Ci sono due fatti apparentemente marginali che emergono dalla questione Via col vento e che sembrano applicabili anche ai casi più o meno recenti di censura o di richieste di contestualizzazione dei film. I problemi sembrano riguardare da un lato il potere delle immagini e la nostra incapacità di leggerle, dall’altro l’idea che una pellicola debba farsi carico di una funzione educatrice che indirizzi lo spettatore nell’orientamento intellettuale. L’impressione è infatti che pur vivendo immersi in simboli, loghi e prodotti iconografici di tutti i tipi, ci manchino gli strumenti per comprenderli appieno. Vista in quest’ottica, la questione Via col vento non riguarderebbe tanto la dialettica censura sì/censura no, quanto il fatto che una corretta interpretazione di un film debba necessariamente passare per un cartello introduttivo ex post che lo contestualizzi.
In questo va riconosciuto senz’altro un elemento paternalistico adottato da chi detiene i diritti della pellicola, ma allo stesso tempo – e i recenti sfoghi sui monumenti lo dimostrerebbero – è probabile che di simili contestualizzazioni molti ne abbiano effettivamente bisogno. Ecco che da marginale la questione si fa invece piuttosto seria: all’origine di certi isterismi iconoclasti andrebbe dunque collocata una paura per la forza delle immagini che non riusciamo a leggere o che riteniamo non educative, e in questa direzione andrebbero quindi interpretate le richieste di intervento censorio sulle pellicole. In pratica, mentre i social network, le smart tv, le consolle per videogiochi e le piattaforme streaming indirizzano le nostre vite di consumatori adoperando prevalentemente il registro visuale, lo spettatore dimostra un analfabetismo che si traduce ora in una furia anti-immagine, ora nella richiesta di una sua pulizia in chiave di aderenza a un contenuto che debba risultare formativo.
Ciò che osserviamo ultimamente è infatti un fenomeno che è diretta conseguenza di quanto accennato sopra. La forza delle immagini di cui parliamo è ad esempio quella che Bazin attribuisce alla pratica del culto dei morti, forza che ci fa accordare un grosso valore simbolico alle immagini dei nostri affetti o a quelle di tipo religioso. Da sempre, esse vengono adoperate in funzione di sostituzione di una presenza fisica (una foto di un caro venuto a mancare) o in quella di sublimazione di un credo (un’immagine di Cristo). Il problema emerge nel momento in cui queste immagini generano conflitto, come quando quelle di un film veicolano valori non più presenti nella sensibilità di parte del pubblico. Ciò sottintende quella funzione didattica già evocata, che pare guidare la recente produzione cinematografica e orientare i gusti degli spettatori. Incapaci di controllare i film che si sottraggono a questa logica, ne preferiamo la distruzione o evochiamo l’intervento di un arbitro che li corregga piuttosto che tentarne una corretta lettura. Tornando allora al caso di Via col vento o più in generale al complesso dell’ambito cinematografico, se abbiamo bisogno che qualcuno faccia il lavoro di contestualizzazione al posto nostro, oltre al problema del capitale che sfrutta certe mode per il proprio tornaconto forse occorrerebbe considerare anche quello della nostra incapacità a capirle; incapacità che si presta perfettamente a un simile sfruttamento.
È proprio in base a un tale sfruttamento che vanno lette certe pratiche tipiche di produttori e sceneggiatori, basti dare uno sguardo alla cura matematica con cui sono pesate presenze e stereotipi di minoranze in situazioni totalmente astratte rispetto alla complessità reale. Produttori e showrunner abbracciano così le questioni care ai progressisti ponendo lo spettatore di fronte a un ricatto che lo intrappola. Accade che sempre più pellicole e serie Tv utilizzino i principi cari a certe fasce di pubblico come una sorta di marchio qualificante: l’idea è che nel momento in cui lo show contiene uno o più rappresentanti stereotipati del maggior numero di minoranze possibili, questo diventi immune a eventuali aspre critiche sul prodotto complessivo.
Abbondano allora i remake in chiave femminista – apice della pulizia dell’immagine perché semplici fotocopie rivedute e corrette di film preesistenti – e i contenuti con presenze calcolate: un disabile, un indiano, un bianco, un nero, una lesbica e via di seguito. L’effetto è quello di una pigrizia produttiva che, per quanto ancora redditizia, rischia sempre più spesso di farsi parodia di sé, oltre che di cominciare a irritare in primis gli appartenenti a quelle stesse categorie. Il principio applicato sul film di Fleming genererebbe di conseguenza – per quanto non lo si ritenga fattibile – una catena di interventi riparatori su pellicole essenziali per lo sviluppo del cinema come linguaggio.
