OGGETTO: Maledetti influencer
DATA: 07 Aprile 2020
Abbecedario sull'arte di imporre stili e consumi, da Gabriele D’Annunzio a Chiara Ferragni.
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La Treccani e il Garzanti lo accolgono dal 2017, il Devoto-Oli e lo Zingarelli dall’anno successivo. In italiano si tradurrebbe come “influenzatore”, troppo cacofonico per essere preferito all’originale inglese. L’influencer è il monarca delle cronache giornalistiche, il campione dei social network, l’odierno domatore dello spirito del tempo. Agisce tanto nel regno della materia quanto in quello dello spirito. Non è raro, infatti, trovare persone che giustificano le proprie scelte di vita sulla base di argomenti spremuti dalle stories delle star.

All’abilità dei Mastrota televisivi, capaci di farci sentire la necessità delle merci più futili, gli influencer accompagnano quella dell’opinion maker, categoria ormai scomparsa dal radar dei teorici della comunicazione. Che qualcuno veicoli le nostre scelte individuali non è notizia dell’ultima ora, e ne abbiamo contezza dacché esiste il pensiero; nuovissima è invece l’idea di farlo cartesianamente, nel modo chiaro e distinto tipico degli influencer. Mi sono concesso allora un divertissement letterario, in forma di abbecedario, che scongiurasse il noioso rito della predica moralista contro gli influencer, e ho immaginato scrittori e poeti del passato – di cui tutti abbiamo riverenza e religioso rispetto – come influencer ante litteram, confondendoli nella bizzarra fauna dei personaggi che popolano il nostro feed di Instagram.

A

come anello

Il più stravagante dei monili. Dice agli altri di noi e insieme serve da memento a noi stessi. Prosper Mérimée aveva fatto incidere all’interno nel suo anello un monito: «ricordati di diffidare». Nelle statue di Oscar Wilde a Dublino, lo scrittore è rappresentato con i monili che indossava in vita, due anelli con scarabei incastonati, uno segno della fortuna, l’altro della cattiva sorte. Ai più curiosi rispondeva che li portava entrambi perché «per poter essere felici ci vogliono le disgrazie». Non c’è eccentrico che non ne portasse almeno uno. Joyce ne aveva molti, li perdeva spesso. D’Annunzio ne portava uno d’oro a mo’ di amuleto il giorno del volo su Vienna. Pregiatissimi erano quelli di Voltaire; ma non quanto l’anello tempestato di diamanti, prezzo 50 mila cucuzze, donato da Fedez a Chiara Ferragni per il suo compleanno. L’anello unisce, l’anello divide. Pomo della discordia tra l’influencer Elena Morali e il suo rampante ex, Daniele di Lorenzo, sarebbe un anello da lei rubato. Il cadavere del generale iraniano Qasem Soleimani, assassinato lo scorso gennaio da un drone statunitense, è stato identificato grazie all’anello rosso che portava al dito. Un giornalista del New York Post ha chiesto a vari esperti quale fosse il valore di quell’anello, mostrandone le foto. Tutti erano concordi: valeva pochissimo. Ma il colore terreo della pietra che vi aveva incastonato era simbolo di umiltà e sacrificio. Il poeta russo Vladimir Majakovskij veniva rimproverato dalla morale proletaria: «compagno, penso che quell’anello non le si confaccia». Appellandosi alla propria libertà, lui replicava che era il motivo per cui lo portava al dito, non al naso.

B

come borse

Notoriamente sgradevoli quelle sotto gli occhi. Contro tale piaga l’influencer propone decine di creme e maschere, ma per sé preferisce Photoshop.

