OGGETTO: La solitudine di Aotearoa Nuova Zelanda
DATA: 03 Luglio 2022
SEZIONE: Reportage
All'estremità dell'Occidente si trova un popolo in cerca di un'identità.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Per raggiungere l’Estremo Occidente bisogna attraversare tre continenti e un oceano. Chi ritrova le proprie radici in Europa, seppur sempre un po’ per aria, deve attraversare l’Africa tribale e post-coloniale, deve camminare tra i villaggi dell’entroterra arido per capire le dinamiche culturali dei marae e degli hapū; deve attraversare la diversità del Sud Est asiatico, delle isole malesi e del mercato notturno di Alor a Kuala Lumpur, delle spezie indiane e dei templi Hindu di Udaipur, deve ammirare le cupole delle moschee del Kalimantan e le sue scuole coraniche; deve, infine, attraversare l’Australia: i deserti di terra rossa, le foreste pluviali di Cairns e le metropoli della East Coast.

La solitudine delle isole neozelandesi, ancora attaccate da un cordone politico alla monarchia britannica, è incomprensibile a uno sguardo europeo. Meglio sarebbe dire mediterraneo, poiché uno scandinavo ritroverebbe delle forme familiari e una dimensione sociale che odora di casa. Il tempo non è inclemente quanto in Nord Europa. Il gelido freddo invernale arriva solo nel sud del sud dell’Isola del Sud – nel Fjordland, a Invercargill e a Dunedin. Il gelo non ha ancora forgiato una cultura forte e il Rangatiratanga trova le sue basi più naturali nella punta dell’Isola del Nord, che a causa del genio creativo dei navigatori britannici del XVIII secolo viene chiamato Northland, dove una clima subtropicale bagna Te Hiku-o-te-ika.

Mātauranga è un concetto flebile e potente a un tempo. Capace di far innamorare i kiwi sprovvisti di una storia e di arrembare le scuole dietro una rinascita delle pratiche e della cultura Māori. Conoscenza e saggezza, che fluisce dal kaupapa Māori. Le parole con portato morale viaggiano sulle bocche della cittadinanza. Le memorie dei coloni sono ancora ammassate nei libri di fotografie Pākehā, ma dal rinascimento della popolazione indigena stanno scaturendo degli effetti istituzionali.

Le culture che i migranti si portano appresso contaminano il paesaggio sociale, ravvivandolo e tingendolo di toni internazionali. I curry del Myanmar ricordano i guazzetti di pesce ligure. Ma i pescatori non vendono il pescato del giorno lungo la riviera, su bancali di pietra a ridosso della spiaggia. Tutto viene venduto nei negozi, al chiuso, sigillato in luoghi dove l’igiene borghese fa da padrone. Tikanga è una parola che racconta di una terra e di un popolo, degli usi e dei costumi di Aotearoa. Abito, pratica, metodo, maniera, regola – suggerisce il dizionario. Le nostre civiltà greco-latine usavano i termini mores ed ethos per significare le pratiche che smuovevano i corpi e che ordinavano i pensieri. Ma il camminare accostati alle lunghe mura e raggiungere il Pireo, il salpare per Salamina o per Siracusa, forse che questo era ethos? L’attraversare la Manica e il costruire il muro di Adriano, attraversare il Mediterraneo con destinazione Alessandria d’Egitto per visitare i prelati, questo è mores? Che cosa è morale? L’andare per mare…

Eredi di una volontà marina, dell’andare per mare dell’impero britannico nel XVII e XVIII secolo e delle waka dei viaggiatori polinesiani del XIV secolo, i kiwi hanno una flotta di vascelli privati e commerciali più grande della sua stessa popolazione. Seduto su una spiaggia di sabbia nera e bagnata, in un paesaggio da Infinite Jest, dove il cielo è ancora basso dopo la tempesta oceanica, un giovane operaio scruta l’orizzonte. La piattaforma petrolifera lo minaccia da dietro un orizzonte grigio metallico. Dopo il weekend lo attenderà un incessante turno, senza riposo né sollievo per una settimana. Guadagnerà tanto da ruzzolare come un maiale nelle sale di videogiochi e spendere come un re nel gioco d’azzardo. Attaccato al suo lavoro, è impaurito da un futuro che minaccia il suo posto nella società. La conservazione del suo stile di vita è perturbata dal discorso ecologista. Il suo amor proprio non è raggiunto dall’alternativa, le politiche green non attecchiscono ancora chi ha in ballo interessi contrari.

