Basterebbe la carta astrale del viso – taurino, tosto, dalla mascella ad accetta, la fronte mistica e gli occhi intrisi di inflessibile compassione – per definire l’estetica, l’armatura artistica, la postura etica di Gian Ruggero Manzoni. Due anni fa la sua vita diventò un romanzo. S’intitola Il risolutore, l’ha scritto Pier Paolo Giannubilo, stampa Rizzoli; a un passo dalla cinquina dello Strega, avrebbe meritato il premio (ma sappiamo come vanno queste cose). Ben scritto, racconta – per sketch e vaste omissioni – la vita occulta di Gian Ruggero Manzoni, un po’ Achab, un po’ Principe Bolkonskij, di nobile schiatta – che risale a spirali fino ad Alessandro –, che risolve una pena inflittagli durante i fatti del “marzo bolognese”, è il 1977, prestando servizio nelle Forze Armate. Da un lato, così, abbiamo il Gian Ruggero Manzoni artista, amico di Omar Galliani e Mimmo Paladino, tra i fautori della Biennale di Venezia del 1984, insegnante all’Accademia di Belle Arti di Urbino, protagonista di oltre settanta mostre di pittura, fondatore di riviste; dall’altra il militare “tangente ai Servizi, ho operato per loro, ma mai ho deciso quale l’operazione, quale la missione, e il perché”, nei luoghi feroci della Storia, a Belgrado, ad esempio, “quando Arkan venne ucciso”. Soprattutto, c’è lo scrittore: autore di romanzi importanti – Caneserpente, Il morbo e Acufeni sono i suoi libri più alti; in Il sacrificio dei pedoni, uscito nel 2019, racconta l’amicizia con Tondelli e Andrea Pazienza nella Bologna degli anni Settanta – e di testi poetici, tra codice morale e visione sapienziale, livida (Le battane di bronzo, Il digiuno imposto, Nel vortice delle acque superiori, Tutto il calore del mondo), che fanno, in questo tempo mutevole, di verbi muti, canone. Disseminata in edizioni d’arte, clandestine, che trasecolano il tempo presente, l’opera poetica di Manzoni trova un punto miliare in Ultramodum (Mc Edizioni, 2021), che è, infine, un viaggio nel deserto, tra clangori orifici, orfani di tutto, nell’oro del dolore: “Scarafaggi e millepiedi. Uomini attorno ai falò. Lo scuoiare una zebra. Come tutto, anche il cuore ha i suoi limiti…”. Pare, il libro, un manuale di guerra, la dissipazione di tutte le altezze, l’azzeramento (“Che dio patetico, che dio laconico, che dio malfermo e imbelle ci descrivono gli odierni sacerdoti e gli anacoreti! Sì, anche dio, come il sottoscritto, nel deserto non è altro che parvenza”). Mai una resa – un grido incuneato nel sale, piuttosto. Gian Ruggero Manzoni scandalizza per amicizia e tensione all’essenziale; in altri tempi, non questi, di bestie basse, sarebbe riconosciuto come una specie di André Malraux. D’altronde, lui non chiede applausi, semmai accoliti – e una accoglienza che sfiori l’esoterico. Sembra uno di quei re vaganti, a cui è stato promesso un regno, ma l’eredità si è voltata in sciacalli – e conosce il seme del fuoco, l’eremo del giusto, la corruzione.
Cosa intendi per Ultramodum? Cosa percorriamo? Un eccedente, lo sfracellarsi di ogni virtù? Come un grido d’oltretomba si erge in menhir il tuo libro. Dimmi. Dichiara.
Ultra modum… oltre misura, oltre un determinato valore, oltre una determinata regola, anche oltre me stesso e il dolore che negli ultimi tempi mi ha attanagliato, quindi oltre ogni dimensione conosciuta. Letteralmente “ultra” sta per “di più” e “modum” sta per “limite”, quindi “di più del limite”, “di più del normale”, e a ramengo tutto e tutti! E quello che stiamo percorrendo, io quale primo, come fossi maledetto da sorte infame, è un sentiero “ultramodum” a tutti gli effetti. O forse che quando ho scelto detto titolo, per questa mia ultima raccolta di prose poetiche, stessi pensando all’übermensch di nietzschiana memoria? Mah! Irrefutabilmente ci avviciniamo sempre più all’impatto… quello che si spera finale. Scriveva Edmond Jabès, più volte citato da me nel libro, amalgamando certi suoi versi ai miei, tramite un’operazione di voluta rapina: “Nomade o marinaio, sempre, tra straniero e straniero, esiste – in mare o nel deserto – uno spazio segnato dalla vertigine nel quale l’uno e l’altro soccombono”… ebbè, sì… stiamo soccombendo, ma poi ce ne importa così tanto di soccombere o di non soccombere? E quanto ancora ce ne frega della vertigine? Vaghe sono le risposte, quando si cammina nel deserto.