C

come corna

In un articolo pubblicato su questa rivista, l’amico Alessio Trabucco (nomen omen) si lanciava in una critica dell’editoria e del contorno che la accompagna, scegliendo come esempio paradigmatico il caso di Giulia De Lellis. Se Chiara Ferragni è la regina degli influencer, De Lellis ne è la principessa. Assurta al successo per essere riuscita a fare nulla, ma a farlo bene, la ventiquattrenne romana ha un record tutto personale: il suo libro ha scalato le classifiche degli acquisti ancor prima che uscisse. L’argomento? Le corna – che, a giudicare dal titolo, stanno bene su tutto. La povera De Lellis, nei panni di moderna Era, subisce i tradimenti del suo Zeus, l’olimpico Andrea Damante, sottaciuto benché ridimensionato a suon di letteratura. Degna continuazione di un genere, quello cornifero, in cui tragedia e commedia vanno a nozze. La sera in cui Alexandre Dumas, influencer di generazioni di piccoli moschettieri (chi non ha mai sognato di essere D’Artagnan?), scoprì sua moglie a letto con lo scrittore Roger de Beauvoir, decise di rimboccar loro le lenzuola e, per dimenticare l’offesa, restò per una notte intera a scrivere nella stessa camera. Le corna si fanno letteratura affinché possano volare via come parole. Maestro nell’arte delle corna, il Vate-influencer d’Italia Gabriele D’Annunzio fece impazzire la divina Duse gettandosi ai piedi dell’attrice Madame Simone, nel cui sguardo vedeva – così recitò – «la scintilla che indica la scelta di Apollo». Inacerbita e preda della gelosia, il giorno seguente la Duse spinse l’attrice nella stanza del poeta, chiudendo a chiave la serratura: «Lo prenda, lo prenda, visto che lo ama!». D’Annunzio, per niente infastidito, conversò con Madame Simone per tutto il tempo.

Giulia De Lellis

D

come diverbio

«Se non litighi non sei nessuno» mi disse una volta un noto influencer, attualizzando il motto che Salvini (a suo modo influencer) ripete su Facebook, «tanti nemici, tanto onore», variazione dell’originale mussoliniano che aveva molti al posto di tanti. Si dice che la frase appartenga a Giulio Cesare, ma il primo a pronunciarla fu un condottiero tedesco che durante una battaglia contro la Repubblica di Venezia, vedendo lo scudiero preoccupato per il numero smisurato di avversari, gli disse: «molti nemici di von Frundsberg, molto onore!». Alle liti sono avvezzi gli influencer di ogni nazionalità, ma quelli italiani spiccano per egolatria. Il rapper Fedez dà testimonianza sul web dei frequenti diverbi con la moglie Chiara Ferragni; accade così che lei, infastidita, urli a favor di camera, con eleganza sopraffina: «quel Samsung te lo infilo nel culo!». Per tacere del diverbio tra Antonella Elia e Taylor Mega, che discettano amabilmente su mignottismo e misoginia di fronte agli occhi ingordi di Piero Chiambretti. Stories o giornali non cambia nulla, il diverbio è l’occasione per metterci in mostra, per dire al mondo che esistiamo. Curzio Malaparte, attaccabrighe professionista, in giovane età affrontò sedici o diciassette duelli di spada. Memorabile quello del 1926 contro Pietro Nenni: lo scrittore pratese sfidò il giornalista socialista, ma svenne prima dell’incontro. «Non mangiavo da tre giorni, lo feci notare a Nenni. In quel tempo anche i fascisti, quelli come me, pativano la fame».

