OGGETTO: Iran Air 655
DATA: 15 Gennaio 2020
3 luglio 1988. Quella volta in cui furono gli Stati Uniti, con un incrociatore, ad abbattere per sbaglio un aereo iraniano (scambiato per un F-14) con 290 persone a bordo, tutte morte. Nessuno chiese mai scusa.
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L’abbattimento nei giorni scorsi del Boeing 737 dell’Ukraine International Airlines da parte delle forze di difesa aerea dell’Iran, che lo hanno scambiato per un aereo nemico a causa di un «imperdonabile» errore umano, ha provocato 176 vittime, tra passeggeri e membri dell’equipaggio. «La Repubblica islamica dell’Iran si rammarica profondamente per questo errore disastroso» ha dichiarato il presidente iraniano Hassan Rouhani aggiungendo che le indagini proseguiranno per identificare e perseguire gli autori di questa «immensa tragedia e di questo sbaglio imperdonabile». Lo stesso ha fatto lo stato maggiore delle forze armate iraniane, porgendo le condoglianze alle famiglie delle vittime.

Corre tuttavia l’obbligo di segnalare che alcuni autorevoli commentatori avanzano, in ipotesi, scenari alternativi oltremodo inquietanti. Comunque sia, la notizia dell’abbattimento è stata ripresa, giustamente, con grande clamore da tutta la stampa internazionale. Che dimostra però problematiche lacune di memoria storica. Perché nessuno ha preso lo spunto per ricordare le 290 vittime, altrettanto innocenti, del volo Iran Air 655 provocate dal fuoco del lanciamissili statunitense Vincennes avvenuto in circostanze oscure, il 3 luglio 1988, nel pieno della guerra tra Iran e Iraq. Per ricordare quegli avvenimenti è necessario riprendere la cornice storica di quei giorni drammatici.

Saddam Hussein aveva giocato le sue carte con abilità, sfruttando le difficoltà dei paesi vicini. Stipulò un accordo con la Siria che poneva fine alla dura e aspra rivalità che divideva i due regimi baathisti. Nello stesso tempo, temperò i toni del suo incandescente estremismo spostandosi gradualmente su posizioni più moderate per conquistarsi le simpatie dell’Arabia Saudita. Ryad, presa in mezzo dalla tenaglia del radicalismo arabo e del fondamentalismo islamico, scelse di allearsi con il male minore, o con il pericolo che riteneva minore, alla luce della storica rivalità con l’Iran per l’egemonia nel Golfo. Su queste basi, nacque la decisione di scatenare nel settembre 1980 la guerra contro la Repubblica islamica dell’Iran.

Dopo l’aggressione contro Teheran, il riallineamento delle posizioni irachene continuò a ritmi accelerati. Esistevano precise motivazioni strategiche per tutto questo. Alla base dell’azione irachena si trovavano diversi fattori. Oltre alla volontà di ribaltare a suo favore la supremazia nella regione, conseguita dall’Iran sin dai tempi dello Shah, la dirigenza di Baghdad sommava la necessità di conquistare uno sbocco al mare più gestibile di quello assegnatogli a tavolino al tempo dell’accordo segreto Sykes-Picot (aprile-maggio 1916) sulle direttive del quale, all’indomani della dislocazione dell’Impero ottomano, i paesi arabi della Mezzaluna fertile furono divisi tra la Gran Bretagna e la Francia sotto forma di “mandati” della Società delle Nazioni.

All’alba del 22 settembre 1980, l’invasione irachena dell’Iran prese forma in sette diverse aree e lungo tre direttrici. A nord, per proteggere i campi petroliferi settentrionali e per minacciare direttamente Teheran, al centro, per tagliare in due l’Iran e interromperne le comunicazioni, e, infine, al sud per conquistare le vitali zone urbane dei campi petroliferi iraniani.

