Il caso è un abracadabra, ha la schiena costellata di prodigi. Il giorno in cui, a Roma, muore Raffaella Carrà, a New York se ne va Richard Donner. Nulla li ha uniti, in effetti: la Carrà era una donna di spettacolo, che domava le telecamere; Donner, più vecchio di tredici anni, nato nel Bronx, di origini ebraiche – il vero cognome è Schwartzberg – le telecamere le manovrava con talento. Raffaella Pelloni, la ‘Raffa’, comincia con il cinema – nel modesto Il colonnello Von Ryan, è il 1965, recita al fianco di Frank Sinatra –: opterà per la tivù, indossando un cognome che rimanda al grande Carlo Carrà. A suo modo, Raffaella ha portato il futurismo e l’estro metafisico nello schermo popolare. Donner, a contrario, comincia con la tivù – dirige Steve McQueen in alcune puntate di Wanted Dead or Alive –, ma sfonda con il cinema. Nel 1978 firma, con la sceneggiatura di Mario Puzo, Superman: il cast, che allinea Marlon Brando, Christopher Reeve, Gene Hackman, è davvero stellare. Ecco il punto d’unione devoluto dal caso. Raffaella Carrà è stata il Superman della televisione italiana, la Superwoman.
Fu l’autentico amuleto della tivù, la Carrà, icona taumaturgica, l’incensiere in cui tutte le ipocrisie svanivano, smentite: mentiva, è ovvio, come tutti gli eroi dello spettacolo, tanto da apparire autentica, emblema della sola, cristica verità catodica. Sbaglia chi stigmatizza, snobismo & cravatta, il Niagara di articoli intorno al corpo morto e santificato della Carrà, le nostalgiche e gladiatorie trasmissioni che omaggiano la divina, celebrando, in fondo, la morte di Madonna Tivù. Sbaglia perché la storia, per fortuna, non la fanno i filosofi né gli scrittori, ma gli uomini di spettacolo e i capi di Stato (che in fondo, come intuì la Raffa, sono la stessa cosa); i poeti stanno in altro ambito, in un imbuto al di là della storia, in una loro anarchica liturgia dell’inspiegabile. Raffaella non è stata Simone Weil né Virginia Woolf e neppure Ingrid Bergman, non aveva il viso micidiale di Ingrid Thulin: ha tenuto per i capelli un Paese martirizzato dalla guerra civile, in piombo, e dal trionfo bacchico dello svacco, del becero, del vile, del denaro; giostrava emozioni, titillava il cuore, fece del patetico – più che dell’empatico – una forma d’arte pratica, enfasi dell’effimero.
Cresciuta a Bellaria, in Romagna, dove il corpo è naturalmente esposto, come un’alba, la Carrà va a Roma, da piccola, a studiare danza e recitazione. Lo stesso tratto – Romagna/Roma – percorso da Federico Fellini, di cui la Carrà, in qualche modo, è la femmina ustoria, una Gelsomina pop. Corpo esibito, mostrato, aggraziato, grazioso, danzante, certo, eppure, in qualche modo, extrasessuale, un poco alieno, infine materno – di lei ricordi l’ombelico, non il seno; gli occhi, mica le labbra. Proprio perché pareva così ‘disponibile’, appropriata, apparentemente vaga, la Carrà restava irraggiunta, in un suo empireo di sorrisi. Ricordando l’Italian entertainment icon, il “Guardian” ricorda il leggendario sondaggio di Minoli del 1984, in cui la Carrà risultava “il personaggio più amato d’Italia” insieme a Papa Woytila e a Pertini, e la didascalia che le dedicò “L’Espresso”: “più applaudita di Pertini, più efficace di Michel Platini, più miracolosa di Padre Pio”. Di che stupirsi? In sé, Raffaella teneva insieme Stato, Chiesa, Show, accontentava tutti: non certo per effervescenza di genio, per esuberanza, piuttosto, perché ci credeva. Eccolo, l’autentico rito cattolico-catodico, incarnato da una specie di madonna bionda, su cui la fama – questo fenomeno misterioso, inesplicabile, che ad alcuni arride per capriccio e ad altri, pur geniali, si nega, con nera ostinazione – folgorava. Già: è il liquore del successo, il magnetismo che confonde chi mangia e chi è mangiato, che fa di chi lo detiene mangime e miracolo, ad affascinare, un tuffo nell’al di là della ragione.
Gli anni Ottanta, quelli del clamore assoluto, di Pronto, Raffaella? e di Buonasera Raffaella, coincidono con i grandi film ‘di cassetta’ di Richard Donner: I Goonies (1985) e Arma letale (1987). Il primo è un inno sperticato alla gioventù corsara, alla fede, in fondo, nel tesoro nascosto e nella mappa segreta; l’altro, dietro la patina di un ironico machismo, è, di fatto, un salmo sul senso dell’amicizia, sulla necessità del rischio. Giovinezza, rischio, avventatezza, una certa dedizione al trash, all’essere fuori tempo, una basilica sull’isola del tesoro, sono caratteri che definiscono la Raffaella nazionale. Più che annegare nell’effluvio di commenti nostrani, però – tutti proni, i gran khan del perbenismo, a gorgheggiare sui fasti televisivi di un paese solare, a fare di Raffaella una pasionaria, esemplificati dal magniloquente Walter Veltroni, ventriloquo di ovvietà, pronto a ridurre ogni evento al biberon sociologico, al biberone storico: “Era una donna di grande intelligenza, di irresistibile simpatia, di solare bellezza. Le italiane e gli italiani l’hanno amata molto. Ha conquistato il pubblico popolare e anche i palati più sopraffini, financo gli schizzinosi, del rutilante mondo dello spettacolo e della cultura. Era impossibile non volerle bene e non capire che quella ragazza nata mentre il fascismo stava per morire, partorita da una madre che ebbe il coraggio di divorziare dal marito nell’Italia bigotta del dopoguerra, era una strana alchimia” –, occorre leggere la Carrà attraverso lo spettro dei giornali esteri. Stregò il Sud, la Carrà, le nazioni dal cuore trafitto, che credono a ogni prodigio e danno alla fama un valore salvifico – beata sacralità del vano –, pronte a farsi matare dal desiderio estemporaneo, a inseguire il canto e il caos. Murió la italiana que enamoró a la Argentina, titola il “Clarín”; “Non può morire chi rappresenta tutte le cose che abbiamo desiderato da bambini, da adulti… Ha aperto la strada a Madonna, a Lady Gaga, a Paulina Rubio. Tutti le dobbiamo qualcosa… Ci ha preso tutti per mano, da Buenos Aires a Caracas a Madrid, ci ha spinto a ballare, a vestirci con leggins blu elettrico, a sbattere i capelli, a rivoluzionarci dentro e fuori. Questo la rendeva irripetibile. E ora immortale”, scrive Boris Izaguirre su “El País”.
Il film più bello di Richard Donner resta Ladyhawke (1985), degno specchio degli Ottanta, protesi al fantasy (che sia epico, come Dune, grottesco, come in Labyrinth, o alato nel candore come La storia infinita). Rutger Hauer e Michelle Pfeiffer – entrambi corpi angolari, definiti dalla tenebra – si inseguono senza trovarsi: in un Medioevo grave di magia, uno è uomo di giorno e lupo la notte, l’altra, l’amata, di notte è donna, al sole è falco. La bestia è un sortilegio, l’arcano che cova nel retro dell’iride; ogni incontro è autenticamente impossibile. Raffaella fu una siringa di acqua benedetta, oro che sgorga in sorrisi, infine, la possibilità di inscatolare il sole in una tazza. E basta. Non fatene una statua.