Aotearoa sopravvive in un biculturalismo di facciata, dove una parte conservatrice-liberista attacca il tino rangatiratanga, temendo la separazione in seno alla società; e la parte progressista-socialista abbraccia il tikanga solo nella comunicazione scritta o nelle procedure ufficiali, senza per questo implementare i costumi tradizionali Māori nelle pratiche quotidiane.

La karakia, intonata nelle scuole, ricorda il ritornello mussulmano degli alunni delle scuole coraniche e le preghiere cristiane del catechismo. Un passato mancante, preistorico eppur giovane, che vive isolato nella tradizione orale o che ha origini nelle madrepatrie d’oltremare — forse sarà questa mancanza a permettere il ritorno di una religione, a fare attecchire il discorso di obbedienza?

Una ragazza tinta di rosa, in divisa da lavoro, sostiene che Aotearoa avrebbe bisogno di imparare di più dal socialismo delle capitali europee. Una ragazza che era un ragazzo infelice, ma ora mostra orgogliosa i suoi orecchini e le trecce nei capelli profumati. Wellington è una città nordica. Rassomigliante a Oslo nella sua disposizione geografica, ma senza le isole pedonali e l’efficacia del trasporto pubblico norvegese; simile a Bruxelles nel suo essere crogiolo di culture, ma sprovvista della bellezza architettonica fiamminga; dove gli attivisti hanno ambizioni progressiste e visionarie, ma mancano l’audacia e la tenacia olandesi.

Il linguaggio dei capelli comunica, lotta, afferma. L’espressione democratica della differenza scorre nelle vene liberali della società kiwi. Il linguaggio della presenza parla. Negli scritti corsari la novità è il capellone, le fondamenta della rivoluzione del ’68. Allora, in Europa e in America del Nord, il corpo studentesco si alleava alle frangi di sinistra extraparlamentari per ottenere il riconoscimento dei diritti civili. Oggi, nel mondo occidentale, la presenza di una comunità che si esprime con il proprio corpo è riconosciuta a tratti. Talvolta sbiadita, talvolta discriminata, talvolta repressa e additata. Il segno, i capelli che apparivano a Pasolini, rimane una intenzione, una denominazione verbale.

I più letti

Per approfondire

Viaggio sotto ai livelli della Nuova Zelanda

Aotearoa rappresenta ormai il paradiso in terra, il sogno delle super-elitè che tutto possono permettersi, di costruirsi bunker anti-atomici quanto resort (come Peter Thiel sta cercando di fare a Queenstown).

Dio nel metaverso

La religione per i russi e il metaverso per gli occidentali sono due facce della stessa medaglia, e in mezzo c'è l'Europa martoriata.

Virtù della decrescita

Soltanto le concezioni moderne dell'uomo e del cosmo hanno permesso l'hybris della crescita economica infinita. Un libro di Gloria Germani

Le guerre non si vincono in borsa

La febbre delle sanzioni è l’ultima malattia di un Occidente che ha dimenticato la Storia e una delle sue lezioni più importanti: la guerra è anzitutto un fatto politico, non economico.

Crisi demografica è crisi storica

In Italia, come nel resto del primo mondo, si tende ad associare la crisi demografica a fattori economici. Ma per trovare le cause profonde bisogna scavare di più, fino a toccare le trasformazioni di un popolo che ha smesso di guardare al futuro, e che non vuole più aggirare la caducità della propria esistenza perché disinteressato ad entrare in continuità con la storia.

Gruppo MAGOG