Si parte da un deserto, già, sempre lì. Cos’è il deserto?
Già ho scritto sul deserto, nel deserto, per il deserto, e questo alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, libro poi uscito nel 2001 con disegni del compianto Aldo Mondino, nella collana I Quaderni del Circolo degli Artisti di Faenza, col titolo, allora, di Deserti di quiete. Il deserto? Mai come oggi l’abbandono totale di un’etica soggettiva oppure oggettiva per un’etica relativa, la mia, quindi individuale, a scapito di quella riconosciuta, dal 1945 a oggi, quale etica civile, quindi dominante e valida per gli attuali sistemi socio-politici. Sì, non sono più civile… non mi interessa più questa pseudo civiltà… chiamami, quindi, beduino, barbaro, diseducato, anti moderno, sgarbato, teppista, anarchico, o come meglio ti pare, ma non tirarmi fuori la parola civile. Il deserto è la mia totale inciviltà, se quella che stiamo vivendo è la civiltà.
Come vedi l’esistenza pandemica? O meglio: cosa fai? Cosa ti dice dell’uomo, della società, finanche del potere?
Sono contento di questa pandemia o, per certuni, di questa mirabolante presa per i fondelli, anche se poi causa il Covid-19 molti sono morti, anche gente a me vicina. Cosa faccio? Ci siamo lasciati, nel peggior modo possibile – come poi succede – io e la donna che frequentavo da oltre dieci anni, ma necessitava farlo, la situazione era diventata troppo malata; ho ulteriormente selezionato le amiche e gli amici coi quali ogni tanto mi sento telefonicamente o mi vedo, intabarrato e nascosto entro un buio androne o in una catacomba; continuo a leggere molto, mi sto rifacendo tutto, dai classici greci e latini, alle teorie riguardanti Dio… quelle elucubrate dai massimi cabalisti che il mondo ha finora avuto, poi Machiavelli, i soliti filosofi e intellettuali votati al “pensiero forte” o definiti “della rivoluzione conservatrice”, quindi quei libri che mi spediscono a casa amici autori o autori che non conosco; poi scrivo. Sto scrivendo tanto, soprattutto in questi ultimi mesi. Quindi bene la pandemia, ma vorrei che selezionasse di più e non democraticamente… infatti chi mai ha creduto alla democrazia?… cioè vorrei che il Covid-19 colpisse chi dico io. Sto pregando perché ciò avvenga. Per questo, ciabattando per casa, fuori il coprifuoco, pronuncio a voce alta quanto ora recito anche a te: “Chi proteggi oltre a noi entro le tue tende? Subito fai come ti dico! I tuoi futuri generi, i tuoi figli, le tue figlie, e tutti coloro che hai in città devono andarsene perché stiamo per distruggere questo luogo! Sappi che sono io, il Signore Dio tuo, che vuole che ne facciamo polvere! A breve il mio braccio calerà sulle mura di Sodoma e di Gomorra come un maglio!”… sì, facendo trasecolare mia madre novantenne, questo recito a voce alta, e non solo in casa, ma anche quando giro per strada, e ciò tratto dalla mia traduzione della Genesi biblica. E magari che quel che grido avvenisse! La gente mi guarda come fossi in pieno delirio o un novello Elia intento a sfidare i 450 profeti di Baal e non capisce, ma poi che importanza ha l’essere capiti? Frega, a te, l’essere capito? Male la pandemia unicamente perché non posso andare, dove voglio, a pescare o in moto.
Tu hai vissuto la dimensione pienamente pubblica – pubblichi, hai diretto e inventato riviste, hai scritto manifesti, fatto mostre e mostrificato i vili – e quella segreta, l’arte e l’armi. Hai vissuto nella contraddizione imbracciando una specie di codice, pare: quale?
Ho sempre pensato alla morte come fossi già morto, così, senza alcun timore, sono stato libero di muovermi in ogni situazione, inoltre mai ho gioito quando la sorte mi è stata favorevole, così da non abbattermi quando mi è stata sfavorevole, per il resto mi affido al cielo, come fanno i monaci… questo il mio codice.