E

come ebbrezza

Taylor Mega, al secolo Elisa Todesco, tra le principali finanziatrici indirette dell’industria ottica, nonché Cleopatra dell’entourage dei trapper italiani, viene pizzicata da Barbara d’Urso in stato di ebbrezza durante un collegamento televisivo dall’Egitto; il fuorionda viene trasmesso su Striscia la notizia suscitando l’ilarità generale. Benché friulana, l’influencer da due milioni e mezzo di follower (vedi voce) cede al potere sulfureo dell’etanolo. «Certo che avevo bevuto, però cioè scialla» confida via stories ai suoi fan. «Se andate in Egitto non bevete la vodka, perché quella vodka fa schifo, è benzina, è veleno per i topi». Considerato dalla religione islamica haram, cioè proibito, il consumo di alcol è tuttavia manifestamente tollerato nel paese. L’Egitto produce birra dal tempo dei faraoni, e oggi il delta del Nilo conosce il rinascimento della coltivazione della vite, da cui ricava vini perlopiù mediocri. Le guide mettono in guardia dall’assunzione di distillati come il gin e, appunto, la vodka; tanto che le cronache locali raccontano di bevute fatali per i turisti. Di simile intensità ma di eccelsa qualità è invece l’ambrosia sarda, il cannonau, con cui conobbe la propria disavventura Gabriele D’Annunzio. Il Vate, quasi astemio, sovente ebbro di fiche e di guerra, fu colto alla sprovvista dal Nepente di Oliena, del quale bastò il forte profumo per dargli alla testa. «Io non lo conosco se non all’odore; e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi» scrisse nella prefazione al libro di Hans Barth Guida spirituale alle osterie d’Italia. Irraggiungibile, invece, l’ebbrezza tossica di Paul Verlaine, che cercò di uccidere un amico colpevole di avergli negato da bere: i suoi affetti, preoccupati dall’enorme quantità di assenzio che il poeta francese era in grado di ingerire, cercavano di svuotargli il bicchiere di nascosto. Cinquantunenne al momento della morte, Verlaine visse il suo inferno in squallide camere d’albergo, sopportando l’artrosi, le polmoniti, la sifilide, il diabete e soprattutto la cirrosi epatica, dono del suo amato alcol. «Moi, ma gloire n’est qu’une humble absinthe éphémère / prise en catimini» – la mia gloria non è che un umile effimero assenzio bevuto di nascosto.

“E” pure come egocentrismo, di cui sono campioni i nostri influencer. Longanesi diceva di Malaparte che «è così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto».

Taylor Mega

F

come follower

Seguace. Per gli influencer i follower sono i fanti mandati alla conquista delle proprie ricchezze. Talvolta diventano fiumana. Gabriele D’Annunzio ne aveva migliaia, e lo assecondavano, lo imitavano, sognavano come lui, dunque li chiamava «compagni», termine splendido che – etimo alla mano – significa colui con cui divido il mio pane. «E il nome di compagno s’è rinnovellato come un virgulto che fiorisca e fogli; s’è candidato d’innocenza, è ridivenuto la più dolce e la più fiera parola del linguaggio umano, una parola di comunione e una parola di coraggio, un legame dell’attimo e un suggello d’eternità». Mai parlò il Vate, durante l’impresa di Fiume, di sudditi, di cittadini o di seguaci. Solo di compagni d’anima e d’arme.

G

come gossip

«Gossip is the new pornography» ha detto qualcuno. Francesco Belardi, in arte Social Boom, è il suo profeta, aggiungiamo noi. Un canale YouTube da 400 mila iscritti e quasi 600 video in cui fomenta dicerie, screzi e zizzanie tra i vari personaggi dell’immaginario zoomer e millennial, tribù di rapper, influencer, modelle e streamer, dei quali mostra le storie Instagram. Cesare Pavese, le cui ultime parole scritte su carta furono «non fate troppi pettegolezzi», ne sarebbe deluso. Giuseppe Scaraffia ha definito il gossip «una forma induttiva di conoscenza che tenta di arrivare all’universale partendo dal particolare». Soltanto nei pettegolezzi, dice, troviamo verità delle quali altrimenti saremmo rimasti all’oscuro. Anche Procopio fece del gossip quando scrisse che l’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano, ebbe un passato da prostituta. Nelle montagne di aneddoti e ciarle c’è sempre una parola che rimane. Senza alcun timore verso i malpensanti: «una cattiva reputazione» diceva Jean Cocteau «deve essere mantenuta con più lusso che una ballerina».

H

come hashish

Le poème du haschisch è il titolo di una sezione de I paradisi artificiali, saggio di Baudelaire sulle droghe. Il poeta francese era solito frequentare un ristretto circolo di intellettuali per sperimentare le sostanze stupefacenti in compagnia di Victor Hugo, Honoré de Balzac e Alexandre Dumas. Non a caso è stato scelto dalla casa editrice Plantasia come uno degli scrittori della collana Grandi autori in erba: chi va in libreria torna a casa con una bella lettura e un grammo di canapa legale in omaggio. Il prezzo? Quindici euro per 31 pagine, posto che queste interessino a qualcuno. A ogni cosa i propri influencer, anche la disgraziata canna ne ha diritto. L’italiana Valentina Varisco, nota Valeficent, è stata premiata dalla rivista High Times come una delle più influenti attiviste antiproibizioniste.

