«I cannibali sono in mezzo a noi?» – è l’inquietante domanda che rimane in testa dopo aver visto l’ultimo film di Luca Guadagnino – «O è solamente fiction?». La risposta, in effetti, pare scontata essendo tratto dal romanzo scritto dalla vegana Camille De Angelis; eppure, per pura astrale coincidenza, il lungometraggio esce nelle sale negli stessi giorni in cui in Giappone muore Issei Sagawa, meglio noto come il “cannibale di Kobe”. Il giovane, da universitario a Parigi, attirò una studentessa olandese nella sua stanza per poi ucciderla e mangiarla. Il caso di antropofagia, che nel 1981 aveva sconvolto la Francia, si concluse con l’uomo, estradato e riconosciuto infermo di mente dal tribunale nipponico, rilasciato senza mai fare un solo giorno di carcere; libero di girare per le strade, di scrivere perfino un libro sulla vicenda senza mai dimostrare pentimento ma, anzi, definendo il suo orrendo crimine un “supremo atto d’amore”.
Lee e Maren ci conducono, invece, in un autentico splatter-viaggio d’amore (e morte); insomma, il “vero” romanticismo disperato e senza uscita, ma aggiornato: lucido e realista. Bones and All s’inserisce così, a suo modo, di diritto nel tipicamente americano filone del roadmovie: Maryland – Ohio – Kentucky – Missouri – Iowa – Minnesota – Nebraska. Un itinerario insolito, senza meta apparente, tra piccole cittadine tutte identiche, drugstore e fiere di paese, fino a perdersi nei grandi spazi del Midwest sulle note di Love Will Tears Us A Part e dei liminali brani composti dal duo Trent Reznor e Atticus Ross.
I giovani cannibali di Guadagnino sono “bellissimi”, diversi dalla “Gioventù Cannibale” che Ammaniti ritrasse nel celebre libro: quelli erano semplici “mostri ordinari” della sonnacchiosa provincia italiana di fine anni Novanta che, per la prima volta, gli scrittori emergenti inclusi nella raccolta – tra i quali Aldo Nove, Andrea Piketts, Daniele Luttazzi – portavano con sconcerto all’attenzione del grande pubblico. L’appellativo di “cannibali” ,infatti, finì appioppato a loro dal momento che i loro personaggi, più che veri e propri antropofagi, erano adolescenti benestanti che la noia aveva trasformato in feroci e insensibili belve.
Lee e Maren, viceversa, sembrano dei giovani di oggi trapiantati nell’America reganiana del walkman. Reietti e miserabili ma anche svegli e sensibili, sono degli autentici personaggi “tragici” in cerca d’un proprio codice morale adatto a sfuggire alla mostruosità che li perseguita fin dalla nascita.
I cannibali, d’altronde, ciclicamente ricompaiono nel Cinema, suddivisi però in due distinte macro-categorie: quelli “nativi”, originari di località sperdute e spaventose dove la loro “dieta” rappresenta la norma; e quelli che lo diventano “per scelta”, nascondendosi tra la gente civilizzata. Guadagnino, invece, crea un’inedita categoria “ereditaria” che fin dall’inizio spiazza lo spettatore, facendone per la prima volta dei protagonisti fin troppo umani; rendendoci in tal modo più disposti ad accettare i loro crimini.
Cannibal Holocaust – il cult movie del 1980 girato da Ruggero Deodato con un giovanissimo Luca Barbareschi – rientra a tutti gli effetti nel primo caso. I “mangiatori di carne umana” al centro delle pellicole dell’italianissimo genere si trovano, infatti, in esotici luoghi tropicali e isolati, territorio di agguerrite tribù amazzoniche o di feroci isolani della Nuova Guinea. Titoli come Mangiati vivi! (1980) e Cannibal Ferox (1981) entrambi di Umberto Lenzi; Ultimo Mondo Cannibale (1977) sempre di Ruggero Deodato; La Montagna del Dio Cannibale (1978) di Sergio Martino, ma anche il filone più “erotico” con Emanuelle e gli Ultimi Cannibali (1977) di Joe D’Amato e Nudo e Selvaggio (1985)di Michele Massimo Tarantini, si ambientano immancabilmente nel fitto di lussureggianti quanto impenetrabili giungle, fiumi e spiagge. Tutti b-movie memorabili più per le straordinarie musiche di autori come Riz Ortolani e Nico Fidenco – dove la bossa nova si contamina con sonorità afro-cubane e il funk e l’ambient si mescolano a sperimentazioni elettroniche – che per la trama horror.
La tesi soggiacente a tutti i film è che il cannibalismo sia ancora praticato in remoti territori mai colonizzati; luoghi dai culti mostruosi e sanguinari. D’altronde la parola spagnola “caníbal” deriva da “caríbal”, dal nome dei Caraibi e delle Piccole Antille, dove i Conquistadores scoprirono per la prima volta questa ripugnante usanza. Il filone cannibal-splatter nostrano, in realtà, sfrutta questo consolidato immaginario per portare sullo schermo un riflesso della ferocia degli Anni di Piombo, veicolando sotterraneamente il messaggio che fossero proprio i “civilizzati” – sotto forma di troupe televisive, antropologi senza scrupoli, immorali avventurieri, operai di multinazionali – ad essere i “veri mostri” delle storie, con l’immancabile innocente studentessa come testimone (e spesso anche vittima) della furia tribale scatenata in risposta a un iniziale occidentale sopruso.
Anche al tempo dei Conquistadores in Europa, comunque, l’antropofagia era purtroppo un fenomeno già noto; esito di terribili assedi, tremende carestie o, perfino all’incarcerazione come nel dantesco caso del Conte Ugolino della Gherardesca, rinchiuso coi figli a morire di stenti nella Torre della Fame. Tremendi episodi dovuti, però, ad altrettanto disperate circostanze come avvenne nel 1973 in seguito allo schianto del volo FH-227D, precipitato sulle Ande, da cui è tratto l’angosciante Alive – Sopravvissuti (1993).
Anche il più famoso e raffinato cannibale della celluloide – Hannibal the Cannibal – si rivela, infine, vittima di un trauma infantile legato proprio alla carestia nelle ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale. Nella conclusiva pellicola della serie – Hannibal Lecter: Le origini del male (2007) – il piccolo protagonista, rimasto orfano assieme alla sorellina in Lituania, cade nelle mani di uno spietato gruppo di locali collaboratori delle SS in fuga dall’Armata Rossa. Sono proprio gli ausiliari delle famigerate einsatzgruppen, stremati dalla fame, a servigli il brodo fatto con la bambina e lui, da adulto, troverà vendetta compiendo il primo atto di cannibalismo consapevole, cucinando e cibandosi di loro.
Lee e Maren, invece, non hanno mai scelto. La loro è una vera e propria “patologia”, una maledizione paragonabile a quella di un vampiro, costretto a uccidere per nutrirsi. Come belve feroci sviluppano l’olfatto, elevandolo a primo senso, mentre la carne deve essere rigorosamente cruda e fresca. Sono, a tutti gli effetti, “mostri veri” che uccidono e sbranano le loro vittime a sangue freddo, salvo poi pentirsene perché “troppo umani”. Ed è questo che li rende assolutamente attuali; testimonianza e fardello tanto di un rarissimo patrimonio genetico quanto, forse, anche dei nostri tempi.