Thomas S. Eliot ne era ossessionato. In un saggio del 1950, Cosa significa Dante per me, nella consueta prosa un po’ sussiegosa, spiegava: “Ciò che si continua a imparare da Dante desidero sottolinearlo in tre punti. Il primo è che tra i pochissimi poeti di una simile statura non c’è nessuno, nemmeno Virgilio, che sia stato un più attento studioso dell’arte della poesia o un più scrupoloso, accurato e consapevole professionista del mestiere… La seconda lezione di Dante è quella dell’ampiezza della sfera emotiva… La Divina Commedia esprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di sperimentare”. Terzo punto: “Dante è, rispetto a tutti gli altri poeti del nostro continente, di gran lunga il più europeo. È il meno provinciale, eppure… nessuno è più locale di lui”. Il primo saggio su Dante, Eliot lo pubblica trent’anni prima, ne Il bosco sacro.
Che cosa sei dunque o Divina Commedia? Un’opera maldestra del piccolo Dante?… Un’opera mostruosa dell’ignobile Dante? Una declamazione retorica dell’ipocrita Dante?… Un’irrealtà
Witold Gombrowicz
Tutti passano al vaglio di Dante e di Dante fanno un feticcio, un soprammobile, un tabù. Per Ezra Pound “Solo Shakespeare fra tutti i poeti inglesi può reggere il confronto col Fiorentino”; Witold Gombrowicz, piuttosto, si divertiva a lordare il titano, cioè a lottare contro un’epoca, una cultura, un ‘metodo culturale’: “Che cosa sei dunque o Divina Commedia? Un’opera maldestra del piccolo Dante?… Un’opera mostruosa dell’ignobile Dante? Una declamazione retorica dell’ipocrita Dante?… Un’irrealtà?”. Secondo Prezzolini, come si sa, Dante “resta il più grande degli Antitaliani, come potrebbero chiamarsi i giudici severi e i critici implacabili degli Italiani”. Abbiamo ancora l’impeto di affrontare con questa furia le grandi opere, di fronteggiare Dante con l’ardire dell’amore?
In previsione dei settecento anni dalla morte – che cadono nel settembre del 1321 – l’editoria pullula di reliquie dantesche e di commenti di dubbia altezza. La risorta Vallecchi ha pubblicato Dante nostro padre. Il pensatore visionario che fondò l’Italia, affidandosi a Marcello Veneziani, il quale, oltre a un saggio dal piglio epico – “Quando il mondo sembra crollare, le civiltà precipitano, i popoli sono disorientati, la solitudine globale prevale, la strada maestra è una sola: tornare al principio e ai principi da cui principiò il nostro cammino” – e filosofico, architetta una “Antologia critica” insolita – vi sono testi dal Convivio, dal De Monarchia, dalle Epistole dal Questio de Aqua et terra –, fieramente al di là delle banalità scolastiche, orientata per temi (Amore, Sapienza, Lingua, Politica, Mondo). Quando mi hanno invitato, manco fossi Iosif Brodskij, in Finlandia, per un ciclo di incontri su Dante, in italiano – lassù nel grande Nord vanno pazzi per il Poeta – mi concentrai sul tema dell’esilio. La Commedia è il poema dell’esilio: l’Inferno è “l’etterno essilio”, è vero, ma è la vita in sé a essere un esilio da Dio. “Da essilio venne a questa pace”, scrive Dante a proposito di Boezio, incastonato nel decimo del Paradiso. In questa caduta verso l’alto, esilio da sé, dai nomi, dalle differenze e dal dicibile, con un ago di nostalgia per ciò che è carnale, pare il genio del poema – una consolazione bianca, forse.
“Dante fondò l’Italia ma l’Italia gli voltò le spalle”: che cosa intendi dire? Quanto l’Italia che è stata corrisponde alle attese di Dante?
