“Senza se e senza ma”, è diventata ormai un’espressione bandiera. Bandiera del nostro impoverito panorama lessicale, penalizzato per giunta da una correttezza politica colpevole tra l’altro anche di aver messo fuori gioco quel “ci puoi scommettere il culo” che del “senza se e senza ma” può considerarsi ormai un povero antenato, plebeo, per giunta.
Ignoro, anzi, dubito fortemente che per Nanni Moretti sia stato questo il punto di (ri)partenza, dopo quel “Tre piani” che solo con una forte dose di compiacenza critica si può definire “un non brillantissimo esito” (Mereghetti, Corriere della sera). Eppure è da lì, da quell’abusato modo di dire (e quindi di pensare) che il suo nuovo film sembra prendere forma. Rovesciandone – morettianamente, ca va sans dire – il senso. Sì, perché questo “Sol dell’avvenire” è proprio con i “se” e i “ma” che è costruito. I “se” sono quelli – oggettivi – dei fatti storici, di quella Storia che uno studioso “del se” come il francese Marrou ci aveva già insegnato a vedere “come l’incontro, il rapporto tra due piani di umanità: il passato vissuto dagli uomini di un tempo e il presente in cui si sviluppa tutto uno sforzo inteso a rievocare questo passato perché ne tragga profitto l’uomo”. Nella fattispecie cinematografica, il se del passato è quello relativo all’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici nel 1956, ovvero l’evento capace di creare nel mondo comunista uno scangeo paragonabile a quello del patto Ribbentrop-Molotov del 1939, e in particolare ai suoi riflessi in casa nostra: se il PCI non avesse sostenuto quella brutale repressione segnando l’inizio di una crisi morale prima ancora che ideologica di lunga gittata, minando alla base le tante promesse della sinistra su un avvenire che in tanti sognavano solatìo, le cose sarebbero andate diversamente? Attraverso gli imbarazzi e i dubbi della coppia Silvio Orlando-Barbora Bobulova – lui molto più ortodosso e bloccato di lei – è questa la domanda “avveniristica” che Moretti, come pone, con corollario incorporato: la nostra coscienza, i nostri sentimenti sarebbero stati migliori, e forse, ricordando un suo celebre quanto inascoltato invito, la sinistra avrebbe detto (e fatto) più “cose di sinistra”…
Quanto ai “ma”, beh, quelli sono quanto di più soggettivo ci possa essere, sono le idiosincrasie simpaticamente proverbiali o forse meglio proverbialmente simpatiche che hanno fatto la fortuna di un autore abituato – forse anche suo malgrado – a vedere i suoi film recensiti e commentati più per quello che si sente che per quello che si vede, più per le parole che per le immagini, cioè. Sono i famosi “ma” diventati subito il marchio di fabbrica di un regista che fin dal suo esordio “autarchico” ci ha allenati a una pratica della dissonanza alle volte perfino isterica, spesso divertente e comunque sempre salutare, a un pensiero critico che sulla scia del controcorrentismo a tutti i costi teorizzato negli anni Settanta da Franco Berardi detto Bifo è sempre rimasto ostentatamente arroccato – lo diceva lui stesso col casco in testa appena sceso dalla Vespa in “Caro diario”- su una logica di orgogliosa e compiaciuta minoranza, contro ogni “maggioranza”…
Il film ambientato nel 1956 in un quartiere popolare di Roma come il Quarticciolo che ha per protagonisti, oltre alla coppia Orlando-Bobulova e il circo ungherese che si chiama Budavàri, proprio come l’asso della pallanuoto che in “Palombella rossa” recitava nella parte di se stesso. E poi lui -naturalmente – lui, Nanni Moretti che ha sì dismesso i panni di Michele Apicella (ora si chiama Giovanni), ma è sempre il regista che da “Il caimano” in poi ha fatto ossigenare il suo io, mettendolo più a contatto con le cose e con le idee, amplificando però allo stesso tempo se possibile la lontananza da una contemporaneità inesorabilmente globalizzata e massificata, incarnata in questi ultimi anni dalla moda delle serie tv e da Netflix. “Siamo visti in 190 Paesi” è non per nulla lo slogan sbattutogli sul muso in continuazione in un incontro dall’esito fallimentare, utile solo a fargli capire che nel suo film, il momento “what the fuck” (la svolta a sorpresa) non c’è, e che forse sarebbe meglio che ci fosse.
