OGGETTO: Il sovranismo non esiste
DATA: 07 Marzo 2024
SEZIONE: Società
FORMATO: Visioni
AREA: Italia
Le proteste di Pisa, come ogni protesta degli ultimi anni, assomigliano più a una vaga increspatura in un oceano di conformismo, che non ad un organizzato moto sistemico di dissenso. In l'Italia è impossibile immaginarci diversi, liberi e sovrani. Liberi di attaccare un massacro e specialmente il suo mandante israeliano. Perché l'Italia non è una nazione sovrana: non lo è, in primo luogo, mentalmente.
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Sulle proteste pisane e sulla loro repressione sono stati spesi fiumi di parole. Ancora una volta calcando politicamente la mano su alcuni storici cavalli di battaglia – oltremodo strumentali – propri alla narrazione di centro destra o sinistra. L’emotività ha fatto da padrona, risvegliando da un lato un appello alla prioritaria difesa dell’ordine (dell’ordine di chi?), dall’altra di un inefficace quanto retorico terrore “fascista” o “totalitario” (laddove imperversano un’ignoranza o una malizia assolute sul loro effettivo significato storico ed ideologico).

Stupisce il modus operandi di una certa parte di opposizione, abituata in tempi non sospetti a reprimere con altrettanta – se non superiore – violenza altre proteste (chiedere ai portuali di Trieste). Attaccare la natura della repressione e renderla un fatto di colore politico, significa praticare quell’operazione tanto cara all’inutile dibattito politico nostrano.

Specchio dell’inconsistenza della politica in sé, celebrata come veicolo imprescindibile di operatività nel mondo, quando sono la natura strutturale, il carattere di una collettività, ad incidere maggiormente, servendosi semmai della politica. Il tutto, con annessa la supervisione divenuta piena assuefazione al grande “alleato” e protettore americano.

Tramontati i tempi di un’effettiva ingerenza statunitense nella politica italiana, lungo buona parte dei decenni della cosiddetta Prima Repubblica – seppure con una libertà d’azione oggi impensabile, dovuta allo status di frontiera dell’Italia – a far da padrona è ormai la volontaria accettazione dello status quo, nutrita di momentanee proteste che non hanno nulla di sistemico, pur manifestando un senso di umanità probabilmente scomparso a certe latitudini mediatiche, e che somigliano più a vaghe increspature in un oceano di conformismo.

Indifferenti alla storia, privi di una seria comprensione delle complessità in atto, appiattiti su una difesa della Palestina che non si traduce – e non potrebbe tradursi per cause antropologiche ed esterne – in un coerente mutamento di prospettiva, in uno sganciamento impossibile dall’universo atlantico e settentrionale, in una pur modesta attenzione al Mediterraneo e ai suoi popoli; oppure aggrappati a quel “diritto alla sopravvivenza di Israele” che si è fatto vergognosa difesa ad oltranza di un massacro. Indistinguibile da altre aggressioni in corso. Ipocrisia generale e – ancora più grave – sentita sinceramente (telefonare al “Foglio” per conferme). Il fatto stesso che il dibattito slitti su di un genocidio quasi “accidentale” di cui a gran voce a livello mediatico si è chiesta la cessazione, senza mai citare il nome del mandante, dovrebbe far riflettere.

Senza poter (o voler) menzionare Israele. Non perché cantanti, giornalisti o artisti siano dei “venduti”, ma perché turbati talvolta da un senso di colpa divenuto freno inibitore. In una vergognosa attribuzione di legittimità alla guerra israeliana, perché “altrimenti si scivolerebbe nell’antisemitismo”. Oppure insistendo sul fattore politico, sulla polizia, sui manganelli, sul fascismo, sull’antifascismo. Repubblica che difende – giustamente – il diritto alla manifestazione, dimenticandosi tuttavia di altre botte “democratiche” e specialmente della propria quasi passiva accettazione delle azioni israeliane.

Il Giornale e Libero, con la succursale Rete 4, nella loro sarcastica e mitomane essenza, che contrattaccano nella loro perenne isteria contro qualsiasi cosa suoni vagamente “di sinistra” (di quale sinistra parlino, peraltro, non si sa). In questo magma scompaiono i protagonisti. Il discorso scivola sulle questioni interne. Diviene pura propaganda elettorale – e lo sa bene il trasformista Giuseppe Conte. Si fa auto-intestazione di vittorie politiche alle regionali. Quando gli unici vincitori da anni a questa parte sono conformismo e indifferenza. Così viene esaltato un voto di pancia, apparente reazione alla repressione di Pisa, da parte degli stessi che appellavano all’importanza della razionalità elettorale. Quando, nei fatti, le due componenti sono inscindibili, perché l’umano funziona in questo modo. Quando chiunque governi in ogni parte del mondo, cosiddetto, libero, governa su una minoranza di sostenitori, su una quasi minoranza di oppositori, e su una stragrande maggioranza, sempre crescente, di indifferenti e astenuti. Con buona pace di ogni analisi elettorale.

