Lo dicono alieno, ma non fanno a meno di lui. È un’arte consolidata, e tutta italiana, quella di spingere i liberi pensatori ai margini dell’arena, perché al primo manrovescio – il colpo che va da sinistra a destra, appunto – siano oggetto di una conventio ad excludendum. Eppure Pietrangelo Buttafuoco, dai duelli coi baccalari del giornalismo, è sempre uscito vincitore di penna e di dialettica. Quando strappò a Norberto Bobbio l’autodafé in tema di arrivismo giovanile, Gad Lerner gli inflisse un pubblico rimprovero per il “rovistare impudico”, per la “violenza sorridente” di quell’intervista. A nulla valse. Dell’incontro con Bobbio, raccontò che alla domanda “scusi, Buttafuoco, ma lei perché è fascista?” lui rispose: “professore, confidenza per confidenza, neppure io lo sono”. Esperienza, quella dell’abbraccio tra opposti, ripetuta più tardi con Eugenio Scalfari, il maître à penser della madrasa di Repubblica.
Catanese impenitente, classe 1963, del saracino ha la fede e l’ostinazione, in forza di un jihad tutto personale contro le ostruzioni della nostra classe intellettuale. Seguì in gioventù le orme di suo zio, il parlamentare missino Antonino Buttafuoco, militando tra le fila della destra radicale, nei cui giornali di riferimento fece carriera fino alla vera epifania giornalistica, avvenuta alla redazione del Foglio di Giuliano Ferrara, che fu vero incubatore di talenti. Dai suoi migliori articoli nacque nel 2002 la raccolta Fogli consanguinei.
Il primo romanzo di Buttafuoco, Le uova del drago (2005), contiene in nuce lo stile e i motivi della sua letteratura. Riscoprire storie di un passato che abbiamo banalizzato ed epurato, ma che è parte di ciò che siamo diventati; ritrovare nel contemporaneo i segni del sacro che per decenni abbiamo aborrito; rovesciare le narrazioni più diffuse, privilegiando una visione poetica, se non magico-religiosa, del mondo. Fino al “ritorno” all’Islam, i cui harem di pensiero non sono estranei a precisi riferimenti intellettuali della cultura europea, Goethe e Carlyle su tutti, e che Buttafuoco elegge ad “approdo di nostalgia” per le future generazioni di europei, quale fu il mondo greco per la gioventù romantica tedesca. Per sfuggire al “guasto gusto dell’impero irresistibile”, l’Occidente americanizzato, generazioni di europei si volterebbero a Oriente – a riconferma del reiterato ripetersi della storia – trovando un insieme di figurazioni eterogenee ma simpatetiche, un fritto misto che va dalla Spada dell’Islam di Mussolini alle avventure di Amedeo Guillet, dalle ambientazioni esotiche di Corto Maltese al platonismo dell’ayatollah Khomeyni, condito infine di antipatie verso capricci e ghiribizzi della modernità: forme essoteriche di un esoterico ristoro spirituale. Siamo già ben oltre la destra, che per Buttafuoco altro non è che “la sinistra al culmine della sua fase senile”, capace di rinnegare la propria storia pur di muovere contro il sacro una guerra per procura, in nome della democrazia e della libertà, due parole che nel suo lessico odorano di illusione. Su queste idee si intrecciano trama e ordito di Cabaret Voltaire (siamo nell’ormai lontano 2008) e de Il feroce saracino (2015), il pamphlet in cui riflette, in piena stagione terrorismo, sul nostro rapporto problematico con l’Islam.