Dante fu profeta inascoltato. La sua profezia politica restò sospesa e negata per secoli, poi fu ripresa nel Risorgimento ma con esiti e intenzioni diversi rispetto a quelli danteschi. Dante non fu solo il Padre d’Italia ma fu anche il Padre degli antitaliani, ovvero di coloro che si sentirono innamorati traditi dall’Italia e ne descrissero le viltà, i tradimenti e le contraddizioni. E tuttavia, la civiltà italiana più che la nazione, e la nazione più che lo stato, trovarono in Dante il loro maggiore ispiratore, in quella sintesi di romanità e cristianità, di lingua, cultura e bellezza di cui si sostanziava “la vision de l’Alighieri”.
Cosa penserebbe Dante di questa Italia? Ti chiedo, cioè, di precisare, anche con i concetti odierni, il pensiero politico di Dante. Nel tuo studio, in effetti, convochi diversi maestri, remoti o presenti, da Quadrelli a Guardini.
Sono sempre cauto ad attribuire ai grandi del passato pensieri e apprensioni del presente, o sovrapporre il mio sguardo al loro. Ma stando al conflitto che Dante ebbe col suo tempo, anche in questo caso, immagino Dante in polemica, “sovranista” in linea di principio ma antitaliano in via di fatto. Il pensiero politico di Dante è legato al mondo classico e alla nostalgia del Sacro Romano Impero, ritenendo che la potestas politica abbia una legittimazione spirituale diretta, non indiretta o derivata dalla Chiesa ma discesa direttamente da Dio.
Ancora meglio: mi piacerebbe approfondire con te il legame tra poesia e politica. L’Italia è fondata da un poeta, da un grande poema, intriso di politica. Cosa ne è stato di quell’impeto?
L’Italia è rimasta nella sua sostanza una nazione culturale, o letteraria, disegnata da Dante e poi Petrarca, Machiavelli e Vico, Alfieri e Manzoni, e gli autori risorgimentali che sappiamo. Ma anche i grandi artisti e musicisti… Dante fu il primo ad applicare la geografia poetica di cui poi scrisse Vico. E fu il primo a capire che, come dice Hölderlin, ciò che resta lo fondano i poeti. L’impeto si è perso e alterato ma la sua radice è quella: ed è la ragione per cui l’Italia non è mai stata una compiuta nazione politica, se non in brevi periodi della sua storia, di solito finite tragicamente.
Parli di “inattualità di Dante”: che cosa significa?
Dante amò e cantò il passato, il futuro, l’eterno e fu in conflitto permanente col presente e in genere con ogni attualità. Ho sottolineato l’inattualità di Dante, che è poi l’inattualità dei classici, anche in polemica col tentativo che parte dal ’68 a oggi di attualizzare a tutti i costi i grandi del passato o deplorarli e censurarli alla luce dell’attualità presente e del politicamente corretto che è il suo canone, il suo catechismo. Dante non ebbe eredi e restò nella maestosa solitudine della sua “poesia pensante”, rara figura di poeta intellettuale.
“Dante fu un glorioso sconfitto dal suo tempo e anche dalla storia che ne seguì”: perché? Forse un destino di sconfitta giace sull’Italia, in sé?
Si potrebbe rispondere che a una nazione letteraria si addice più lo splendore delle sconfitte che il successo delle vittorie. Ma non solo di questo si tratta. L’Italia è da secoli considerata luogo di conquista, per la sua posizione geografica, un’esile creatura al centro della culla mediterranea, le sue bellezze, la sua storia, il ricordo dell’Impero romano, la sede di Pietro… La poesia di Dante – e quasi tutta l’opera – nasce comunque dalla rielaborazione di una sconfitta, di un lutto, di un esilio, comunque di una perdita. Basterebbe pensare che quasi tutte le sue opere, eccetto le rime giovanili e la Vita nova, sono state concepite nei vent’anni di esule.
Riassumi in un concetto, in un giro di terzine la grandezza di Dante, la sua possente ‘presenza’, oggi.
Pensatore celeste, visionario d’amore e fondatore d’Italia, Dante è il nostro principio e la nostra origine. Com’egli scrisse nel Convivio: “Lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima della natura dato, è lo ritornare a lo suo principio”. E noi torniamo a Dante, con intelletto d’amore.