Sono questi i due piani principali de “Il sol dell’avvenire”, film che è fin troppo facile indicare come il più “felliniano” di Moretti. Per l’inizio e la fine, ovviamente: il primo ripreso da l’“Intervista”, la seconda da “8 e mezzo” con la passerella finale in via dei Fori imperiali tramutata in una marcia affettivamente trionfale che sa tanto di omaggio ai suoi attori, a se stesso ma anche in qualche modo al suo pubblico, con quel saluto conclusivo in camera che tanto ricorda la strizzatina d’occhio di Barbara Harris in “Complotto di famiglia”, l’ultimo film di Alfred Hitchcock. Ma non solo: c’è perfino la citazione diretta de “La dolce vita”, con gli sguardi languidi e abbandonati tra Mastroianni e l’allora giovanissima Valeria Ciangottini, che lo spettatore potrà poi ritrovare nell’elefantiaco (in tutti i sensi) finale collettivo.
Dico piani principali perché, a parte le solite quanto assurde preveggenze morettiane (dopo Berlusconi e il papa, qui c’è l’invasione decisa da Mosca e perfino l’orso in Trentino, per tacere delle pitture notturne sulle spallette del Tevere, a marcare fin da subito un certo spirito antagonista) non sono gli unici del film. Ce ne sono infatti altri due (con superattico annesso, addirittura, una sorta di sentimentale e privatissima superfetazione), più che sufficienti a superare quel fatidico “tre” destinato a restare nella filmografia di Moretti prima ancora che un infortunio, una sorta di enigma. Piani tutti cinematografici, sui quali Moretti volteggia (“il cinema è come il lavoro dei trapezisti, non si sa mai cosa succederà” dice del resto lui stesso). Due piani, due idee, due sogni (e mezzo) di film: uno sulla storia tutta in positivo della famiglia italiana, scandito da una nostalgia in forma di canzoni (da Noemi a Tenco, da De André a Battiato), con coppia collegata di giovani alle prese con intimi imbarazzi (o meglio, in imbarazzo è lui, alter ego in qualche modo del Nanni che fu); l’altro tratto dal “Nuotatore” di John Cheever, appena accennato in un più che improbabile dialogo in piscina ma decisivo per capire quel che “Il sol dell’avvenire” al suo fondo è davvero: “un film sul tempo”. “Non sullo spazio, sul tempo”.
Un tempo che passa, fisicamente, brutalmente significato dall’amore della figlia per l’anziano Jerzy Stuhr; dal rapporto mal consumato con la moglie Margherita Buy, in fuga perché provata da un rapporto coniugale troppo “faticoso”; dal buffo psicanalista che non si preoccupa di interrompere la seduta con la stessa Buy per parlare col nipotino in affanno per un esame. Ma forse prima di tutto, visto che è di cinema che si parla, dalla distanza incolmabile sentita con un modo di fare film che non riconosce più come il suo. Ora più che mai. Perché qui il problema non sono più orrori come “Harry pioggia di sangue” o le commediole sceme tipo “Pasqualino settebellezze” che facevano venire la bava verde alla bocca; e non è nemmeno il produttore francese (Mathieu Amalric) che dopo aver condiviso con lui un giro in monopattino in una piazza Mazzini notturna simil Budapest anni Cinquanta (?!) lo molla a metà film per cause dei forza maggiore (un arresto, nel senso proprio di polizia). No, la questione è di natura morale. Sempre di più. Per farlo capire bene, il due volte regista Moretti (nella realtà e nella finzione, per lui sempre ben avvinghiate, autentici vasi comunicanti) non ci mette nulla a paralizzare per ore il set di un film di cui la moglie è produttrice, tra l’evidente sconcerto di lei (e magari, una volta assistito alla scena, la più stonata di tutto il film, anche di noi spettatori). Perché senza rendersi conto di mettersi in fuori gioco da solo e di assecondare così facendo proprio quella conformistica “maggioranza” tanto vituperata, per contestare la violenza gratuita esibita dal più giovane collega, il Moretti fustigatore non sa far altro che ricorrere al classico ma trito rapporto tra etica e estetica, molto in voga in certi salotti pseudoartistici di sinistra, quasi come il “senza se e senza ma”.