I

come inquisizione

«È partito il tribunale della Santa Inquisizione» scrive sul suo profilo Instagram Clizia Incorvaia, professione influencer (ma che ve lo dico a fare), puntellando il post – un ritratto fotografico, va da sé – con l’hashtag #trematetrematelestreghesontornate. Gli inquisitori sarebbero gli utenti dei social, i giornalisti gossippari, il jet set instagrammaro, colpevoli di giudicarla, per diritto divino, rea di aver tradito (vedi alla voce «corna») il marito Francesco Sarcina, voce del gruppo Le Vibrazioni, gettandosi tra le braccia di Riccardo Scamarcio, attore. Così si pone sulla strada tracciata da Domenico Scandella, detto Menocchio, protagonista di un assurdo processo per eresia nel Friuli del XVI secolo; il povero mugnaio, la cui storia è stata ricostruita da Carlo Ginzburg ne Il formaggio e i vermi, riferì con ostinazione agli inquisitori i confusi dettagli della sua personale cosmogonia, in contrasto con la teologia cattolica. Fu condannato a morte dal Sant’Uffizio.

L

come letto

«Io per 80 mila euro manco mi alzo dal letto». Parola dell’influencer Chiara Biasi, che così si esprime durante uno scherzo organizzato dalla redazione de Le Iene. Non tutti i due milioni e mezzo di seguaci hanno gradito una simile insolenza, tanto che lei ha dovuto presto chiarire: «non sputerei mai sul denaro» afferma inconsapevole di dire l’ovvio. Più che per i soldi, il disprezzo è per il gesto di alzarsi dal letto, a cui la Biasi assegna retoricamente scarsa importanza. Eppure, malgrado nessuna influencer pubblicizzi cuscini in memory foam o lenzuola con fantasie di sushi, il letto è onnipresente nelle loro gallerie: ci saltano, ci posano, ci mangiano e possiamo supporre che ci dormano. Il letto è l’angolo domestico più intimo di ogni persona. Talmente intimo, cioè personale, che in una delle stanze del Vittoriale, la casa di D’Annunzio, v’è un letto a forma di bara, naturalmente singolo, perché si muore da soli. Da soli dormivano, per esempio, gli aristocratici nell’ancien régime, in tempi in cui il matrimonio significava più parentela e potere che relazione amorosa. Per questo dopo la seconda rivoluzione il popolo parigino, invitato a visitare la residenza reale, fu piacevolmente sorpreso nel constatare che i sovrani possedevano un grande letto matrimoniale. «Sono come noi!» si illusero. In verità, Luigi Filippo I dormiva da solo, e la stanza era una sceneggiata. Se Chiara Biasi si risvegliasse regina in ben altro secolo, dal letto dovrebbe alzarsi senza possibilità di appello. Ogni mattina i sovrani erano al centro della cerimonia del «lever», l’alzata, che si svolgeva secondo una complessa procedura, circondati da decine di cortigiani. Tuttavia, avremmo piacere a vederla in uno scarno letto del Medioevo, epoca nella quale si andava a dormire completamente nudi.

M

come muscoli

Per alcuni oltrepassano l’estetica e costituiscono categoria ontologica. Il culto dei muscoli è diffuso tra gli influencer di ogni tipo, persino tra le donne, ma diviene atroce e parossistico nella setta dei palestrati. Instagram e YouTube, in particolare, abbondano di figuri dal fisico geometrico, tracciato con squadra e compasso, ovvero con rigide sedute di allenamento o con rapide soluzioni dopanti. È stato stimato che il business del doping in Italia si aggiri intorno a mezzo miliardo di euro, punta illegale di un iceberg lecito che comprende abbigliamento sportivo, attrezzature da fitness e integratori alimentari. Dimmi che proteine prendi e ti dirò chi segui.