Grazie a una superiorità sul campo di 5 a 1 e alla configurazione dei territorio del Khuzistan – la provincia dell’Iran sud-occidentale al margine della bassa Mesopotamia, un esteso bassopiano ai piedi degli Zagros, affacciata sul Golfo Persico – l’offensiva irachena si scatenò con una rapida e folgorante penetrazione in profondità. Le colonne corazzate di Baghdad avanzarono fulminee verso il cuore del nemico. In soli tre giorni, gli iracheni posero in stato di assedio le città strategiche di Desfoul, Ahwaz e Khorramshar, per impossessarsi delle risorse petrolifere iraniane.

Migliaia di persone parteciparono ai funerali dei passeggeri del volo 655 abbattuto dagli Stati Uniti.

La reazione non si fece attendere. Tra lo stupore dello stato maggiore iracheno e di tutto il mondo, nelle città lungo la linea del fronte affluirono subito truppe per ingaggiare combattimenti sanguinosi, spesso suicidi, contro l’aggressore. La resistenza venne guidata e organizzata dalle Guardie della rivoluzione, fanatici sostenitori dell’Imam Khomeini. Con armi leggere e lanciamissili controcarro, nel corso dei primi, sporadici, contrattacchi, inflissero al nemico gravi perdite, soprattutto dal punto di vista psicologico. Il loro esempio galvanizzò tutta la nazione iraniana e la guerra contro le forze d’invasione si tramutò nel martirio per il jihad, la “guerra santa” dell’Islam, simboleggiato dalla Fontana del sangue di Teheran.

Le sorti del conflitto sembravano comunque segnate. Tuttavia la condotta di guerra irachena, organizzata personalmente da Saddam Hussein, si frammentò sui troppi obiettivi assegnati. Sognando un blitz-krieg sul modello di quello israeliano del ‘67, Saddam non riuscì a concentrare la forza della sua offensiva. Solo Khorramshar cadde, nei giorni della travolgente e inaspettata prima fase dell’invasione. Ahwaz, Desfoui e Abadan continuavano a resistere all’assedio. Isolati dal resto del mondo, con un armamento ereditato dallo Shah e composto da un embargato equipaggiamento statunitense, senza più pezzi di ricambio, gli iraniani cominciarono a organizzare la controffensiva.

I Phantom di Teheran compirono sino a 150 incursioni al giorno, cannibalizzando gli aerei colpiti per la manutenzione dei velivoli operativi.

Khorramshar, ribattezzata la “città del sangue”, divenne il centro della violentissima risposta iraniana. Nel settembre del 1981 venne tolto l’assedio ad Abadan e nel giugno 1982 anche Khorramshar venne riconquistata. Bassora, la seconda città dell’Iraq, divenne l’obiettivo principale della strategia iraniana. Ripetute offensive videro all’opera le truppe di Khomeini nelle paludi a nord della città, intorno ai giacimenti delle isole Majnun. La guerra-lampo di Saddam era definitivamente fallita. Il leader iracheno non trovò altra soluzione che fucilare i generali che si erano ritirati, ma l’iniziativa nel conflitto era inesorabilmente passata di campo. La rivoluzione islamica, invece di venire frantumata dall’aggressione irachena, com’era nei voti di Saddam e dei suoi molti alleati, si consolidava unendo i propri destini a quelli dell’indipendenza nazionale. La vittoria sul campo con la cacciata dal territorio iraniano delle forze d’invasione l’avevano rafforzata. La possibilità di una catastrofica caduta di Bassora diffuse il panico tra i dirigenti iracheni e li spinse all’uso massiccio e sistematico delle armi chimiche che, alla fine, si rivelarono, più di qualsiasi altro sofisticato strumento bellico iracheno, la causa delle maggiori perdite iraniane sul campo di battaglia. L’impiego su vasta scala delle armi chimiche colse di sorpresa l’esercito di Teheran, al quale Khomeini proibì di reagire utilizzando gli stessi mezzi. L’uso da parte di Baghdad degli aggressivi chimici, sotto la diretta supervisione di Saddam, fu una realtà che il mondo intero preferì, a lungo, ignorare.