Che fare, ad esempio, del cosiddetto last minute rescue introdotto da Griffith? Il suo Nascita di una nazione (1915) vedeva alcuni membri del Ku Klux Klan portare in salvo degli innocenti in pericolo. Un simile espediente narrativo aveva portato per la prima volta allo sviluppo di un senso di continuità nel montaggio, dato dalle inquadrature alternate di chi correva in soccorso e di chi era in pericolo, il tutto collocato in un contesto di razzismo e puritanesimo irricevibile già a pochi anni di distanza dall’uscita del film, dunque immediatamente squalificato dalla funzione educativa di cui sopra.
La questione riguarda sì un certo analfabetismo visuale e una tendenza alla visione didattica del film, ma deve quindi necessariamente fare i conti anche col problema dello sfruttamento del mercato. Chi detiene i diritti di un film può scegliere di tagliarlo e cucirlo come meglio desidera in base ai propri interessi, e questo ci pare un problema di non poco conto, dato che nel momento in cui si afferma la pratica della correzione delle scene inopportune, qualcuno si farà automaticamente carico di arbitrare sulla loro adeguatezza. Non si tratterebbe soltanto di un controllo sul mostrabile (quindi sull’immaginario di generazioni intere, come il codice Hays ha già fatto) quanto sul modificabile di un patrimonio esistente.
Nel caso specifico, è stato il canale HBO a ritirare temporaneamente Via col vento dal proprio catalogo, cioè un canale cosiddetto premium cable, dunque piuttosto costoso e caratterizzato da contenuti di qualità di scrittura e regia spesso elevata. Il suo fruitore medio è in genere un consumatore piuttosto benestante attento alla confezionamento di ciò che guarda. Nell’attuale clima statunitense HBO ha allora optato per la mossa più logica: dal momento che da mesi alcuni professionisti dell’intrattenimento avevano fatto notare via twitter la “pericolosità” dei messaggi veicolati dal film, il canale ha approfittato della situazione per posizionarsi rispetto al proprio spettatore modello. Nessuna presa di posizione politica o didattica, si tratta di pura strategia aziendale. In questo senso non sorprende la risposta di Amazon, che ha rimosso il telefilm Hazzard, mentre Netflix ha lanciato la categoria Black lives matter all’interno del proprio catalogo, proprio come quella natalizia sotto le feste o quella celebrativa di un’attrice o un attore sulla cresta dell’onda. D’altra parte l’industria del cinema produce da sempre in base al modello dei generi, utile per indirizzare lo spettatore, ridurre i rischi e cavalcare certi repertori di immagini e di simboli. Il pericolo è che la concorrenza si sposti proprio su questo livello, originando una gara alla censura nel tentativo di intercettare al meglio lo spirito del periodo.
Di certo non aiutano a risolvere il problema i tifosi di entrambe le parti. Da un lato abbiamo un manipolo di ragazzotti che vive di immagini ma è talmente incapace di leggerle da volerle distruggere o, al contrario, da volerle ripulire modificando la storia; dall’altra una maggioranza silenziosa che sembra non voler affrontare il problema della sbagliata concezione didattica di un prodotto di intrattenimento, preferendo evocare la vaga categoria del politicamente corretto. I primi finiscono ad esempio per rifiutare qualsiasi contenuto intorno alle minoranze che non sia stato realizzato da un regista appartenente a una di quelle (come mettere in dubbio il lavoro di uno storico che non abbia mai preso parte a una battaglia con spade o cannoni); i secondi continuano da anni a indicare l’effetto anziché la causa, non comprendendo che i produttori di cinema e Tv non fanno altro che adattarsi ai gusti dei loro consumatori di riferimento.
Affrontare il problema del politicamente corretto nell’intrattenimento dovrebbe allora comportare una riflessione – prima ancora che sul mercato – sulla nostra capacità di fruire i contenuti e sull’idea folle del film come strumento educativo. Per quello ci sono i libri, i documentari, i reportage e le ricostruzioni storiche, giacché l’idea di un cinema dipendente dai messaggi che veicola ne contraddirebbe la natura e ne limiterebbe le possibilità. Credevamo di aver superato questa fase all’incirca nel 1900, quando dottori e sociologi producevano discorsi intorno agli effetti negativi di un consumo eccessivo di film diseducativi, e invece ecco che chi evoca troppo spesso i fantasmi del Medioevo finisce per costruirne uno nuovo senza nemmeno accorgersene.