Chiara Biasi

N

come New York

Meta di ogni aspirante influencer, verrà progressivamente sorpassata da Los Angeles e San Francisco. Nel suo video su New York, ribattezzata Luyork, lo youtuber bolognese Luis consegna alla fretta di una didascalia ciò che tutti pensano e pochi dicono: nella città americana «in realtà c’è poco da (far) vedere», se non «paesaggi urbani visti e rivisti». La città del futuro sprofonda nel passato del già visto. Eppure un secolo fa eccitava gli animi dei più insospettabili. «New York, sino alla sera plumbea e afosa, / ha obliato le sue pene e la sua altezza, / e soltanto le anime delle case / si levano nella diafana fosforescenza delle finestre» scrisse Majakovskij dopo il suo ossimorico viaggio negli Stati Uniti, nell’anno 1925. Stupito dal suo orizzonte fu invece Céline, che la descrisse come una città dritta: «per essere una sorpresa, lo fu sul serio. Figuratevi ch’essa era in piedi, la loro città, assolutamente diritta. New York è una città in piedi». Fatta di grattacieli tanto alti da sembrare i «campanili metallici del nuovo secolo», notava Fortunato Depero. Abbagliati dalle vertiginose altezze furono anche Mario Soldati, Jean Cocteau, Stefan Zweig. I primi sguardi alle moderne cattedrali di cemento e acciaio non convinsero lo scettico Albert Camus, che ritagliò alla metropoli l’epitaffio di hideuse ville inhumaine, città odiosa e inumana. Così da fuori; dall’interno è invece teatro di mille e più racconti. Volata a New York per la première di Unposted, il film su epica, etica ed estetica di se stessa, l’influencer cremonese Chiara Ferragni sfoggia un nudo coperto da un magro ma fortunato orsacchiotto, sullo sfondo della sua camera nel lussuoso Bowery Hotel. Città di alberghi, New York, dunque città di storie. Allo storico Chelsea Hotel, nel quartiere di Manhattan, se ne consumavano di meravigliose: «You were talking so brave and so sweet / giving me head on the unmade bed» cantava nel brano omonimo Leonard Cohen. «Those were the reasons and that was New York / we were running for the money and the flesh».

O

come ombrello

Strumento di difesa e di attacco. Secondo una sentenza della Cassazione (Sez. pen. V, sent. 13071/17), l’ombrello è considerabile nientemeno che un’arma impropria, e in quanto tale costituisce circostanza aggravante. Se di gravità si parla, che sia totale: leggo in un Dizionario dei sogni che vedere nel sonno aggressioni con l’ombrello sarebbe segno di una manifesta insoddisfazione sessuale. Non pervenuta, invece, la fattispecie onirica del furto di ombrello, arte in cui si dilettò Bibi la Purée al funerale del suo amico Verlaine, a danno degli oranti. Di ombrelli l’elegante filosofo danese Søren Kierkegaard ne possedeva tre, di cui uno in seta verde e uno in seta nera, e ne era a tal punto innamorato che passeggiava per la casa usandoli come bastoni. Fosse stato un influencer nel 2020 avrebbe suggerito ai follower di passare così la quarantena. Rosso era invece l’ombrello di Nietzsche, e si dice che i ragazzini del luogo ci infilassero dentro i sassolini, per divertirsi a vederli piovere addosso al malcapitato quando questo lo apriva. «Ho smarrito il mio ombrello» lamentava il filosofo tedesco in uno dei Frammenti postumi. Su questa breve affermazione Jacques Derrida ha scritto un intero capitolo dei suoi Éperons.

Anche nel senso di «ombrello, gesto del». Giovanni Valotti, docente dell’Università Bocconi, racconta che in sede d’esame sorprese la giovane studentessa di Giurisprudenza Chiara Ferragni a copiare da alcuni bigliettini accuratamente incollati al polpaccio. L’ira del Valotti costò sei mesi di sospensione alla sventurata, gli stessi mesi in cui decise di diventare influencer. «Se mi avesse dato retta, ora sarebbe praticante in uno studio di avvocato» conclude il docente «invece adesso se mi incontra per strada mi fa il gesto dell’ombrello». Tiè.