Halabja, Iraq nord-orientale, 16 marzo 1988. Migliaia di corpi senza vita giacciono riversi nelle strade. Centinaia di altri sopravvivono in agonia negli ospedali locali. I giornalisti giunti sul posto hanno davanti agli occhi uno spettacolo terrificante. Dozzine i cadaveri al suolo o ammucchiati sui camion. Nessuno recava sul corpo ferite o segni di violenza. Tutti sembravano annichiliti d’improvviso, quasi congelati dalla morte nell’ultimo, disperato, gesto di difesa… Nel Kurdistan iracheno, a circa 240 km a nord-est di Baghdad, Halabja era stata conquistata una settimana prima dagli iraniani. Per ritorsione, gli iracheni non esitarono a impiegare le armi chimiche contro la loro stessa popolazione. L’attacco fu la riprova ulteriore che il regime di Baghdad, con la complice connivenza di troppi autorevoli governi, si era deciso a ricorrere ai micidiali gas nervini in maniera indiscriminata.

Il Cimitero eretto in memoria delle vittime dell’attacco chimico ad Halabja

Come detto, l’uso dei gas si rivelò un elemento decisivo nella tattica irachena durante il conflitto con l’Iran. Da una parte aveva contribuito a demoralizzare le forze armate nemiche sul terreno, dall’altra convinse i dirigenti di Teheran che Saddam era disposto a tutto per evitare una sconfitta militare e che, soprattutto, il mondo intero glielo avrebbe consentito. Dopo le violente e reiterate proteste esposte all’Onu dal rappresentante dell’Iran, il segretario generale delle Nazioni Unite aveva deciso di inviare, sin dal marzo 1984, una missione d’inchiesta composta da specialisti di cinque paesi, Argentina, Spagna, Irlanda, Svezia e Svizzera. Venivano così accertati ufficialmente molti casi di utilizzo da parte delle forze armate irachene degli aggressivi chimici vietati dalla Convenzione dell’Aja del 1889 e condannati nuovamente dal Protocollo di Ginevra del 1925.

Una seconda missione di accertamento, inviata nel febbraio del 1986, confermava le accuse. Dall’esame dei feriti e dei cadaveri si accertava l’impiego in particolare di due aggressivi chimici, il Mustard gas e il Tabun. Il primo è noto anche come iprite, dalla cittadina di Ypres, in Belgio, dove venne impiegato per la prima volta il 22 aprile 1915 nel corso della Prima guerra mondiale. L’altro gas di cui venne accertato l’impiego è l’agente organofosforo, detto Tabun, realizzato dai tedeschi verso il 1937, da loro mai utilizzato in azione ma catturato in gran quantità dalle forze armate sovietiche alla fine del conflitto e migliorato nelle caratteristiche e negli effetti. Si tratta di un gas nervino che inibisce la trasmissione degli impulsi nervosi. Le accuse delle commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite erano inequivoche. L’Iraq impiegava armi chimiche in modo sistematico dal 1984. Si rilevava che tale tattica aveva volto le sorti della guerra in favore di Baghdad nonostante le maggiori risorse umane iraniane. Nel 1984, per esempio, una massiccia offensiva delle truppe di Khomeini che minacciava la capitale irachena e Bassora venne respinta con i gas. Lo stesso scenario apocalittico si ripeté nel 1987, nel corso di quella che doveva rappresentare la spallata decisiva contro Bassora. L’attacco iraniano fu annullato ancora una volta grazie all’impiego degli aggressivi chimici. L’uso dei gas nervini avrebbe favorito l’esercito iracheno anche nella definitiva e rapidissima riconquista della penisola di Fao, ottenuta in sole 34 ore, negli ultimi mesi del conflitto.

