OGGETTO: Un duello sulla società aperta
DATA: 16 Agosto 2024
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
Libertà contro libertà (il Mulino, 2024) presenta un dibattito tra due autori liberali (ma con prospettive politiche diverse), Emanuele Felice e Alberto Mingardi, che esplorano il concetto di libertà e le sfide del liberalismo nel passato, presente e futuro. Felice propone un liberalismo sociale che bilanci libertà e uguaglianza, enfatizzando l'importanza dei diritti sociali e dell'intervento statale. Mingardi, invece, difende un'economia di mercato più tradizionale, sottolineando il ruolo della libertà economica e la necessità di limitare il potere dello Stato.
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Libertà contro libertà (il Mulino 2024) è un duello a distanza tra due autori della vasta famiglia liberale, Emanuele Felice e Alberto Mingardi, che in tre macro-capitoli (“Ieri”, “Oggi” e “Domani”) affrontano le sfide della libertà e del liberalismo. Il volume è articolato in maniera logica ed emerge la differenza stilistica e contenutistica tra i due autori. Mentre Felice usa un approccio più accademico e storico, Mingardi propende verso l’uso di esempi tratti dalla vita quotidiana. Nel complesso il libro è equilibrato e si propone di capire il concetto di società aperta (plurale, diversa, caotica) nel tempo. Gli autori si concentrano su tematiche etiche, economiche e politiche e si chiedono cosa sia il liberalismo e cosa si intenda quando lo si accosta al concetto di libertà. La domanda del volume è come mai la libertà è così importante.

Gli autori danno risposte diverse. Felice traccia la storia della libertà. La prima libertà è stata quella di poter esprimere il proprio pensiero e lottare per le proprie idee. In altri termini, la libertà di parola è stata la prima conquista del liberalismo. La stampa ebbe un ruolo enorme in questo fino alla creazione dello Stato liberale basata sulle idee di John Locke. Alla base del liberalismo lockiano ci sono la vita, la libertà l’uguaglianza di fronte alla legge, la proprietà. Lo Stato moderno immaginato dal filosofo deve garantire ai cittadini tutti questi diritti naturali e se non lo fa in estrema ratio i cittadini hanno diritto alla rivoluzione. Il Settecento è stato abbastanza prolifero in termini di estensione delle libertà, tra l’Illuminismo e la rivoluzione industriale fino ad arrivare al liberalismo come ideologia principale della modernità.

La libertà non viene identificata nel volume come il “motore della storia”, ma Felice riconosce che per millenni la stragrande maggioranza delle persone è stata costretta a fare quello a cui veniva destinata dalla nascita. Tutto questo cambiò con l’avvento del liberalismo. Felice è di centrosinistra e dunque ha a cuore molto la questione dell’uguaglianza e il suo difficile rapporto con la libertà. Ne ripercorre la storia a partire dal nuovo liberalismo inglese basato su John Maynard KeynesWilliam Beveridge e Franklin Delano Roosevelt. Che, sul piano internazionale, cercarono di impostare una convivenza tra popoli fondata sul diritto e sulla rinuncia al colonialismo dando origine al welfare e giustificando l’intervento pubblico nell’ottica di un nuovo liberalismo o liberalismo sociale o liberalismo progressista. La tesi di fondo di Felice è che per preservare la libertà occorre estendere i diritti alla dimensione sociale.

Ma questo non viene ben spiegato nel libro a livello pratico. Felice ha ragione a dire che spesso e volentieri quella dei liberali è un’eguaglianza solo formale. Anche perché non è un mistero che il liberalismo predilige le ragioni della libertà su quelle dell’uguaglianza. Fu dunque il socialismo a prendersi carico di questa dimensione – con tutti i problemi arcinoti che l’autore non esamina.Più facile è attaccare la previsione di Friedrich von Hayek, secondo cui l’interventismo statale era la via per la schiavitù. Una tesi, a detta di Felice, che si è rivelata sbagliata. Importanti nel capitolo sul passato sono il pensiero di Thomas Hill Green che proseguì lungo la traccia diJohn Stuart Mill, secondo cui la libertà non è soltanto l’assenza di costrizione (libertà negativa), ma anche la libertà positiva, cioè di creare, di realizzare.