Chi ti accompagna in questi giorni: quali studi, quali peripezie di maestri? Vedo, ad esempio, che il tuo libro è tutelato da Gertrude Bell…
In parte ti ho già detto, comunque Gertrude Bell, in italiano Geltrude, è una mia recente lettura, una mia scoperta degli ultimi anni. Archeologa, scrittrice, politica, agente segreto, nata in Inghilterra nel 1868 e morta a Baghdad nel 1926, collega e amica di Thomas Edward Lawrence, quel “Lawrence d’Arabia” che guidò la rivolta araba contro gli ottomani, di recente è stata la protagonista del film di Herzog La regina del deserto, con Nicole Kidman quale interprete principale. Fu donna che visse la maggior parte della vita nei deserti del pianeta e in quelli dell’anima, e che fu capace non solo di affrontarli, ma anche di ricavarne testimonianze di una bellezza commovente. Del resto, nel deserto, ci si va per meditare su se stessi oppure per incontrare Dio o Satana. La Bell faceva parte di una famiglia altolocata, era, stupendamente, di un antifemminismo viscerale, nonché contraria al voto alle donne, infatti, da misogina, era convinta che nessuna femmina fosse all’altezza di un maschio… nessuna donna, ovviamente eccetto lei… inoltre eccelleva in tutto, salvo che in simpatia. Agli occhi di parenti e amici era un’intellettuale snob, molto selettiva, molto elitaria, dotata di un’autostima esagerata e di un’alterigia che scoraggiava i corteggiatori, e i pochi che resistevano a quel suo mirabile carattere venivano respinti, bollati come noiosi e superficiali. Cavalcava come un uomo, vestita con kefiah e soprabito, portava la pistola nella fondina ascellare e i berberi, una volta da lei raggiunti l’Africa e il Medio Oriente, la chiamavano, con deferenza, “El Khatun”, cioè “La Signora”. Il grande successo della Bell fu però la creazione, a tavolino, dell’Iraq. Quando la Prima Guerra Mondiale finì, prese penna, calamaio, squadra e riga, fu proprio Gertrude a tracciare i confini di uno Stato che prima non c’era, sostenendo gli interessi dell’Inghilterra. Divenuta direttrice del Museo Archeologico di Baghdad, una sera, tre giorni prima del suo cinquantottesimo compleanno, ingurgitata una forte dose di sonniferi tracannati con del brandy, si addormentò, per non svegliarsi più. I funerali si svolsero alla presenza di una folla immensa. Il rapporto compilato dalle autorità parlò di morte per cause naturali, ma le ultime lettere di Gertrude testimoniano la sconcertante depressione che l’aveva catturata. Era stata messa da parte dopo essere stata usata, e per una come lei non fu possibile accettarlo.
Il libro termina in un fiato sfinito – “stanco, stanco, stanco” – e con un dio che è “parvenza”, siamo come all’apice di un addio. Come mai? Che accade?
Accade che a 64 anni, come da poco ho compiuto, necessita mettere i punti sulle i senza alcun timore, anche pensando all’impensabile. Sì, sono stanco di tutta una componente esistenziale, e, quale prima causa di tale stanchezza, indico il limbo entropico in cui il capital-liberismo dilagante sta costringendo l’intero pianeta. Inoltre sono stanco del cosiddetto “politicamente corretto”, del sistema sociale governante l’occidente del globo, del buonismo da oratorio parrocchiale, dell’ipocrisia da sacrestia, della “esportazione della finta democrazia che viviamo”, fatta passare come giusta panacea per il terzo e quarto mondo, e di tanto altro ancora. Sono stanco di un buon 95% del culturame dominante e di quell’arte spacciata come oro nelle attuali capitali del pianeta. Sono stanco di essere stanco… sono stanco dell’astenia fisica e mentale che ci stanno imponendo, ecco il perché prego che il Covid-19 colpisca certuni… cioè quelli che noi ribelli, noi anarca, noi operai, noi patrioti consideriamo i primi nemici del genio. E per quei signori la cura ci sarebbe, giustamente drastica, ma ci sarebbe. Ma le mie suppliche non vengono ascoltate, perché la divinità è ancora una volta assente, quindi dovremo fare da noi. Ebbene sì, ancora una volta il dio dei nostri padri ci ha abbandonato… ma che nessuno tremi, il nuovo dio saremo noi, come poi sempre siamo stati.
Perché, quindi, ancora la scrittura e la sua ulcera? E che cos’è, infine, l’uomo, il suo penare, il suo fantasticare?
La scrittura come arte, ma anche come giornalismo di livello o saggismo obiettivo, è arma, ma, quale arma, a volte può incepparsi o, addirittura, può esploderti fra le mani… ed ecco le ulcere, se non la perdita totale di quegli arti, in tal caso non certo suppliti egregiamente da uncini da pirata… esteticamente magnifici e, in certi casi, risolutivi… gli uncini… ma non atti a far godere, con grazia, chi tu ami. E riguardo all’uomo che dire che già non sia stato detto? So solo che invecchiamo e poi moriamo… questo lo so… per il resto mi balocco anch’io affidandomi all’immaginazione oppure barando, o bluffando o facendo del teatro sul nulla, o ammazzando questo o quella, e ciò nel vero… cioè tagliando, per davvero, la gola a chi mi pesta i piedi, a chi mi manca di rispetto, a chi mi crede domato o a chi mi si indica bello e pronto per l’ospizio, per la casa di riposo o per il cronicario.