In televisione si è ritagliato il ruolo di rapsodo, per la sua capacità di fare della cronaca canto d’epica, senza sottrarsi ai battibecchi con i corvi della “scuola beneducata della democrazia”, sia essa impersonata da Corrado Augias o da chicchessia, e conservando per i momenti di tristezza il sermone pretesco, dai risultati comici, con cui Michela Murgia accompagnò la stroncatura di La notte tu mi fai impazzire, uscito per Skira nel 2016. Non aveva letto – lei, sempre così accurata – le pagine di Fimmini, il libro che Buttafuoco ha dedicato nel 2009 alla donna, la creatura che “con le gambe, lo stile, le belle braccia, gli occhi e il calcagno prepotente è la macchina più che compiuta dello Spirito”. E non desidera essere “compresa, bensì presa”.
Bordate ovvie, quelle che dà e riceve, ma che può incassare con noncuranza soltanto chi fa del giornalismo una professione “di cinismo, di pelo sullo stomaco, di arrivismo, di intrighi”. Vizi che non sono mancati a Leo Longanesi, l’alter nos degli italiani, delle cui pagine Buttafuoco si è nutrito fino a pubblicarne nel 2016 una personale antologia, Il mio Leo Longanesi. Ultimo, in ordine di tempo, Salvini e/o Mussolini.
Salvini e/o Mussolini è il cortocircuito perfetto del dibattito pubblico. Un paragone impietoso che ridimensiona la figura del segretario della Lega e allo stesso tempo ridicolizza le argomentazioni dei suoi avversari. Come hai coltivato l’idea? Quanto ti sei ispirato a Jefferson e/o Mussolini di Pound?
Più che ispirazione, è un pretesto. Il mio è il mestiere costruito sulla superficialità, quindi sono tanti i dettagli che tu devi connettere per decifrare ciò che sta capitando. Ovviamente è singolare che il libro sembri già di un’era fa, adesso tutto è cambiato e sembra lunare perfino parlarne, pur essendo passati pochi mesi. Però il cortocircuito rimane; ma è un cortocircuito che conferma un arretrare del dibattito a schemi quasi novecenteschi. Al tempo del cosiddetto governo giallo-verde c’era l’illusione che fosse finito definitivamente il Novecento, che non ci fosse più l’isteria degli schieramenti destra-sinistra. Adesso invece è ritornato tutto, ed è ritornato con una prepotenza perfino preoccupante, tant’è vero che lo schema di separatezza tra italiani buoni e cattivi è diventato ancora più forte, ancora più drammatico. La pandemia ha individuato nell’attuale governo una sorta di Grande Fratello che controlla tutto non solo in termini di incasellamento delle esistenze, ma anche di drammaturgia e di sceneggiatura. Chi se lo poteva mai immaginare che “il grande vecchio”, quello che ha accompagnato le stagioni più cupe d’Italia, dagli anni Settanta fino al culmine degli anni del terrorismo, di volta in volta individuando una mente che ordisse le trame più inquietanti, fossero quelle del terrorismo, quelle della mafia, quelle delle relazioni internazionali, si affidasse oggi al confessionile – o confessionale, che dir si voglia – del vero, unico Grande Fratello, Rocco Casalino. Sai, sono i paradossi della storia.
Sul fatto che il libro sembri “di un’era fa” pur nella sua valida attualità, mi viene in mente di aver notato di recente sulla costa di un libro il titolo Matteo il conquistatore. Lì per lì si penserebbe a Salvini, invece…
Invece era Renzi. Sembrava dovesse essere il nuovo Amintore Fanfani, quello del “rieccolo” e, invece, è soltanto il nuovo Susanna Agnelli della politica: un 3% di consensi e però potenti relazioni internazionali.E comunque non riesco a leggere in lui alcuna grandezza. È vero che hanno più poltrone che consensi. Non me l’aspettavo che finisse così. Sai, lui si è fatto forte di rapporti internazionali, di un sostegno del mainstream, tutto questo però non ha avuto esito. Non me la sento di immaginare per lui un futuro nella scena politica italiana. Anche lo stesso Salvini – sarà l’omonimia – deve riposizionare le sue strategie di conquista. Se ci pensi, quando fece cadere il governo nell’agosto scorso, con tutti che gli dicevano “stacca la spina, stacca la spina!”, nessuno – e neppure lui stesso – a capire come sarebbe andata a finire. E cioè che quelli del Pd, il partito del sistema, si sono presi pure il contatore.