P

come pompino

Detta fellatio dai pudichi o da chi conosce anche la consecutio, come direbbe la bella Chiara Francini. È il grande sottinteso, mai nominato. Non c’è foto o video di influencer che non lo evochi, fosse con uno sguardo o con un rigonfiamento delle labbra. Unica ad aver rotto il silenzio è Paola Saulino, corpo stellare da (quasi) un milione di follower, la quale promise di organizzare un Pompa Tour per deliziare chiunque avesse votato “No” al referendum costituzionale del 2016, quello per cui a Matteo Renzi frigge ancora il sedere (vedi voce). Promessa mantenuta. La formosa napoletana ha girato decine di città, per ringraziare in punta di lingua centinaia di sostenitori. «Il Pompa Tour è un’esperienza fantastica, sto crescendo tanto umanamente» dice dal suo profilo Instagram. A chi si è indignato in forza di una morale borghese fuori tempo massimo, ricordiamo l’obiettivo dell’ormai centenario Manifesto futurista della Lussuria: «bisogna fare della lussuria un’opera d’arte». Proprio alla danzatrice Valentine de Saint-Point, autrice di quel bizzarro proclama di liberazione sessuale, alluse Marinetti in una pagina della raccolta Scatole d’amore in conserva: «voi da assaggiatrice di maschi quale siete, ricchissima, sfaccendata, vedova amorale, avete ormai bevuto come tuorli d’uova gli uomini più originali d’Europa».

Leggende metropolitane a parte, di fellatio era intenditore Gabriele D’Annunzio, che aveva l’invidiabile capacità di far sentire ogni donna unica al mondo. Di tale potere era stata vittima Cécile Sorel, regina della ComédieFrançaise, alla quale D’Annunzio aveva fatto un complimento mai tributato ad altra, paragonando la bellezza dell’attrice parigina a quella dei suoi amati levrieri. La Sorel cadde ammaliata; volle ringraziarlo oralmente. D’altronde già nella raccolta Intermezzo di rime, pubblicata quando aveva ancora ventuno anni, D’Annunzio aveva composto versi inequivocabili: «o bocca sinuosa umida ardente / che a me, dove più forte urge il desìo /a me sommerso in un profondo oblìo suggi la vita infaticabilmente». Poetica anche la versione meridionale, il «suca». Sui muri siculi si trova spesso la cordiale esortazione, e lo scrittore Fulvio Abbate in Zero maggio a Palermo ha persino diviso la sua città in due categorie: «quelli che scrivono suca e gli altri che cancellano suca. Questi ultimi, come Sisifo, sono i palermitani più infelici, i vinti, perché, come è evidente guardando i muri, suca vince sempre: su insegne e saracinesche, cassonetti dell’immondizia, porte e anche monumenti; ne riappaiono a centinaia e di tutte le dimensioni». Rosamaria Carini racconta che quando in città comparvero le barriere di cemento anti-terrorismo il comune emanò un bando di gara per decorarli; vinse chi propose di scrivere in modo stilizzato «suca». La summenzionata Paola Saulino, malgrado abbia dichiarato ai giornali l’obiettivo di arrivare a sfamare la sua bocca con un milione di uomini, non è ancora riuscita a eguagliare la foga della scrittrice Catherine Millet, che nella sua porno-autobiografia si vantava di imprese che metterebbero a cuccia le fan delle ormai tristemente celebri Sfumature, tanto era serializzata la sua fabbricazione di pompini. In un’intervista a Repubblica dirà più tardi ciò che nel libro ha tenuto nascosto: «il libertinaggio non rende immuni dalla sofferenza amorosa e dal dolore». Un augurio di lunga felicità alla nostra Paola Saulino.

