“Quando comincia l’Occidente?“. Questa è la domanda che si pone Alessandro Vanoli, nella premessa del saggio, L’invenzione dell’Occidente, pubblicato da Laterza.
L’idea dell’Occidente, con i suoi contenuti valoriali, si è instaurata in uno spazio geografico. Concetto spaziale concepito già nell’antichità e che si contrapponeva al suo contrario, l’Asia, altro concetto geografico. Asia abitata dai persiani, i nemici per antonomasia nell’antichità. Nella contrapposizione schmittiana amico/nemico nacque l’idea della diversità ideologica, culturale e politica dell’Oriente, «un’idea politica e morale assai mutevole, che contrappone gli europei, liberi e valorosi, ai barbari asiatici, imbelli e asserviti» (pag. 19). Oriente che successivamente per i romani ha rappresentato uno spazio relativo: in primis divenne un luogo come importatore di prodotti esotici, quali spezie, aromi, lapislazzuli, poi di seguito la sua definizione assunse un significato più ampio, quello dell’India, luogo mitico, esplorato da Alessandro Magno. Dicotomia tra Occidente e Oriente, che nell’età tardo imperiale è diventata una distinzione amministrativa per decreto da Diocleziano nel 293 d.C., con l’istituzione della tetrarchia. Ma, sottolinea Vanoli, per fare una storia dell’idea di Occidente è imprescindibile inserire anche la concezione che si ebbe dell’Oceano Atlantico, idea che cominciò a farsi strada agli albori dell’alto medioevo.
Oceano Atlantico che è stato concepito come un anello esterno, a protezione di un mondo suddiviso a “T“, che simboleggiava la parte Occidentale, l’Europa, poi l’Africa a sud e l’Asia, con al centro Gerusalemme. Occidente, secondo la terminologia geografica araba, che etimologicamente era Maghrib, come come spiega molto bene Vanoli, che deriva dalla radice di “tramonto”. Con Maghrib gli arabi identificavano, a livello geografico, il nord Africa dalla loro prospettiva concettuale e spaziale il cui centro era la Mecca. I Cristiani e i Musulmani nei secoli IX e X interagirono nello spazio del Mediterraneo e nell’Oceano, come cabotaggio delle coste africane, andando a sviluppare un’interazione di carattere economico-sociale, che produsse rapporti e mescolanze di carattere culturale. Sviluppo dei contatti e mescolanza tra le culture in cui furono determinanti lo sviluppo delle attività economiche e finanziarie, come lo sviluppo delle fiere, veri e propri hub, che crearono la diffusione dell’utilizzo della moneta e del pagamento a credito. A diffondere l’idea di Occidente contribuì la ricerca di nuove rotte più a Ovest, grazie allo sviluppo di innovazioni tecnologiche per la costruzione di imbarcazioni sempre più performanti, oltre allo sviluppo di nuove metodologie per la navigazione, come la cartografia. Grazie allo sviluppo e all’applicazione di queste tecniche, si ebbe la scoperta di nuove isole fuori le colonne d’Ercole, quali: l’Isola di Madeira, le Canarie e Capo Verde.
Connessione e interscambio che furono la prima fase della storia antropica nell’Oceano Atlantico e che fu «una precondizione necessaria per la nascita di un mondo atlantico e per l’invenzione dell’Occidente» (pag. 78). Ma per attuare tale fase, secondo Vanoli, furono fondamentali diversi fattori, quali le contingenze politiche ed economiche. Il primo di questi fu la conquista ottomana di Costantinopoli del 1453 e successivamente la volontà dell’Impero turco di diventare una talassocrazia nel Mediterraneo per il controllo dei mercati asiatici tramite diverse attività, come quelle piratesche. Tali attività influenzarono le scelte degli spagnoli, portoghesi inglesi e genovesi, oltre alle scoperte di nuove rotte verso Ovest. I viaggi di Colombo furono determinanti poi per il mutamento del corso della storia globale, come ampiamente descritto da Vanoli, che dedica a questo argomento una esaustiva sintesi nel IV capitolo, intitolato per l’appunto, L’Invenzione dell’Occidente, richiamato nel titolo del saggio.
Proprio la scoperta di nuove rotte di navigazione verso Ovest determinerà una serie di trattati tra la Spagna e il Portogallo per la spartizione delle terre nuove terre scoperte: come il Trattato di Tordesillas, stipulato tra le i due regni marinari, sotto l’egida del papa Alessandro VI nel 1493. Ma nei successivi accordi, in modo particolare quello che vide la partecipazione delle due delegazioni spagnole e portoghesi del 1524, la spartizione del Nuovo Mondo fu dibattuta sotto l’egida di geografi e cartografi, trattativa che si concluse, dopo estenuanti discussioni, solamente nel 1529, con la stipula del Trattato di Saragozza cui la decisione fondamentale fu la redazione di una carta geografica disegnata secondo criteri di precisione scientifica per il calcolo delle distanze. Proprio le carte geografiche avrebbero assunto «un valore di documento legalmente vincolante in grado di confermare un accordo politico durevole» ( pag. 188).