In effetti, un’azione moralmente giusta è quella che massimizza, secondo Jeremy Bentham, il benessere e riduce le sofferenze per il maggior numero di persone. In quest’ottica, originale la provocazione di Felice, ridistribuire la ricchezza sarebbe una misura … liberale. Non sarebbe d’accordo Mingardi che pure riparte dalla dimensione antica della libertà. Secoli addietro, la libertà era quella cosa che le persone sentivano di doversi riprendere quando veniva loro sottratta. Fu attorno al Mille che cominciarono a nascere le città come centri di commercio. L’area delle città rende liberi, scrive Mingardi. Il quale asserisce che le persone che scambiano dei beni devono fidarsi tra loro. «La chiave della nostra libertà risiede nello sviluppo del cervello e delle sue particolarità di funzionamento che ci hanno messo in condizioni di costruire aspettative e astrazioni sempre più articolate e complesse con cui classificare l’ambiente».

Non mancano qua e là nel volume i tentativi di definire il liberalismo, comprendendo soprattutto la libertà di commercio, il tentativo di limitare il potere dello Stato – ragione per cui il liberalismo nacque cinque secoli fa. Mingardi spiega che per godere della libertà occorre essere responsabili perché «la libertà ci obbliga […] a dare conto di tutto». Che la libertà è la libertà degli altri, di cui noi siamo beneficiari diretti. «La libertà ci consente di affrontare imprese più complesse e ambiziose, di organizzare la produzione di massa, di realizzare beni e servizi su scala mai vista prima». Una società aperta si basa sulla e ha bisogno della cooperazione. «Essere liberi spaventa, ma conviene». Sull’immigrazione: «In generale le persone, quando si muovono, non lo fanno per andare verso società più egualitarie, quanto semmai per andare verso società più ricche». È grazie alle istituzioni che le società possono diventare più prospere.

Mingardi scrive che i fallimenti individuali sono utili al funzionamento della società aperta perché da essi si impara. D’altra parte, «il liberalismo non serve dare un senso alla vita e non s’azzarda a prometterlo. […] Non solo non può promettere il paradiso in terra. Nemmeno può promettere che nella società aperta “andrà tutto bene”». E ancora: «lasciare in pace gli altri è l’idea più controintuitiva è indigesta che possiamo trovare. Per fortuna […] ne abbiamo avuto in cambio la più incredibile esplosione di benessere economico della storia continuiamo a essere liberi finché scegliamo di essere ricchi. Quando ricchi lo siamo diventati […] la libertà perde molto del suo appeal», sostiene Mingardi. Ecco, dunque, che emergono altre questioni che vengono sottolineate da Felice nel capitolo sull’oggi, focalizzato sull’emancipazione umana e sulla questione del lavoro. Felice si spinge a fare parallelismi con il socialismo in libertario.

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Roma, Maggio 2024. XVIII Martedì di Dissipatio

Secondo Carlo Rosselli (Socialismo liberale) il socialismo si proponeva di emancipare la classe più numerosa e oppressa e vitale per il progresso economico. «Se noi pensiamo che il liberalismo sia l’ideologia di una classe sociale, la borghesia, il socialismo lo stia invece del movimento operaio […] allora non possiamo che trovarli in contrapposizione […]. Se noi invece immaginiamo il liberalismo come un’ideologia che […] vuole proporre un via all’emancipazione e un senso della storia per l’umanità intera […] e lo stesso criterio lo applichiamo al socialismo, allora non possiamo che evidenziare le loro origini comuni, sul piano ideale, e un’identica traiettoria: la dignità e la libertà delle persone che lavorano, l’ambizione di volgere il progresso tecnologico all’emancipazione umana – cioè ai diritti». Si noti che queste due concezioni del liberalismo, che non emergono nei dibattiti politici contemporanei, sono entrambe legittime nella società aperta.