Argomento imbracciato così convintamente da convocare in aiuto, in veste di consulenti esterni, personaggi extra cinema un po’ con il più originale Beniamino Placido illo tempore. Oltre a Chiara Valerio, due anziani santoni esponenti diversamente stimati di quel mondo “progressista” di cui il programma di Fabio Fazio “Che tempo che fa” (dove Moretti non per nulla è andato subito ospite) si può dire sia l’house organ ufficiale. Renzo Piano e Corrado Augias (il primo da lontano, il secondo ospitato addirittura in loco): il prestigioso architetto non pervenuto come senatore a vita e il giornalista-scrittore-opinionista e tutto il resto disposto a tutto, perfino a scrivere, in un (inutile) articolo su “la repubblica”, di questo film in cui figura in veste di se stesso, dimostrando che saggezza ed eleganza non sono cose che arrivano in automatico con l’età…
“Tutti quanti, registi, produttori, sceneggiatori – tuona Giovanni nella sua intemerata – sono preda di un incantesimo. Un giorno vi sveglierete e piangere, rendendovi conto di ciò che avete combinato”. Non ancora soddisfatto, dopo il parere degli illustri ospiti, prova a sentire anche Martin Scorsese nei cui ultimi film non vede più violenza, fermandosi però in tempo. Meglio così, perché magari il regista di “Mean Streets e “Quei bravi ragazzi” gli avrebbe detto che proprio quelle più vecchie (e più dure) sono le sue opere migliori…
È un tempo perduto e poi indirettamente ritrovato nel quartiere Mazzini, di notte, dove, scovata a tarda sera la sua coppia-specchio da anni Settanta e messe in cantina le proprie paure, Nanni Moretti s’improvvisa suggeritore d’amore un po’ come faceva Humphrey Bogart per Woody Allen in “Provaci ancora Sam”. È un tempo che il regista Giovanni impone al suo stesso film attraverso la sua opera “revisionista”: prima cambia il titolo originale de l’Unità, quindi interrompe bruscamente il suo film, ripartito nel frattempo grazie a nuovi investitori coreani. La storia è cambiata, il partito comunista non si è allineato a Mosca, quindi il suicido previsto per il personaggio di Silvio Orlando non ha più senso (con gran dispiacere dell’attore che da sempre sognava di uccidersi su un set), così come non ha più senso la prevista restituzione della tessera del partito da parte di una delusa Bobulova. Meglio, molto meglio un improvviso e fatalmente coinvolgente balletto coi “dervisci” di Franco Battiato. “La storia è la scienza dell’infelicità degli uomini” aveva del resto affermato il surrealista Raymond Queneau…
È il tempo che Moretti anche nella “realtà” solo alla fine in qualche modo ritrova, quando alla figlia che gli chiede se sia contento del suo prossimo matrimonio, lui risponde: “Se me lo avessi chiesto un mese fa…ma ora sì, sono contento”. È il tempo ricongiunto prima ancora ritrovato. Ma forse, chissà, solo sotto forma di un’illusione degna del “Sol dell’avvenire”, visto che, come Giovanni dice nel film, “le persone non cambiano, cambiano solo nei film”. Di nostalgia, semmai, proprio come cantava Noemi (e qui lo stesso Moretti) in “Sono solo parole”: “E fingersi felici di una vita che non è come vogliamo/E poi lasciare che la nostalgia passi da sola”.