L’Iraq aveva sfruttato impunemente una complicità internazionale di difficile lettura, ove si pensi alla gravità del precedente istituito. I crimini del regime iracheno vennero favoriti da un insieme di interessi politici che vedevano nella vittoriosa risposta dell’integralismo khomeinista all’aggressione irachena una gravissima minaccia destabilizzante per tutta la delicata area mediorientale. Non a caso, la prima risoluzione del Consiglio di Sicurezza (la 598), che esigeva il cessate il fuoco e imponeva sanzioni ai combattenti, risale al 20 luglio 1987, dopo sette anni di guerra. Paradossalmente, chi manifestò la maggiore inquietudine per l’uso dei gas da parte irachena fu Israele. Se Gerusalemme aveva visto con estremo favore e calcolato interesse la guerra sempre più devastante tra due dei suoi acerrimi nemici, tuttavia, la prospettiva di un Iraq collaudato nelle esperienze di guerra chimica turbava non poco i sonni dei dirigenti dello Stato ebraico. Di passata, vale la pena di segnalare che l’accusa statunitense relativamente agli arsenali iracheni di armi di distruzione di massa, reiterata sino alla nausea nella guerra del 2003, nasce forse proprio in quei giorni, magari alla luce di complicità inconfessabili…

D’altra parte, sempre con buona pace di tutto il mondo, per rovesciare le sorti del conflitto, il regime di Saddam non esitò mai a ricorrere ai mezzi più spietati. Un episodio drammatico fu quello che contraddistinse, tra attacchi iracheni e ritorsioni iraniane, la “guerra delle città”. Un ruggito di reattori che s’interrompe improvvisamente. Subito dopo il boato di uno scoppio devastante. Sono i 350 kg di esplosivo della testata di un missile Scud B di fabbricazione sovietica, un copione che divenne tragicamente consueto per la popolazione di Teheran nei bombardamenti decisi da Baghdad per colpire al cuore nemico. Tutte le notti gli abitanti di Teheran abbandonavano le loro case per cercare rifugio sulle colline che circondano la città. In un solo mese i missili iracheni caduti sulla capitale faranno 4mila morti. Organizzata per fiaccare il morale della popolazione, la “guerra delle città” servì solamente a rafforzare il patriottismo iraniano. Specularmente, la risposta di Teheran, per quanto meno massiccia a causa dell’embargo, riuscì a cementare il popolo iracheno intorno a un leader e un regime che cominciavano a perdere il controllo della situazione interna.

Il conflitto Iran-lraq è stato anche un durissimo scontro economico con importanti e forse decisivi riflessi internazionali. Negli otto anni di guerra, sono stati molti ad arricchirsi sul sangue versato dai due contendenti. Più di 50 Stati hanno fornito oltre 150 miliardi di dollari di armamenti alle parti in conflitto. Iran e Iraq hanno gettato in campo la formidabile potenza distruttiva acquistata sui mercati di tutto il mondo. Mentre tutte le organizzazioni internazionali condanneranno il conflitto, decine di paesi continueranno a vendere armi, in maniera più o meno ufficiale, all’Iran, all’Iraq o a entrambi. La guerra si è quindi molto presto e fatalmente allargata all’ambito economico. Ciascuno dei due avversari cercò di asfissiare l’altro privandolo delle risorse petrolifere e la definizione di guerra del Golfo finì per assumere tutto il suo significato.

Nel corso di questo tipo di azioni belliche, l’Iraq fu causa anche di una catastrofe ambientale, allora praticamente ignorata dai mass-media occidentali. Secondo i dati di un rapporto di Greenpeace International del febbraio 1991, il violentissimo bombardamento da parte degli iracheni del campo petrolifero iraniano di Nowruz e il conseguente gravissimo danneggiamento di tre pozzi, provocò il rilascio in mare di oltre 300 milioni di litri di greggio. Una devastante macchia viscida e densa di oltre 1.000 km si estendeva per l’intera lunghezza del Golfo Persico. La quantità di petrolio che venne riversata nell’ecosistema dello stretto braccio di mare in quell’occasione fu tre volte maggiore di quella persa il 24 marzo 1989 nel Prince William Sound, in occasione della catastrofe dell’Exxon Valdez.

