, l’arte. Che ci aiutano a capire e a decifrare il reale. Per esempio mi è capitato di risentire un brano di Santana, Soul Sacrifice, eseguito per la prima volta a Woodstock, che ho ascoltato da giovanissimo, e mi mancavano le parole per esprimere ciò che provavo. Poi sono passati gli anni, mi sono laureato in filosofia, e al teatro greco di Siracusa ho capito che Soul Sacrifice non era altro che una messa in rock delle Baccanti di Eurupide.
E cosa ha capito?
Che l’arte ha la capacità di catturare ciò che c’è, che permane, che è eterno nella storia. Bisogna saper leggere l’alfabeto attraverso cui individui le cose che hai addosso. Quel dionisismo che c’era e c’è sempre. Per cui l’artista non va oltre per staccarsi oltre la realtà, ma quanto meno per decifrarla, per entrare dentro il suo segreto.
Ottavia è un personaggio neroniano tra Emma Bovary e Faust, la cui storia più che quella di un moderno Divorzio all’italiana ricorda più quello di un Delitto e castigo di Sicilia…
Mi sono reso conto che ogni volta che mi metto a raccontare queste storie, che vivono nel tessuto vivido della Sicilia, sono sempre le donne ad essere le carismatiche artefici del suo destino. Ottavia si fabbrica il destino da sé. Portandosi dietro una serie di paradossi che la accompagnano. Come il fatto che una giovane donna bella e ammaliante viva in un mondo così lontano da sé, con un marito non alla sua altezza e una suocera tirannica. Poi, devo ammettere, ho avuto il vantaggio che non ho dovuto fare uno sforzo di fantasia. Mi sono limitato ad ascoltare, a spiare, a farli parlare sulla scena.
Nel romanzo al tema manniano della seduzione diabolica si alterna quello religioso della redenzione, di quell’arcangelo cieco che è Delacroix. Quanto la religione influenza la sua visione dell’arte e dell’uomo e quanto il soprannaturale e il farsesco nelle sue opere risulta essere un trampolino per il sacro per l’assoluto?
È una domanda difficile con cui risponderò con una risposta facile. C’è molto più di impronta sacrale nella maschera di biacca con cui Ettore Petrolini costruiva il suo Gastone, di quanta se ne possa trovare nelle produzioni confessionali o etiche. La sacralità è l’involucro che tutto si prende nell’interiore e tutto investe ciò che è nell’esteriore. Io mi ci infilo come un topo nel formaggio. Come quando trovi un uovo gallato e c’è la puntina di un qualcosa che può diventare altro. Per questo non sono abituato a fare delle distinzioni tra amor sacro e amor profano. I personaggi della misericordia che nel libro entrano in scena anche attraverso altre raffigurazioni, come Padre Cesare Montalto, che esercita più la pietà che la carità. Forse è più pagano che confessionale. Oppure, allo stesso tempo, Delcroix che si fa carico di un’ansia di catturare una donna e sottrarla alla sua dannazione, incaricandosi di una fatica di verità. Personaggi che si muovono sempre sul sentiero della misericordia. Ricorda sempre che la sura aprente del Corano contiene già nella descrizione di ciò che è clemenza e misericordia, foneticamente, il rumore del ventre della donna quando si appresta a far l’amore
Il mondo che descrivi è così lontano e fuori dagli schemi, ricco di libertà di contaminazioni. Tra Il grande Gatsby e Le diaboliche, la Sicilia dell’entroterra gattopardesco. E quel mondo sensuale ma libero. Come si è accostato a tale contesto e quanto è lontano dal nostro mondo?
Trafficando in quello che è il cosiddetto backstage del romanzo, fatto di materiali, fotografie, scorci, racconti e incastri, la questione sfacciata è proprio questa. Oggi, nel 2021, è inimmaginabile un contesto così libero, da tabula rasa, in cui puoi costruire di tutto. Quel mondo degli anni ’50 è sicuramente più libero ed aperto di quello che stiamo vivendo. Noi ci stiamo infilando in un’apnea succube della peggiore inquisizione, esclusiva e chiusa. Perché in ogni puntino della nostra carta geografica nessuno si sentiva periferia, nessuno era escluso.
*In copertina: Pietrangelo Buttafuoco ritratto da Sergio Nazzaro