Il libro ricorda il Dizionario dei destrutti che ti costò la permanenza a Panorama. Che reazioni hai ricevuto dall’ambiente culturale leghista?
Conosco bene quel mondo, l’ambiente culturale leghista. Ha un’effervescenza e una forza che vengono dalla sua stessa essenza, basti pensare a quella fornace di intelligenza, di qualità e di confronto intellettuale che è Terra Insubre, a Varese, oppure la realtà veneta. È un mondo molto più vivo di quanto possa esserlo la sinistra, dal punto di vista del dibattito culturale. Ha delle curiosità e delle aperture che la sinistra si sogna.
Eppure sembra non trovare spazio a livello politico, perché la Lega dà una rappresentazione di sé che trova sintesi nel binomio ruspa&mojito.
Da sempre, dai tempi di Bossi, la Lega predica male e razzola bene. Se fossi in Veneto, avresti pochi dubbi a confermare l’assetto politico-amministrativo della Lega.
Parliamo di te. C’è tanta Sicilia nei tuoi libri, nella tua mimica, nella tua prosa. Bufalino distingueva le identità dell’isola in furba, “sperta”, frenetica, pigra, “babba”, mite e stupida. Tu ne hai aggiunto una: “buttanissima”. In quale Sicilia ti riconosci?
Nella sua totalità. Vedi, noi siciliani abbiamo un grande vantaggio rispetto agli altri, un po’ ci dispiace che gli altri non siano come noi. Abbiamo una dimensione che è quella dell’universale. Noi non possiamo mai e poi mai essere considerati nazionalisti o sovranisti, in virtù della nostra dimensione universale. Hai mai riflettuto sul fatto che potresti raccontare la storia del mondo restando comodamente in Sicilia? Potresti raccontare la civiltà ellenica, potresti raccontare la civiltà romana, quella persiana, perfino quella indiana, se Muhammad Iqbal, nella sua traversata dall’oceano Indiano verso la Gran Bretagna, costeggiando la Sicilia, senta il bisogno di far sgorgare da sé il poema più bello sul nostos, sul ritorno, dedicato proprio all’isola. Lo stesso si potrà dire della Russia, figurarsi poi delle Americhe, dell’Africa. Potremmo benissimo orchestrare – l’unico che potrebbe farlo, secondo me, è Rosario Fiorello – un musical dove fai la storia del mondo in Sicilia, perché te la racconta per intero dagli albori della civiltà a oggi. Fino a Lampedusa, dove arrivano tutte le storie.
Un po’ di attualità. Sei stato tra i pochissimi a dire che il lockdown è stata una scelta imposta dalla paura, una scelta da uomini non liberi.
Ho fatto un esperimento. Ogni giorno ho messo a confronto i giornali italiani e quelli tedeschi. Allo stesso modo i telegiornali e poi i talk-show. Ho cercato di capire se ci fosse una differenza, e l’ho trovata nel fatto che in Italia c’è un sovrappiù di psicotico che alimenta il senso di colpa nelle persone e scatena poi atteggiamenti duri, contraddittori, assolutamente assurdi. Gli italiani hanno dovuto sopportare quanto di peggio si potesse organizzare con questa specie di esperimento sociale. I tedeschi non hanno l’ossessione di raccontare il coronavirus così come in Italia è stato fatto. La cosa che mi ha turbato è che, per esempio, la Rai è stata una macchina mostruosa di mobilitazione intorno a quest’ansia, a questa preoccupazione. Il virus della paura ha portato a quella che in psicologia si chiama l’attenzione indotta. Ti pare normale che perfino gli spot pubblicitari siano fatti adesso con la mascherina in faccia? Una cosa che mi ha colpito, nella differenza tra Italia e Germania, è che la Germania ha responsabilizzato i suoi cittadini senza farne dei sudditi timorosi. Ovviamente loro [il governo italiano] mirano più al consenso che alla soluzione dei problemi, altrimenti tutte queste norme contraddittorie, folli e bizzarre non avrebbe senso metterle in atto. Però è da pazzi accettare lo status quo in una condizione simile. Non puoi fare un decreto e mettervi trecentocinquanta pagine, è una sorta di vademecum per accompagnare le persone alla follia. Al virus del Covid-19 si aggiunge il virus della paura, che determinerà il virus della povertà e della miseria, ancora più spaventoso.