In quel frangente si ebbe una spinta colonizzatrice nelle terre dell’Atlantico da parte dei membri della piccola nobiltà spagnola. Membri di quella élite che spesso erano squattrinati, avventurieri, che cercarono un riscatto economico e sociale nel nuovo mondo. Avventurieri che portavano con sé però, tecniche militari, economiche, e credenze religiose dal loro continente. Anche la stampa, con la sua invenzione, fu uno strumento che diede forma all’idea di Occidente, come contenitore di costumi e idee. Ciò grazie alla pubblicazione di un nuovo genere, la letteratura da viaggio, come gli scritti di Giovanni Battista Ramusio, con i libri intitolati Navigazioni e viaggi, pubblicati tra il 1550 e il 1559. Tale genere descriveva le nuove zone del mondo scoperto: America, estremo e Medio Oriente. Concetto di Europa che dal XVI secolo iniziò de facto, a guardare oltre il Mediterraneo ed esportare il bagaglio concettuale verso l’Atlantico. Venne attuata un’ideologia della Translatio imperii, estrapolate dalla filosofia della storia teorizzata da Ottone di Frisinga nel XII secolo, passaggio ideologico dal vecchio al nuovo mondo, concetto dello sviluppo della storia che venne in parte ripreso da Hegel nelle sue famose lezioni di Filosofia della storia a Berlino, nel semestre fra il 1822 e il 1823.
Lo spostamento concettuale sempre più verso Ovest non fu solamente una metafora di carattere ideologico e culturale, ma anche fisico, perché le idee, in fin dei conti, si muovono sulle gambe delle persone fisiche, come ne testimoniava la volontà politica del presidente americano James Madison (1809-1817) di spostare i confini sempre più a Ovest, oltre gli Appalachi. La spinta verso Ovest era da impostare su motivazioni ideologiche di carattere religioso, oltre alle questioni economiche e politiche. Religione cristiana, nelle sue confessione riformata, che spingeva il popolo di Dio, sulla base del libro dell’Esodo, verso la marcia del deserto del popolo eletto, per l’incontro con Dio. Proprio il cammino verso Dio era rappresentato in direzione occidentale. Su quelle basi ideologiche, nacque il concetto pubblicistico del “destino manifesto“, lemma postulato dal giornalista John O’Sullivan, nel 1845, per giustificare l’appropriazione degli Stati Uniti di sempre nuovi territori, sia verso sud che verso ovest, dopo la guerra con il Messico che vide gli stessi Usa appropriarsi di nuovi territori, quali California e Nuovo Messico.
Ma a livello storiografico, fu lo storico Frederick Jackson Turner, per quanto di dubbio carattere metodologico, a giustificare l’espansionismo verso Ovest dagli Usa, con il saggio, Il significato della frontiera nella storia americana, in cui gli stati Uniti avevano l’appoggio morale e intellettuale di spostare i propri confini sempre più a Ovest, per far nascere un uomo occidentale con i propri connotati culturali: «Nasce con lui un prodotto nuovo e genuino: l’Americano» ( pag. 181).
Gli Stati Uniti si sono presi carico del bagaglio culturale europeo dell’Occidente grazie a diversi fattori: crescita demografica, crescita tecnologica e un’imponente industrializzazione avvenute a fine Ottocento. A cui poi si sono susseguiti altri fattori esterni, come il doppio conflitto bellico in Europa, risolti a vantaggio di Washington. Proprio questi fattori hanno avuto l’effetto di creare la cosiddetta American way. Translatio imperii dall’Europa agli Stati Uniti, codificata con il corso accademico presso la Columbia University nel 1919, denominato Western Civilisation. Gli insegnamenti impartiti riguardavano la metodologia di storia globale dove gli Stati Uniti venivano rappresentati come gli eredi della cultura europea moderna. Un’ulteriore prova di tale appannaggio, a livello accademico e intellettuale, avvenne nel 1949 in occasione del congresso dell’American Historical Association in cui il relatore principale, George Mosse, definì il coevo periodo storico statunitense come portatrice della «civiltà occidentale».
Definendo la parabola degli Stati Uniti, Vanoli si chiede se ormai non sia giunto il momento per dedurre che l’egemonia statunitense, come portatrice di valori culturali occidentali, stia volgendo al termine. Sempre secondo l’autore, questi elementi possono essere schematicamente definiti in due punti: il primo è che il mondo è oramai altamente interconnesso, sinonimo di globalizzazione, e ne consegue che gli Stati Uniti non hanno più i mezzi per dettare le loro policy economiche e politiche culturali; il secondo fattore non riguarda tanto il declino culturale e militare degli Stati Uniti come perdita di leadership, bensì l’ascesa di altre potenze. Conclude Vanoli, nelle ultime pagine del saggio, che i conflitti attuali stanno ridisegnando tutte le strategie globali. La stessa idea di globalizzazione, come scomparsa fisica e ideologica delle frontiere, è stata spazzata via. Ma se fino ad oggi l’Occidente è stato il vincitore e allo stesso tempo il violento conquistatore, può essere giunto il momento che la storia e la geografia si evolva verso altre civiltà e nuovi valori.