Chiunque guardi al presente con realismo sa che la società ha scelto da tempo di ascoltare il proprio abisso interiore e di assecondare alle sue manifestazioni più pericolose, tanto è il desiderio di un ritorno ancestrale di quello che fino a ieri si voleva represso, celato, inaccettabile.
Il sociologo Carlo Bordoni in Furor (Luiss University Press, 2023), racconta il baratro di una violenza capace di sconfiggere la ragione, di legittimarsi eticamente contro chiunque venga ritenuto a torto o a ragione una minaccia alla propria esistenza. Legittimazione cui concorre «ogni convincimento che, sulla base di una reazione emotiva condivisa socialmente, porti a giustificarla come necessaria».
La violenza dunque diventa etica: perpetrata per il bene di tutti in uno stato d’eccezione permanente e, per quanto avversata e tenuta a freno da secoli di incivilimento, si presenta normalizzata «dalle consuetudini e persino tollerata dalle leggi».
Se riconosciamo alla nostra percezione il potere di modificare la realtà, e lo sguardo che abbiamo su di essa, dobbiamo dire che dall’invasione dell’Ucraina e, ancora prima, dalla pandemia, il discorso pubblico ha imboccato una via radicalmente nuova.
Proprio negli ultimi tempi «ha cominciato a divenire percepibile, e quindi ad affermarsi nella coscienza comune, una nuova e preoccupante atmosfera di indulgenza nei confronti del giudizio sulla violenza».
Anestetizzati come siamo dal flusso costante dell’informazione che produce e consuma qualunque evento, il punto di svolta, forse il dramma più distintivo della nostra poca, è l’indifferenza «di fronte alla violenza razionale, esercitata con le armi più avanzate, se a giustificarla è il diritto alla legittima difesa».
Un principio comprensibile che, tuttavia, nelle parole dell’autore asseconda quel «fascino perverso della guerra come mutamento epocale: uno strumento formidabile, dirimente, per uscire dallo stato di incertezza, che permette di resettare la realtà e preparare la rinascita».
Citando Hanna Arendt, proprio nella creazione di un nemico oggettivo risiede il cuore della cosiddetta etificazione della violenza, una strategia imponente che muove da un proposito razionale e mediante l’uso di notizie, video, immagini, punta all’accettazione del conflitto.
Tale costruzione del nemico è parte integrante del buon funzionamento di un regime, il quale deve sempre guardarsi le spalle, al punto che si potrebbe dire che il progresso delle nostre società non sarebbe stato il medesimo senza legittimi nemici; si pensi alle potenze coloniali dell’Europa moderna o, più di recente, ai grandi attori globali che governano le nostre vite, Usa e Cina su tutti: in modi diversi, ciascuno ha fondato, e persegue tuttora a farlo, la propria coesione sull’immancabile Altro cui indirizzare odi e sopraffazioni.
Se queste sono le premesse, c’è ancora spazio per un pensiero realmente autonomo e fondato su basi solide?
Bordoni si interroga proprio sulla conoscenza come rimedio allo sprofondo irrazionalista e rintraccia nelle applicazioni della tecnica, ovvero le nuove tecnologie, le uniche armi a disposizione per combattere le spinte individualistiche del nostro tempo. Ma in che modo?
Nell’odierna società digitale la propria individuazione (concetto riconducibile all’opera di Jung che indica «la crescita personale e la maturazione psicologica del singolo essere umano»), è un atto sociale interrotto e mutato nel suo contrario, vale a dire in una chiusura narcisistica dove l’individuo è impegnato unicamente a soddisfare i propri desideri.
«Nella falsa convinzione che l’obiettivo da raggiungere sia una piena autonomia del soggetto completamente sganciato da ogni debito con la società, si assiste a una chiusura verso il mondo esterno, al rifiuto delle relazioni sociali che non siano quelle mediate dalla tecnologia». Convinzione che la realtà si incaricherà di vanificare, essendo il medium tecnologico non sufficiente ad appagare l’individuo ma solo il terminale di input forniti dal soggetto stesso.
Tra le conseguenze di tale minorità vi è il rifiuto di un sapere condiviso, del quale si pensa di poter fare a meno, ma «Il sapere non condiviso è un non-sapere, si fa nozione relativa e dunque marginale, soggetta alla valutazione delle singole parti e pertanto non oggettiva; insomma, non razionale, considerando la razionalità del sapere come il prodotto di un continuo scambio, dove i contenuti sono confrontati, sperimentati, discussi, criticati». Se lo isoliamo, quest’ultimo concetto potrebbe bastare a fotografare il piano inclinato dove a rotolare per la china è la nostra stessa civiltà.
Laddove la scienza nel suo insieme vive una crisi reputazionale, di perdita di credibilità «moltiplicata dall’indebolimento della stessa idea di progresso» di matrice illuminista, la tecnologia «non si presta a essere oggetto di un’opinione: ha una fisicità, una regola interna che le permette di funzionare e può essere usata se è alla portata di tutti». Sembra essere più affidabile, «dà la rassicurante sensazione di poterla dominare» e allontana «la minaccia paventata da Günther Anders, che definiva l’uomo antiquato» perché inadatto a seguirne l’evoluzione.
Ma è solo un’illusione perché la questione urgente che pone la modernità è quella di una potenziale separazione della tecnica dall’umano, essendo quest’ultimo sempre più «emarginato dallo stesso progresso che aveva promosso».
Come sopravvivere, quindi, in un mondo «finora a misura d’uomo, che è sul punto di divenire a misura delle macchine?» La tecnica che ha permesso l’evoluzione della specie umana sarà vanificata dall’intelligenza artificiale?
Di fronte all’angoscia e i timori di questi interrogativi, l’autore, ben lungi dal proporre soluzioni definitive, rivendica il primato del sapere: «l’affidamento alla tecnologia deve essere accompagnato dalla conoscenza», specie quella «scientifica che domini la tecnica con l’intelletto. Non solo attraverso la creatività, l’ideazione, il progetto e i processi mentali, ma con la comprensione profonda del suo condizionamento, degli effetti prevedibili e delle conseguenze che possono derivare dal suo utilizzo».
Di primo acchito ci si sente di sottoscrivere ogni singola parola della disamina di Bordoni; tuttavia, rimane il dubbio che quanto detto sia nient’altro che una nobilissima intenzione, un appello pur generoso ma fuori tempo massimo, a fronte di una crisi culturale che nella sfiducia e nella paura ha trovato le ragioni ultime della sua apparente ineluttabilità.