Eppure, ciò detto, questo modo un po’ parossistico di convivere col virus e di raccontarlo non ha forse molto del modo tutto italiano, teatrale, di vedere le cose?
No, anzi! Sto qui a cantare, a gridare, a reclamare; ma tutta quella meravigliosa anarchia dov’è finita? Gli italiani si sono dimostrati il popolo meno anarchico in assoluto. Sotto sotto speravamo che l’anima anarchica uscisse fuori in questa vicenda, invece no. La paura è stata fortissima, hanno cancellato con la stretta di mano perfino il bacio, ti rendi conto? La procura della Repubblica di Torino ha dovuto accogliere la denuncia di un delatore che alle due di notte si è accorto di un ragazzo e una ragazza, appena diciottenni, che si baciavano, e ha chiamato la volante per farli arrestare. Che cosa siamo diventati? Vorrei vederlo fisicamente, uno che alle due di notte si affaccia alla finestra, si accorge che in una via deserta ci sono due ragazzi che si baciano e chiama la polizia.
I giornali hanno alimentato tutto questo.
Beh, evocare i giornali è prendere il considerazione il minus. La cosa che mi ha turbato è stata l’orchestrazione nella sua totalità. Ho trovato insopportabile la retorica ansiogena, le celebrità e gli artisti che dicevano “resto a casa e leggo, resto a casa e suono, resto a casa e creo”. Erano slogan fatti da star che, nell’agio dei loro appartamenti, sollecitavano questa estetica mortificante dell’ansia e della paura, dall’alto dei loro privilegi. È una cosa che ho trovato insopportabile: prestare la propria arte e la propria capacità di stare in scena, accontentandosi di queste porcherie di collegamenti via Skype e sacrificando quella che è la vera macchina scenica, la vera macchina teatrale, che è fatta di tecnici, di elettricisti, di costumisti, di sarti, di tutta quella pletora di invisibili che determinano poi la meraviglia del palcoscenico. Ho trovato osceno questo compiacersi di etica, quando dovrebbero capire che il fondamento è sempre quello della rivolta estetica, perché solo l’Italia ha questa masnada di solerti plaudenti del potere. Quando mai un artista è stato così lacchè nei confronti del potere? Solo in Italia succede che gli artisti siano trasformati in gendarmi della pubblica morale. E pensa anche all’altra pletora insopportabile che è stata quella degli esperti, dei virologi, dei tecnici, di quelli che ci dovevano dire le cose e le dicevano contraddicendosi dalla mattina alla sera, litigando tra di loro. Abbiamo già dimenticato chi ci veniva a dire che sarebbe stato più facile l’arrivo di un asteroide piuttosto che del coronavirus? E che lo dice e lo proclama nella rete Rai, a Che tempo che fa, dove ogni settimana ha seguito la scaletta, la sceneggiatura, la drammaturgia di un’unica contraddizione, tutta bruciata sulla pelle degli italiani, con avallo del servizio pubblico. È possibile mai che non ci sia stata una sollevazione, un moto di disobbedienza, un minimo di spirito critico per discernere quest’unico racconto? Non c’è mai stato.
Lo stato del giornalismo è quello che conosciamo. Una volta hai detto che per fare il giornalista bisogna armarsi di cinismo e pelo sullo stomaco. È così?