Il petrolio, ovviamente, rientrava a pieno titolo negli aspetti di guerra economica presenti nel conflitto. L’Arabia Saudita operò attivamente allo scopo di accrescere l’eccedenza della produzione globale rispetto al consumo. Il prezzo del petrolio scese repentinamente da una media di 27,1 dollari/barile del 1985 ai 14,5 dei 1986, una specie di shock petrolifero al contrario. Il crollo vertiginoso dei prezzi del petrolio spinse l’economia iraniana sull’orlo del collasso. Già ai primi di agosto i leader di Teheran furono costretti ad ammettere di non essere in grado di sostenere uno sforzo bellico accresciuto con gli allora correnti livelli dei redditi petroliferi. Le entrate erano poi ulteriormente diminuite a causa della maggiore efficacia degli attacchi aerei iracheni, che avevano ridotto le esportazioni petrolifere iraniane a 700/800.000 barili al giorno, da comparare alla quota totale di Baghdad che raggiungeva, nello stesso periodo, 1.800.000 b/g. A seguito del deterioramento della posizione militare irachena, dovuta alla conquista da parte del nemico di Fao e Mehran, nell’agosto e nel settembre 1986, l’aviazione di Baghdad intensificò i suoi raid contro gli obiettivi economici e petroliferi iraniani. Alla fine dell’anno, le entrate petrolifere di Teheran venivano stimate a 400 milioni di dollari al mese a fronte di una media, relativa all’anno precedente, di 1,2 miliardi.

Se Sparta piangeva, Atene non rideva…Sempre più gravato da una guerra che aveva creduto di poter liquidare in poche settimane, anche Saddam doveva confrontarsi con una durissima realtà economica. Il governo di Baghdad aveva riposto tutte le proprie speranze nell’espansione della sua capacità di esportare petrolio. Nel 1986, le ottimistiche proiezioni per un significativo incremento della produzione petrolifera vennero largamente rispettate. Nella seconda metà dell’anno la produzione sfiorò la quota di 2 milioni di barili al giorno rispetto a una media di 1,4 milioni b/g nel 1985.

Tuttavia, a tradire le aspettative, fu la caduta repentina delle entrate petrolifere.

Il crollo del prezzo dell’oro nero limitò i guadagni del 1986, nonostante l’imponente aumento produttivo, a 9 miliardi di dollari, un risultato drammatico se paragonato ai 14-15 miliardi previsti. In questo modo, le misure saudite colpivano non solo il nemico iraniano, ma anche “l’alleato” iracheno. Nella precedente crisi finanziaria dovuta alla guerra, quella del 1983-1984, l’Iraq era riuscito a sopravvivere solo grazie ai crediti elargiti dai paesi che avevano accettato le sue promesse per un aumento a breve termine della produzione petrolifera. Sul lungo periodo, era stata fatta balenare anche la prospettiva di lucrosi affari nella gigantesca opera di ricostruzione del dopoguerra. La situazione ora si prospettava assai grave.

Più di due anni dopo, nonostante i massicci sforzi, Baghdad non era riuscita a far aumentare i redditi petroliferi oltre il livello raggiunto nel 1983. Nel frattempo, il debito estero si era andato accumulando a ritmi sempre più vertiginosi. L’Iraq si era cacciato in un vicolo cieco e non poteva più uscirne se non persuadendo i suoi creditori ad aumentare continuamente l’esposizione finanziaria nei suoi confronti. Il costo economico della guerra scatenata dall’Iraq contro la Repubblica islamica, con i suoi strascichi debitori, avrebbe giocato un ruolo determinante per la successiva invasione del Kuwait, innescando una situazione che avrebbe contribuito a creare le condizioni del nuovo conflitto, nonché le radici avvelenate delle drammatiche tensioni attuali.

