Molto si è scritto, soprattutto negli ultimi anni, intorno agli IMI, Italienische Militär-Internierte, sigla con la quale le autorità tedesche identificarono i soldati italiani catturati, rastrellati e deportati in Germania nei giorni immediatamente successivi alla proclamazione dell’armistizio dell’Italia, l’8 settembre 1943. Restano meno note le vicende di coloro, non pochi, che dopo quella data scelsero di non stare con i vincitori e di restare piuttosto fedeli alle proprie convinzioni, ai propri ideali. Uomini cui, proprio perché sconfitti dalla storia, per troppo tempo non è stata riservata né memoria, né comprensione, né tanto meno compassione.
È stato questo il destino di tanti italiani catturati dagli inglesi sul fronte africano e trasferiti nella lontana India. Decine di migliaia di prigionieri spesso liquidati con il marchio dell’infamia o di traditori, indistintamente, sebbene tra loro vi fossero decine di medaglie d’oro al valor militare: uomini che una volta tornati in patria nessuno degnò neppure di uno sguardo.
Lucio Martino, giornalista e storico, ha deciso di dare un proprio contributo al recupero di quella storia in buona misura rimossa e all’elaborazione della giusta considerazione nei confronti di tanti coraggiosi servitori della patria Italia. Ne è uscito un bel libro, Catturati in Africa, internati in India, Eidon Edizioni 2020, p. 166, € 18,00), ricco di ragguagli particolareggiati ed esaurienti su uno dei capitoli più drammatici della Seconda guerra mondiale.
Con semplicità ed efficacia, attingendo a piene mani alle memorie dei sopravvissuti, oltre che a documenti e cronache ufficiali del tempo, Martino racconta dunque la tragica e complessa vicenda dei Prisoners of war italiani in India, internati nei diversi Campi inglesi di Yol, Bangalore, Clement Town e Ramgarh, narrandone i malinconici stati d’animo e le angosce, ma anche le capacità di resistenza, di adattabilità e il genio capace di trasformare a proprio vantaggio le circostanze avverse.
Tra le storie di singoli prigionieri narrate, spiccano quelle di anconetani (come lo stesso Martino), in particolare quella di Camillo Milesi Ferretti, di Ancona, già comandante del sommergibile Berillo, catturato dagli inglesi il 2 ottobre 1940 e trasferito in India un mese dopo, protagonista di tre falliti tentativi di fuga. Riuscito il quarto, Milesi riconquista l’agognata libertà raggiungendo l’enclave portoghese di Goa, da dove, dopo una prolungata attesa, riesce a prendere il largo, rientrando finalmente in patria, a Napoli, il 2 luglio 1945. Autore di un mirabile memoriale della sua prigionia, pubblicato postumo (20.000 Rupie di Taglia, R. Danesi Editore, Roma 1948), appena due anni e mezzo dopo Milesi si sarebbe tolto la vita, il 3 gennaio 1948, a Roma. Una vicenda rispetto alla quale, ricorda Martino, rimangono molti dubbi. Perché mai, neppure quarantenne e poco dopo aver affrontato tanti rischi e pericoli per riacquistare la libertà e poter tornare in Italia, Milesi avrebbe dovuto uccidersi? Forse perché non trovò più né la monarchia, né il fascismo né, soprattutto, la stessa Regia Marina a cui aveva sacrificato gli anni migliori della propria vita? È vero, lo ricorda bene Martino, che una volta rientrato non riusciva a darsi pace, e come lui tanti uomini di mare, per la condotta italiana nel Mar Mediterraneo. Probabilmente, fece anche presente a chi di dovere quella sua cocente delusione. Un rammarico profondo per quella condotta, che autorevoli commentatori non esitarono a definire vigliacca e non mancarono allora gli analisti e gli storici che accusarono di tradimento i vertici dello Stato Maggiore della Marina, in particolare Francesco Maugeri, capo del Servizio Informazioni e Sicurezza della Marina per intelligenza con il nemico. Maugeri era stato nominato Capo di Stato Maggiore della Marina il 1 gennaio 1947 restando in carica fino al 4 novembre 1948. Fu al centro di violente polemiche per la sua preziosa collaborazione con l’intelligence americana quando l’Italia era ancora alleata dei tedeschi. Fu per questo che l’ammiraglio Maugeri ricevette dagli Usa l’onorificenza “Legion of Merit”, con la seguente motivazione: “per i servizi resi alla V Armata Americana per la condotta eccezionalmente meritoria nella esecuzione di altissimi servizi resi al Governo degli Stati Uniti come Capo dello Spionaggio italiano e come Capo dello Stato Maggiore della flotta italiana durante e dopo il conflitto”. Un insieme di circostanze che fa dire a Martino come il suicidio di Milesi, compiutosi senza alcun messaggio, sia tutt’oggi un giallo irrisolto di cui nessuno ha più avuto il coraggio di parlare.
Accanto alla vicenda di Milesi Martino racconta anche quella di un altro audace anconetano, suo compagno d’infanzia, Elios Toschi: anch’egli in Marina, inizialmente sommergibilista, ma in seguito, insieme a Teco Tesei mise a punto il noto “maiale” (ovvero lo SLC, siluro a lenta corsa) che tanto fece dannare gli inglesi. Anch’egli catturato in Africa, Toschi ritrovò Milesi a Geneifa. Dopo aver condiviso un paio di tentativi di fuga, la via del rientro in Italia, seppur non insieme all’amico, riuscì anche a lui.
Tra le storie narrate c’è anche quella del capitano Glauco Luchetti Gentiloni, anch’egli di nobile rango, come Milesi, che dopo due falliti tentativi di fuga da Yol venne messo per punizione in una buca per quindici giorni. In quello stesso campo ai piedi del Tibet si ritrovarono altri uomini che non è azzardato definire leggendari. Tra questi Giuseppe Biagi, bolognese, che aveva partecipato come marconista alla spedizione di Umberto Nobile al Polo Nord, riuscendo a lanciare dalla “Tenda Rossa”, nel maggio del 1928, le richieste di aiuto per i sopravvissuti. Biagi, catturato in Africa, fu trasferito anche lui in India, dove mise a punto una radio per captare notizie dall’Italia.
Nelle interminabili ore tra i fili spinati, racconta ancora Martino, i reclusi si facevano raccontare gli episodi bellici dai loro compagni di sventura oppure partecipavano alle lezioni d’economia dell’università del prigioniero creata da quel Guglielmo Tagliacarne che al rientro in patria avrebbe poi fondato la Bocconi School of Management.
Uomini che, seppur in prigionia, non rinunciarono a far buon uso del proprio ingegno. Tra questi Lido Saltamartini, che costruì una minuscola macchina fotografica con materiale di recupero con la quale scattò migliaia di foto (alcune di queste sono poste a corredo del libro di Martino). E ci fu perfino chi riuscì a costruire un distillatore per l’acquavite che, una volta colorata, veniva venduta ai carcerieri inglesi come whisky…
Storie di tanti singoli uomini dunque, ben narrate all’interno della “grande” storia. In questo senso spicca il capitolo dedicato alla nascita della Repubblica Fascista dell’Himalaya, nata il 9 novembre 1944 nel campo 25 di Yol, dove i circa 1.500 uomini, gli “irriducibili”, si schierarono in ascolto del giuramento della RSI captato per radio giorni prima.
Un libro bello, perché impreziosito da un buon apparato fotografico, e utile perché arricchito di un pur incompleto elenco dei prigionieri italiani a Yol. Ricordiamolo, furono circa 10.000, e non di tutti è stato ancora possibile scoprire l’identità.