Io temo che tu stia sopravvalutando il ruolo del giornalismo. È minimo. Più che altro, il lavoro di indottrinamento è stato fatto dalla totalità delle cose.
Hai fatto riferimento alla rivolta estetica. Leggendoti, ho avuto spesso la sensazione che tu venga da quella tradizione italiana che privilegia l’estetica rispetto all’etica, penso soprattutto a D’Annunzio e Malaparte.
Ecco, ti interrompo, vorrei dire una cosa. Io non ce la faccio più. Secondo me dovremmo smetterla di appoggiarci a questi giganti del passato. Il vero problema è che al di là di quello che ci stiamo dicendo io e te, nessuno sa chi sia Malaparte, chi sia D’Annunzio. Parliamo a una realtà come quella italiana, dove tutto il corredo d’importanza è franato, e quanto più noi stiamo radicati a quel corredo, tanto più produrremo un’atmosfera da centrini e merletti, da cose con cui non puoi fronteggiare la realtà. Non ci sono le ricette della contemporaneità in tutto questo corredo di meravigliosi autori. Neppure Dante, figurati, neppure Dante! Noi abbiamo necessità, adesso, di avere la cognizione di ciò che sta accadendo, e la cognizione di ciò che sta accadendo ce la dà, in assoluta freddezza, un’identità che è costruita soltanto negli istinti di questo popolo, se esiste ancora questo popolo. Rifletto su un fatto: molti dei nostri ragazzi sono incapaci di stare concentrati più di tre minuti su una pagina, hanno un corredo linguistico scarso e non sono buoni neppure per essere adoperati nella bassa forza del sistema di produzione contemporaneo, figurati di quello futuro. Perché gli immigrati che arrivano da noi hanno un grande vantaggio rispetto a loro: intanto sono poliglotti, cosa che non sono i nostri; poi hanno un riferirsi alla loro origine che contiene bagagli di millenni. Provo a spiegarmi. Un ragazzo pakistano, indiano, coreano, cinese o africano riesce comunque a decifrare la memoria della propria identità da oggi a mille anni fa, ce l’ha tutta addosso. È inimmaginabile pensare che un qualunque indianino che arrivi a Londra, a Parigi, a New York, a Mosca, non abbia la consapevolezza del Bhagavadgita. Ce l’ha. Mentre qualunque piccolino della provincia o delle città italiane non sa neppure dell’esistenza dell’Iliade, manco se la immagina; forse avrà visto Troy, però non lo sa mettere insieme. Tutto questo è un vantaggio anche nella bassa forza, figurati nelle grandi specializzazioni, nell’innovazione, nella tecnologia. Per cui basta: lasciamo stare i vecchi autori, abbiamo bisogno adesso di concentrarci sulle cose concrete.
Di recente sei approdato alla rivista Civiltà delle macchine, rivista che ha come scopo quello di ripensare il rapporto tra l’umano e la tecnica.
È sia rivista che giornale, nel senso che il sito ha un lavoro quotidiano, seguendo l’attualità dal punto di vista che possiamo portare noi, che è quello della cultura intesa in senso vero, completo, concluso, che è quello della tecnologia, dell’innovazione, dell’industria, un punto di vista che fa riferimento a ciò che poi è nell’essenza di un’identità italiana, cioè l’ingegno. Abbiamo alle spalle Leonardo, Galilei, Marconi, abbiamo quell’idea completa di costruzione dell’umano che deve, per forza di cose, essere prassi. È una riflessione su cui ha spaccato il capello in tutte le possibili varianti un capolavoro della filosofia che si svela nell’opera di Giovanni Gentile. Ecco, sono le cose che cominciano a essere concrete, perché l’emozione è quando vedi alzare in volo le Frecce Tricolori, e in realtà stai vedendo alzare in volo l’ingegno che queste ragazze e questi ragazzi mettono nel saper costruire – nel perfetto equilibrio di misura, numero, razionalità, fantasia – la tecnica. Non c’è niente di più emozionante che vedere le ragazze e i ragazzi col camice lavorare negli stabilimenti.