Ciò che invece permane, non come contingenza e volatilità politica, è che non esiste Stato europeo occidentale in cui non siano state applicati i medesimi dispositivi di contenimento, a prescindere dal colore politico, come si evince dalla Germania e dalla Francia. Che anzi, paradossalmente, proprio l’Italia abbia lasciato sfogare maggiormente tali manifestazioni pro-Palestinesi, salvo bombardarle con assurde accuse di “anti-semitismo”, demolendone la portata a livello mediatico o ridimensionandone l’impatto.

Non questo governo né altri avrebbero assunto una diversa postura. Fatto salvo forse in alcuni degli strumenti adottati. I paletti che prima venivano imposti dall’esterno, son divenuti educazione al rispetto forsennato dell’atlantismo. Nella pratica, unica via percorribile. Nella teoria – almeno nella teoria – elemento che potrebbe essere smussato o rielaborato. Per servirsene a proprio vantaggio e forse anche a vantaggio di chi di questa egemonia sta pagando il prezzo più alto. E quella bestia antica e leggendaria del sovranismo, tanto millantato alle nostre latitudini dal nostro attuale governo, quanto criticato (sulla base di imprecisate organizzazioni europee e di una fumosa globalizzazione) resta una chimera. Dato che non esiste sovranismo senza sovranità.

L’Italia non è una nazione sovrana; non lo è, in primo luogo, mentalmente. Oggi spaesata, perché dall’esterno non arrivano quelle critiche – ossigeno puro per gli esterofili nostrani – a tutte le manifestazioni di repressione e di slittamento autoritario dell’Italia. Tali richiami non sussistono dove l’allineamento è totale. Bisognerebbe chiedersi se l’Ungheria sia effettivamente più illiberale della Polonia, o se sia soltanto più filorussa (pur strumentalmente). Fuori dai nostri confini, tutto è ormai accettabile, nel più atlantista tra i governi italiani degli ultimi tempi, dopo le sgangherate e a tratti ridicole esperienze di “autonomia”, tra accordi personali berlusconiani e adesioni alla Via della Seta. Impossibile fare altrimenti, probabilmente.

Roma, Dicembre 2023. XIII Martedì di Dissipatio

Ci sia concesso, nondimeno, di immaginarci diversi, liberi e sovrani. Mentalmente liberi di attaccare un massacro e specialmente il suo mandante israeliano, oggi praticamente impossibile o dagli scarsi effetti operativi. Fu ancora un maestro come Jünger ad indicare una via di reale resistenza, declinabile dall’anarca – contrapposto al caotico e spesso ideologicamente funzionale anarchico – ad un ritorno all’esistente. Una protesta deve farsi coscienza irrazionale. Rivolta essenziale ad un ordine, presente o – nel nostro caso – esterno.  L’Italia ha smesso di opporsi al proprio stato, ridotta dall’età e dall’abitudine al silenzio, nelle sue ultime e cruente manifestazioni negli anni Settanta e Ottanta. Trasformati dalla realtà, pur violenta, di collettività spiritualmente indipendenti, ad individui atomizzati e pacifici su influenza di protettori che si fingono alleati, privi oggi – nella nobiltà delle intenzioni – di un afflato complessivo e cosciente. Come fu già scritto tra queste colonne parlando del capolavoro di Jünger, Eumeswil:

«L’anarchista non capisce che “opposizione è collaborazione”; infatti, in una società che voglia confermare il proprio potere in modo indiscusso, le opposizioni, quelle palesemente violente e in fondo sterili, servono come pungolo “che convince la società della propria unità”. Si tratta della tragica eccezione che conferma la regola, ma anche del terrorismo che – secondo dinamiche che rimandano a ogni strategia della tensione – giustifica presso la massa la forza reattiva dello Stato, cioè la repressione altrettanto violenta della libertà: in questo senso chi si oppone è servo del potente e fa il suo gioco. L’anarca, anche quando serve con gioia, conduce “un’esistenza isolata, insulare” e la peggiore prigione per lui “si muta in isola, in rifugio del libero volere, in proprietà”.»

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