Il liberalismo dovrebbe rivedere due dei pilastri: proprietà e competizione. Ma Felice avverte che se questi vengono assolutizzati e posti sopra ad ogni altro diritto si arriva al disastro. Felice sostiene che alla proprietà privata andrebbero affiancati tutti gli altri diritti, civili e politici. Ma anche sociali, economici culturali e ambientali. Alla competizione invece andrebbe affiancata la cooperazione – «insieme agli altri e non contro gli altri». Sono un po’ le tematiche di Pëtr Kropotkin e Leonard Hobhouse. Felice si fa promotore di un liberalismo sociale propenso ai diritti sociali. Il che è in contraddizione rispetto al pensiero neoliberale, che ritiene che la libertà economica è la chiave per la libertà politica e per ogni altra libertà. Milton Friedman(Capitalism and Freedom) scrisse che la libertà economica «è la condizione necessaria per la libertà politica». L’autore fa una distinzione utile e che spesso e volentieri non è chiara al grande pubblico.

Il neoliberale crede che la libera concorrenza sia un fenomeno naturale nelle società umane e che i poteri pubblici la ostacolano. D’altra parte, gli ordoliberali credono che il mercato abbia bisogno di un’efficace Stato regolatore, pena il rischio del monopolio. Entrambi, scrive Felice condividono l’assunto ideologico del mercato come fenomeno spontaneo. L’autore torna a più riprese su Hayek e ne confuta gli assunti spiegando che l’intervento pubblico può essere un fautore di ampliamento delle libertà della persona. Si ascrive al gruppo di chi sostiene che il neoliberismo ha scavato la fossa al liberalismo. Un altro fallimento del neoliberalismo sarebbe il fatto che con la prosperità ci sarebbero stati democrazia e diritti per tutti. Non è andata così (vedi Cina, Turchia, Russia, etc.). Ma questa promessa il liberalismo non l’ha mai fatta! Secondo Felice il liberalismo «si è separato dai diritti dell’uomo», conducendo all’incremento delle diseguaglianze e della frustrazione.

In questa parte del volume, Mingardi parte dalla presenza dello Stato e della necessità di limitarlo. In effetti, lo Stato ha un potere enorme, «ci dice quel che possiamo e quel che non possiamo fare. Non si limita però a dircelo: […] può costringerci a seguire i suoi dettami, è in grado di sanzionare un comportamento sgradito». Esso non sempre è il custode delle libertà che i cittadini limitano per sfuggire alla legge dell’homo homini lupus hobbesiana. Questo mina al concetto di società aperta. Mingardi è un abile difensore dell’economia di mercato. «In un mondo segnato dalla limitatezza delle risorse, a cominciare dal tempo che abbiamo a disposizione, l’economia di mercato serve a selezionare gli usi più proficui di tali risorse […]. L’economia di mercato è un setaccio» e «lo sviluppo economico […] consiste nell’allargamento del raggio delle scelte disponibili».

«Il mercato non ci propone una gerarchia di valori il cosiddetto “motivo del profitto”, che altrimenti potremmo chiamare: la tendenza delle persone a fare qualcosa in cambio di qualcos’altro, è il sigillo della convivenza possibile tra persone che hanno giudizi di valore diversi». Mingardi torna su Hayek: non esiste un controllo economico che non sia anche un controllo politico. In ottica liberale, lo Stato non può e non deve decidere come fattori produttivi debbano essere combinati. «L’economia ha a che fare con i mezzi, non con i fini». «L’economia di mercato non trasforma noi tutti dei super ricchi, ma ci ha reso decisamente tutti più ricchi. Questo essere più ricchi non è la premessa, ma la conseguenza del nostro essere più liberi». In pochi riusciranno a fare sempre quello che vogliono. Ma «sempre più persone riescono a fare qualcosa che assomiglia a quello che vorrebbero».

