Ufficialmente oggi esistono cinque domini. Essi rappresentano un insieme di capacità e attività che vengono applicate al campo di battaglia, ognuna in un ambiente di riferimento, facenti parte perciò del cosiddetto hard power. Primariamente il dominio terrestre, quello marittimo e quello aereo, definiti come “domini tradizionali” ed inizialmente inquadrati a livello nazionale nel Comando Operativo Interforze (COI). Ma anche altri due, sviluppatisi nel corso del tempo con l’evoluzione tecnologica nelle operazioni di carattere militare: il Cyberspace, riconosciuto ufficialmente in occasione del summit NATO di Varsavia tenutosi nel luglio 2016 e inquadrato a livello nazionale nel Comando per le Operazioni in Rete (COR), e lo spazio extra-terrestre per il quale, seguendo l’evoluzione di tale dominio nelle forze armate alleate (NATO), nel giugno 2020 è stato costituito in Italia il Comando delle Operazioni Spaziali (COS).
Nel luglio 2021, per poter agevolare il comando delle operazioni multidominio (MDO) il COI ha “subìto” una evoluzione tramite la costituzione del Comando Operativo di Vertice Interforze (COVI), alla supervisione del quale è stato posto anche il Comando Operativo per le Forze Speciali (COFS).
Concentrandoci più sull’aspetto marittimo si può notare negli ultimi anni una sua maggiore regolamentazione: nel corso della storia la legge del mare era ispirata, all’interno del diritto internazionale, alla conservazione della libertà marittima, considerando la terraferma come centro principale dell’autorità di uno stato. Tale distacco dal passato si deve anche all’evoluzione del modo di fare guerra, con l’assunzione da parte di quella marittima della capacità di poter effettivamente colpire la terraferma. Risulta quindi nettamente inferiore la differenza tra ambiente terrestre e marittimo, considerate anche le evoluzioni in campo giuridico, con la presa di sovranità da parte degli stati del mare attorno alle proprie coste (UNCLOS di Montego Bay nel 1982).
Basti pensare all’espansione della sovranità nazionale fino a dodici miglia nautiche, e fino a duecento miglia nautiche per la ZEE, comprendente l’intera colonna d’acqua, il fondo e sottosuolo marino. Questa territorializzazione degli spazi marittimi non può più farci ignorare l’esistenza di un nuovo ambiente ricco di interessi economico-strategici: l’ambiente subacqueo. Con quest’espressione si intende genericamente quella parte di acqua dalla superficie al fondale marino compreso il sottosuolo; esso offre infatti una diversità di materie prime non indifferente quali manganese, cobalto e nichel (per citarne alcune), fondamentali per quella che è la green economy.
Manca tuttavia una effettiva regolamentazione giuridica dello stesso, soprattutto considerando i rischi connessi ai cavi sottomarini (che trasportano circa il 98% del traffico dati globale attraverso una rete di 426 cavi) o alle pipeline.
Quest’ultimi si inseriscono in una categorizzazione divisa in sei gruppi delle infrastrutture subacquee a rischio:
– Infrastrutture energetiche
– Infrastrutture per il trasporto di energia elettrica
– Infrastrutture di comunicazione
– Infrastrutture di bio-farming
– Infrastrutture minerarie
– Infrastrutture per lo stoccaggio dell’anidride carbonica
A livello strategico è evidente la vulnerabilità di tali elementi viste le capacità offensive e di movimento dei mezzi marittimi: basti pensare al sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2. Volgendo lo sguardo al passato ricordiamo quando, durante la Prima Guerra Mondiale, gli inglesi (il primo agosto 1914) troncarono 4 cavi sottomarini tedeschi, risparmiando un solo cavo, per lo più soggetto ad intercettazioni. E ancora oggi, in mancanza di una normativa internazionale che renda illegale l’utilizzo dei cavi ai fini di spionaggio, esiste un’ampia possibilità di poter accedere ai dati, si vedano i programmi Tempora e PRISM.
In quest’ottica è importante considerare il pericolo per la nostra Sicurezza Nazionale, considerato che il 90% degli approvvigionamenti arrivano in Italia via mare. La territorializzazione esposta precedentemente ha influito in modo netto anche sul Mare Nostrum portando ad avere meno del 20% della superficie marittima libera dalle pretese degli Stati che vi si affacciano. Ciò rende estremamente importante per l’Italia l’influenza sul Mediterraneo allargato, dalla quale ne dipende l’interesse strategico ed economico. Infatti la fisionomia geografica del bacino impone una serie di passaggi obbligatori per tutto quello che è il traffico marittimo (sia militare che civile) proveniente dal Mediterraneo orientale, dal Mar Nero e dal Canale di Suez (sia in ingresso che in uscita).
Questo traffico si rivela estremamente importante se si considera che per il Mediterraneo, nonostante occupi solo l’1% della superficie acquatica mondiale, passano circa il 20% del traffico marittimo mondiale, nonché il 25% dei servizi di linea su container, il 30% dei flussi di petrolio e il 65% del flusso energetico per i paesi dell’UE. È quindi necessario per l’Italia investire in una rigorosa politica estera, dando rilievo agli aspetti economici, di sicurezza e di difesa al fine di salvaguardare la nostra indipendenza tramite gli interessi sopra e sotto la superficie del mare.