Il risentimento iracheno era rivolto ovviamente contro l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo. Secondo l’Iraq, nonostante la massiccia assistenza finanziaria di Ryad e dei suoi più fedeli alleati, esisteva una sproporzione evidente tra quanto aveva profuso Baghdad per combattere un nemico che minacciava tutti i paesi della regione e quanto aveva ricevuto in cambio del sacrificio. In sostanza, mentre l’Iraq aveva versato fiumi di sangue, perdendo nella guerra contro l’Iran più uomini di tutti gli arabi mai caduti nelle guerre contro Israele, gli Stati del Golfo avevano solo prestato dei soldi. L’equivoco nasceva dal fatto che sauditi e sodali vari vedevano nell’alleanza con Saddam Hussein solo una necessità tattica, non imperativo strategico. In questo quadro, le esportazioni di petrolio diventarono un obiettivo militare prioritario.

Fu quindi la volta dello scontro aperto nelle acque del Golfo Persico. L’Iraq iniziò la cosiddetta “guerra delle petroliere” nel 1981, aumentò gli attacchi nel 1984 e fu responsabile dei due terzi degli attacchi complessivi. I jet militari iracheni intendevano rendere insicure le rotte del petrolio per affondare definitivamente le esportazioni iraniane e allargare, internazionalizzandolo, il conflitto. Le spedizioni via mare di greggio costituivano la prima fonte iraniana di valuta estera con la quale Teheran finanziava il suo sforzo bellico. Sconvolgendo questo traffico commerciale, l’Iraq si proponeva di infliggere al suo nemico costi tanto elevati da indurlo a negoziare la fine della guerra.
La risposta iraniana non poteva essere identica a quella dell’avversario, poiché l’Iraq aveva sospeso il suo commercio di petrolio attraverso il Golfo utilizzando gli oleodotti via terra e i camion-cisterna. Teheran decise così di attaccare, per ritorsione, le navi dei paesi arabi alleati dell’Iraq che trasportavano merce per conto di Baghdad. Intensificando la guerra contro questi Stati – soprattutto Arabia Saudita e Kuwait che contribuivano attivamente allo sforzo bellico di Saddam – l’Iran sperava di costringerli, insieme ai consumatori occidentali di petrolio del Golfo, a premere sull’Iraq per porre termine alla “guerra delle petroliere”. Nel 1986 Teheran concentrò l’azione militare sul Kuwait, che serviva all’Iraq anche come terminale costiero per gli approvvigionamenti di armi. A questo punto entrarono in scena direttamente gli Stati Uniti.

Gli emiri kuwaitiani, alla fine del 1986, avevano chiesto agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica una sorta di scudo protettivo per le loro navi. Il 7 marzo 1987, il governo di Washington si offrì di iscrivere nel registro navale statunitense tutte le undici petroliere del Kuwait. La proposta venne subito accettata. L’escamotage studiato dai funzionari dell’amministrazione di Washington per fornire una scorta navale armata ai loro alleati, il cosiddetto reflagging, venne ufficialmente adottato in ottemperanza a una tradizionale politica statunitense riguardo al principio della “libertà di navigazione”. Nella sostanza, però, le azioni degli Stati Uniti nel Golfo avevano un effetto unilaterale che gettava molti dubbi sulle loro reali intenzioni. Saddam, che non possedeva una marina da guerra operativamente efficace, era riuscito a colpire due obiettivi in un colpo solo, vale a dire che altri tenessero a bada la marina iraniana garantendosi, nel contempo, la sicurezza dei suoi approvvigionamenti via mare. Gli iraniani risposero minando il Golfo Persico, e la temperatura del conflitto continuò a salire sfociando spesso in brevi ma intense scaramucce tra forze statunitensi e iraniane.