Paola Saulino

Q

come quadri

Li chiamano art influencer o, con una venatura snob, art sharer, divulgatori di opere di arte. Condividono alcune caratteristiche con i loro colleghi più pop, ma viaggiano su cifre estremamente inferiori. Il miglior profilo di art sharer è quello di Jacopo Veneziani, che con l’hashtag #divulgo fa scoprire artisti, opere e luoghi agli utenti di Twitter. Ma ancora non esiste un vero art influencer, qualcuno che usi la propria immagine per promuovere il lavoro degli artisti. Se dovessi scegliere, eleggerei Camillo Langone a mio art influencer personale. Non so se ci riesca anche con altri, ma il suo progetto Eccellenti Pittori (da libro divenuto esposizione virtuale permanente su www.eccellentipittori.it) ha condizionato il mio modo di concepire e osservare l’arte, oltre ad aver portato nel raggio della mia predilezione alcuni artisti italiani e vivi, a dimostrazione che l’arte contemporanea non è soltanto una banana appesa al muro. Tra gli Eccellenti Pittori, eccellentissimi sono Rocco Normanno, Tommaso Ottieri, Enrico Robusti, Mauro Reggio, Giovanni Gasparro.

R

come rivoluzione

Non pervenuta.

S

come sedere

È errore comune ritenere esibizionistiche le pose con cui le influencer mettono a disposizione del pubblico sguardo il lato b. In questo gesto non c’è ricerca di attenzione, ma generosità e senso del prestigio. Un bel sedere è come il potere, logora chi non lo possiede. Lo sapevano bene in Francia al tempo del Secondo Impero, quando spopolava tra le mesdames il «cul de Paris», un’imbottitura posteriore atta a richiamare sguardi virili. «Hai un gran culo» si può dire indifferentemente a donne e uomini con significati diversi, ma sempre come espressione di invidia. Tra i più apprezzati su Instagram troviamo quelli spavaldi e altruisti di Eleonora Bertoli, Martina Finocchio e Roberta Carluccio. Il culo marmoreo delle influencer, immortalato in scatti da milioni di like, è una riproduzione bidimensionale delle forme dell’alta scultura. Il Museo di Possagno ha usato quelli realizzati dal Canova per attirare i visitatori. Il moderno uso pubblicitario del lato b cominciò nella primavera del ’73, quando il fotografo Oliviero Toscani appose un passo evangelico a due natiche strette in un paio di jeans. Pasolini, in un articolo sul Corriere, ritagliò a quella pubblicità il ruolo di simbolo della mutazione dei valori portata dal miracolo economico. Giorgio Manganelli, dal canto suo, polemizzava sul termine culo, «parola infima e sublime», adatta – a suo dire – alla prosa ciceroniana. Ma è la Francia l’autentica patria del sedere. Victor Hugo rimase estasiato dalla vista del culo di Eve, la cameriera della sua amante. Amato anche da Baudelaire, sì, ma come ripiego per le donne dal seno contenuto. Più focoso lo scrittore Mérimée, che vedendo la spregiudicata bellezza della contessa di Castiglione esclamò: «quella donna mi irrita talmente tanto che a volte avrei voglia di rapirla e sculacciarla». Filosoficamente degno di nota, il didietro ha teorie e controteorie. Imprescindibile il pamphlet culofilo del maestro Tinto Brass, il quale ricorda agli uomini di fede che «perfino religiosamente il culo è una rivelazione: è il tocco della Grazia che ti fa ritrovare la Fede originaria nella Donna». Chirurgia a parte, il sedere è franco, sincero, moralissimo; a differenza della faccia, non dissimula, non mente. L’influencer Giulia De Lellis lo mostra senza trucchi, e nel suo libro ammette: «Io non faccio neppure gli squat per allenare il culo, figuratevi se alleno il cervello».

T

come twitstar

In principio era la prima frase del Vangelo di Giovanni, iconica e autosufficiente. A seguire – non cronologicamente – gli intraducibili frammenti dei filosofi presocratici. Infine gli aforismi di Nietzsche, di Cioran, di Gómez Dávila. Qualcuno azzarda un’ipotesi non così irragionevole, e li immagina campioni dell’universo Twitter, il social network dei cinguettii. Prima 140, ora 280 caratteri in cui racchiudere secoli di pensiero occidentale. Dove Instagram può con l’immagine, Twitter arriva con le parole. Dire molto in pochi caratteri è un’arte a disposizione di rari (e bravi) parolieri. Simpatici gli account di Dio e de Le frasi di Osho; notevoli le liti tra le varie mini-celebrità che si danno della troia.