Oltre a questo lato positivo, c’è tuttavia quello negativo. Per esempio, i mutamenti portati dal Covid-19 ci orientano sempre più verso l’organizzazione imposta dall’apparato tecno-scientifico. Sembra quasi che la politica non abbia più un compito.
I virologi si sono sostituiti a quelli che fino a qualche anno fa erano i magistrati. Ricorderai la retorica per cui “attenzione, la mafia rialza la testa”. Sostituisci la parola, il titolo è uguale: “attenzione, il virus rialza la testa!”. Quando la politica cede il passo agli esperti, gli esperti prendono il sopravvento costringendo poi la costruzione della città a regole che sono inapplicabili nelle dinamiche sociali, altrimenti non potremmo mai immaginare di costruire un’infrastruttura, perché se stai fabbricando un ponte, un’autostrada, una scuola, di sicuro è alta la probabilità che la corruzione si celi dietro questa operazione, e allora per evitare che non arrivi la corruzione tu non fai la scuola, non fai l’autostrada, non fai il ponte. Allo stesso modo, per la paura della malattia non esci di casa. Però siamo di fronte a un bivio: se non esci di casa, muori di fame; se esci, forse muori di coronavirus. E la costruzione della civiltà è in quel forse, il forse è la sfida, e nella sfida c’è il Prometeo che sa di rischiare l’ira di Zeus, ma lui qualcosa la fa – poi è finita che gli rosicchiano il fegato ogni giorno, però ha restituito agli altri una possibilità di vita. È una vita che vale la pena di essere vissuta, quella del lockdown? Mi pare di no. La dignità è più importante.
Nel mondo che va verso la tecnica, chiedo a te, scrittore: quale ruolo hanno la poesia e la letteratura?
Ieri con un mio amico, Fabrizio Cutarelli – l’Efesto digitale de Il Foglio – mi sono beato a vedere il video non di oggi, ma del 2013, della Mercedes SL. Credimi, nel suo movimento, nello squadernare del motore, nei dettagli, sembrava di godersi una pagina di Hölderlin. Quando ascolti l’ascendere delle note di Bach, dove le ritrovi? Le ritrovi, per esempio, nella capacità tutta verticale di raccontare il GLK Mercedes. Ha un’aria propria degna di Bach. A osservare vecchie foto della SL, celebre modello Mercedes, puoi rivederla con gli occhi di von Karajan, nelle Alpi, che se la guida godendosela. La techne è un prolungamento della nostra capacità. Il poeta è figlio di quella fabbrica, di quella officina, altrimenti non avrebbe mai inciampato nel linguaggio, nell’assecondare questa idea della costruzione.
Hai scritto che il tuo sovranismo è quello di Cyrano de Bergerac, il modo per rimarcare una personale libertà. È una figura a cui ricorri spesso. Perché ti affascina così tanto?
È una fascinazione che ho da quando ero bambino. Lo vidi per la prima volta per caso, in tv, poi a teatro in tante versioni. È bellissimo anche Cyrano Mon Amour, il film, che in realtà è una pièce teatrale. Mi chiedi perché mi affascina. Lì c’è tutto, anche le mie disfatte esistenziali, il fatto che io abbia dovuto rinunciare al giornalismo. Queste disfatte derivano dal fatto che io, da bambino, imparai a memoria la tirata “grazie, no”. E da lì non mi sono mai mosso. Sono ferite, sono sconfitte, e ogni volta quando ti devi leccare la ferita, quando devi rimediare con un unguento o un medicamento, mi ricordo questa tirata di Rostand: “eleggermi un signore, costringersi a prodigi di agilità dorsale? Grazie, no!”. È un manifesto politico: grazie, no.