In questa ottica, la pianificazione rende tutto meno efficiente e rende più costosa la realizzazione di servizi. Mingardi risponde a Felice spiegando che «provare a correggere le disuguaglianze sociali […] sarebbe inutile. Esse sono destinati a ripresentarsi». E qualora queste disuguaglianze fossero corrette, ciò potrebbe venire a scapito di altri talenti – «vivere assieme significa scambiare gli uni con gli altri». Nella società aperta, il mercato ha la doppia funzione di ridistribuire la ricchezza continua e continua a crearne. Nell’ultimo terzo del volume, in cui si parla del futuro del liberalismo, Felice parte con la definizione di chi sono gli altri. Essi possono essere una fonte di oppressione o un aiuto. Giorgio Gaber ha cantato che la libertà è partecipazione. Di converso, Jean-Paul Sartre aveva detto che l’inferno sono gli altri. Ma in realtà gli altri possono essere entrambi. Entrambe le ipotesi nella prospettiva liberale della Storia sono fondate.

Felice indica la politica come la prima sede per cambiare le cose e rinnovare il liberalismo. Oggi e sempre di più in futuro sarà importante ridurre le disuguaglianze e aumentare il welfare state, riconoscendo «che la pluralità dei diritti in una democrazia liberale, non rende la libertà più fragile ma al contrario la rafforza». Felice insiste sull’importanza che la gente abbia diritti sociali e politici e culturali ed indica una strada: leggi sulla trasparenza della politica e finanziamento dei partiti, favorire il coinvolgimento dei lavoratori della conduzione delle grandi aziende, recuperare capacità impositiva e il controllo sui movimenti finanziari speculativi, progettare controlli che regolano l’attività big tech. In un binomio: un nuovo liberalismo. O meglio, un liberalsocialismo basato su politiche di ridistribuzione per coniugare giustizia sociale e ambientale.

Ma per farlo, occorre anche un nuovo ordine mondiale basato su accordi commerciali, finanziamenti alla ricerca, nuove tecnologie, intransigenza sulle violazioni dei diritti umani, risposte alla crisi climatica, tassazione progressiva. Dal canto suo, Mingardi non identifica politiche specifiche. Si limita a riconoscere che «la cooperazione è così essenziale per gli esseri umani perché senza sarebbero più insicuri più poveri […]. Più siamo liberi, meno è probabile che saremo poveri». Infatti, «una società aperta è una società relativamente ordinata, ma non perfettamente ordinata. Per viverci bisogna essere disponibili a sopportare un quantum di caos». «La libertà individuale è un potente generatore di ansia e di frustrazione. Più ci sentiamo padroni del nostro destino e più siamo responsabili dei nostri fallimenti». La società aperta è pluralistica e non impone a nessuno di perseguire uno scopo specifico ho un bisogno specifico.

«La libertà serve […] ad affrontare l’ignoto. Se tutto fosse routine, potremmo stare senza libertà economica. Ne abbiamo bisogno proprio per cercare di non soccombere l’imprevisto». E ancora: «noi oggi non consumiamo di meno, ma inquiniamo di meno […]. La preoccupazione per l’ambiente e tipica di società ricche, dove rappresenta anche una domanda di mercato». Coerentemente con quanto ha argomentato, l’autore non offre soluzioni. «La libertà non è tutto nella vita delle persone e non è neanche cose diverse da essa. Non è la pace. Non è la sicurezza. Il liberalismo ha cercato di fare della libertà la misura di tutte le cose in politica […]. Risolvendo alcuni i problemi, è probabile che se ne creino degli altri. La tradizione liberale non dà ricette sulla vita buona, suggerisce soltanto di non chiederle all’autorità politica. Comprende anche che la libertà può essere vissuta con ansia».

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