Le acque del Golfo apparvero però subito avvelenate per la marina americana. Un attacco condotto per errore da jet dell’aviazione irachena prese di mira la fregata statunitense Stark. Un missile Exocet uccise 37 marinai statunitensi. La realtà strategica del reflagging, ben diversa da qualsiasi principio connesso alla libertà di navigazione, impose di non rispondere all’attacco iracheno, costringendo la Casa Bianca ad accettare le imbarazzate e tardive scuse del governo di Baghdad. A Washington si masticava amaro, a Teheran si festeggiava la giustizia e l’onnipotenza di Allah…

La guerra delle petroliere si allargò comunque a livello internazionale. Londra e Parigi avevano inviato dragamine dall’agosto del 1987; Belgio, Olanda e Italia le imiteranno, a protezione delle proprie navi mercantili. È in questo scenario che si giunse alla fine del conflitto.
Nei mesi che precedettero la fine dei combattimenti, isolato e accerchiato, l’Iran subì una serie di catastrofici rovesci militari. Tra l’aprile e il giugno 1988, la violenta controffensiva irachena, a base di armi chimiche, riuscì a ottenere la riconquista di tutto il terreno nelle mani dell’esercito iraniano, la penisola di Fao, l’area a est di Bassora e le isole petrolifere di Majnun, alla confluenza del Tigri e dell’Eufrate. Dopo le vittorie conquistate dall’esercito di Baghdad, l’abbattimento (per errore…) da parte degli Stati Uniti di un aereo di linea iraniano nell’estate del 1988, disegnò la svolta decisiva della guerra.

Quello che rimase dell’aereo colpito.

Suona improvviso l’allarme sulla nave da guerra americana Vincennes di pattuglia nel Golfo Persico. È la mattina del 3 luglio 1988. La tensione è altissima. L’incrociatore lancia-missili ingaggia uno scontro con alcune motovedette iraniane. Tutto l’equipaggio è al posto di combattimento. Il movimento dei cannoni da 120 da una fiancata e dall’altra, ripreso da una troupe che sarà testimone in diretta dell’incredibile tragedia, mostra che l’attacco impegna su tutti i lati la nave statunitense. D’improvviso, un operatore radar annuncia di avere notato sugli schermi un aereo in rapido avvicinamento. Il dramma sta per scoppiare. Gli specialisti della marina confondono l’Airbus Iran Air 655, diretto da Teheran a Dubai e in volo sulle acque territoriali iraniane, con un aereo da caccia F-14. L’ordinatore del sistema di tiro più sofisticato del mondo lancia due missili terra-aria. L’eco radar scompare. L’equipaggio esulta.

In realtà, è la catastrofe.

I 290 passeggeri dell’aereo di linea, compresi 66 bambini, trovarono la morte a causa dell’errore dei sistemi d’arma della Vincennes. Fu la svolta decisiva del conflitto. Il National Geographic Channel ha dedicato alla strage dell’Airbus iraniano un episodio nella serie Indagini ad alta quota. Nella ricostruzione viene confermato che il velivolo stava trasmettendo i dati di volo con il trasponder che lo identificava come un aereo di linea. Tuttavia, il comandante della Vincennes, William C. Rogers, intervistato dall’emittente, ha ribattuto che quegli elementi non offrivano certezze del fatto che l’aereo non fosse ostile, dichiarando di averlo conseguentemente attaccato come autodifesa, per salvare la nave e l’equipaggio. Dopo la distruzione in volo dell’Airbus e la sostanziale complicità internazionale nei confronti dei crimini di Saddam Hussein, Teheran prese coscienza della futilità di continuare una guerra sempre più sanguinosa che, comunque, gli Stati Uniti non avrebbero mai permesso all’Iran di vincere. Whatever it takes…

Il cambiamento di strategia iraniano fu conseguente e inevitabile. L’improvvisa decisione di Teheran di accettare il cessate il fuoco sconvolse le previsioni secondo cui le ostilità non sarebbero terminate sino alla morte di Khomeini, la guida spirituale della nazione iraniana. Alla fine si rivelò vero l’esatto contrario. Solo l’anziano Iman possedeva il carisma per fare uscire il suo popolo dal tunnel senza uscita della guerra. Dopo la sua morte, nessuno avrebbe avuto l’autorità necessaria per assumersene la responsabilità.