U

come ulcera

Vita da influencer, vita di logorio. Viaggi, foto, fan, soldi, fatiche. Mariano di Vaio, gran priore della confraternita degli uomini influencer, sparisce dal flusso dei social network per un po’, lasciando orfani e preoccupati i suoi sei milioni di seguaci. Ricompare su Instagram con una foto su un letto di ospedale: ulcera da stress. «È così che va la vita! Ci sentiamo sempre fortissimi ed indistruttibili, e non vogliamo mai staccare del tutto dai problemi dai pensieri e dalle decisioni importanti» scrive ai fan commossi per il ritorno del genitor prodigo. L’ulcera rimane innominata, troppo stomachevole per il mondo glamour da lui allestito. Eppure, benché disgustosa, ha una sua dignità poetica: «Il vento-asceta con attento passo / calpesta le foglie sul ciglio del sentiero / e bacia in un cespuglio di sorbo / le ulcere rosse di un Cristo non visto» (Sergej Esenin, Autunno). E ancora: «Io non posso parlare solo di calcio e di donne / di membri lunghi tre spanne, non posso parlare / di tutte le corna del droghiere / e dell’ulcera duodenale del padre del salumiere» (Lucio Battisti, Le allettanti promesse).

V

come vacanza

Quando non si annoiano al sole della Costa Smeralda o di Amalfi, i nostri influencer posano sulle spiagge di Bali, delle Maldive, dei Caraibi. Generalmente attirati da località senza storia né identità, vagano tra acque cristalline indossando i costumi che promuovo. Fondamentale la scelta del cocktail: Fedez predilige il Moscow Mule, Chiara il Cosmopolitan. In passato avevano un notevole successo presso i lettori le mete scelte dai letterati: D’Annunzio inaugurò la Versilia come località vacanziera per eccellenza; Malaparte volle edificare la sua «casa come me» a Capri; Moravia e Pasolini si accontentavano della più modesta Sabaudia.

Z

come zuppa

Piatto proletario. Non compare mai sulle tavole degli influencer. Osato solo dalla Ferragni durante la luna di miele, ma nella versione gourmet “cocco e gamberi” delle Maldive.

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Sogno di una rivoluzione impossibile

Vademecum onirico e sconclusionato per distruggere il sistema, guadagnare il bosco e tornare a credere alle cose prime.

Le intoccabili

Cosiddette “book influencer” si atteggiano da amazzoni della cultura ma sono l’ennesimo sottoprodotto dell’industria culturale. Tanto da voler crocefiggere Massimiliano Parente.

Censuriamo tutto!

La censura è l’unico strumento che abbiamo per fare in modo che le cose tornino ad avere importanza, per fare in modo che un articolo di giornale, un’opera d’arte, un libro, una frase ben calibrata contino davvero qualcosa, possano esercitare una reale influenza sul nostro occhio ormai indifferente a tutto.

Critica ai social o apologia della censura?

«The social dilemma» non è una critica ai social network, ma un'apologia della censura. Con la scusa dell'ascesa "pericolosa" dei populisti, l'élite progressista e creativa della Silicon Valley in questo documentario si pente del mostro socio-culturale che ha creato e che gli è sfuggito di mano, e sembra essere pronta a riprenderne le redini per regolamentarne l'utilizzo. Non solo spiati per scopi di lucro, ma adesso anche mappati politicamente dai paladini del Bene.

Il narcisismo del volontariato

La pandemia ha chiuso i confini e ci ha liberato dalla passerella di giovani occidentali in posa tra le capanne di fango. Ora che non possono più andare in Africa a fare i cooperanti per il tempo di un selfie e cambiare la propria foto profilo di Instagram, i Millennial scoprono che il loro vuoto interiore è vasto come il Sahara. I maschi si riappropriano del culto del corpo. Le donne hanno ricominciato a fare il pane. Riaprite le frontiere prima che si torni alla normalità!

Gruppo MAGOG