Le condizioni poste da Saddam per un armistizio erano quanto meno paradossali, dopo la guerra di aggressione scatenata nel 1980: ritorno alle frontiere internazionali, firma di un trattato di pace e di un patto di non-aggressione, accordo di non interferenza negli affari interni di ciascun paese e l’impegno di entrambe le parti a lavorare per la stabilità e la sicurezza nella regione. Condizioni che solo una sostanziale sconfitta sul campo, otto anni di guerra e un milione di morti, potevano avere suggerito al rais di Baghdad. La risoluzione 598 dell’Onu, del luglio 1987, fu la base per la fine dei combattimenti. Subito accettata dall’Iraq, era stata sempre respinta da Teheran in quanto le autorità iraniane esigevano, come pregiudiziale a ogni negoziato, che l’Iraq venisse riconosciuto ufficialmente come aggressore. Una questione che, a prima vista, lascia interdetti stante l’evidenza dei fatti e del proditorio attacco iracheno. Tuttavia, nel clima di quei giorni la coalizione internazionale che di fatto sosteneva Saddam Hussein poteva permettersi di mettere in dubbio anche la verità sostanziale dei fatti. La risoluzione 598 approvata all’Onu stabiliva, incredibilmente, la necessità di formare una commissione imparziale per indagare sulle responsabilità del conflitto. La guerra Iran-lraq terminava ufficialmente il 20 agosto 1988.

La maggioranza della popolazione iraniana accolse l’annuncio del cessate il fuoco con un misto di sollievo e amarezza. Teheran poteva ancora contare su decine di migliaia di basji, volontari pronti a morire sui campi minati iracheni, e le famiglie dei martiri sembravano ancora disposte ad altri durissimi sacrifici. La speranza di una pace onorevole, dopo l’imposizione di una guerra spietata da parte del governo di Baghdad, era tuttavia grandissima. Ben diverso il clima nella capitale irachena. Si danzò e cantò a lungo quella notte nelle strade mentre cortei di macchine percorrevano festanti e rumorose le arterie di Baghdad. Si celebrava non solo la fine della guerra ma quella che, con molta fantasia, gli iracheni giudicavano una vittoria. Saddam era infatti riuscito a far credere al suo popolo di avere vinto pur avendo fallito tutti gli obiettivi che si era prefisso.

Dopo quasi tremila giorni di guerra e miliardi di dollari spesi in armamenti, nessuno dei due nemici quel 20 agosto 1988 era lontano dai confini varcati otto anni prima dalle colonne corazzate irachene. Il bilancio della guerra scatenata dai disegni egemonici di Saddam e favorita da una fitta rete di complicità è tragico e allucinante. Baghdad e Teheran avrebbero speso oltre 350 miliardi di dollari per equipaggiarsi di armi e avrebbero lamentato non meno di un milione di caduti. Tutto per tornare, dopo otto anni di guerra, ai confini del settembre 1980.

L’Iraq giunse al termine delle operazioni belliche con un esercito operativo di dimensioni impressionanti. Un milione di uomini sotto le armi, cinque volte di più rispetto all’inizio del conflitto, e in più un massiccio e sofisticato equipaggiamento militare acquistato sui mercati di tutto il mondo. L’immensa capacità dell’arsenale messo nelle mani di Saddam per aggredire l’Iran e la voragine del debito estero con la quale era stata finanziata quella guerra avrebbe, in capo a due anni, disegnato altri tragici e forse inevitabili scenari. Ma questa è un’altra storia… Tutti i membri dell’equipaggio della Vincennes furono decorati dalla marina militare statunitense con il Combat Action Ribbon per la loro missione nel Golfo Persico. Gli Stati Uniti non hanno mai ammesso l’errore e non hanno mai presentato scuse ufficiali al governo iraniano per l’abbattimento del volo Iran Air 655.

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