OGGETTO: Apocalisse Carpenter
DATA: 07 Gennaio 2021
Con tre film John Carpenter ha messo in crisi il nostro modo di intendere la realtà. Piccolo discorso intorno a “La Cosa”, “Il Signore del Male”, “Il Seme della Follia”
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Io sono l’Impero alla fine della decadenza… Così scriveva Verlaine nel suo Languore, traducendo il proprio stato d’animo in un lirismo decadente, in forma plurale, collettiva. E se fossimo davvero di fronte alla nostra decadenza, all’Apocalisse definitiva, alla rivelazione totale? È questo che deve essersi chiesto John Carpenter prima di girare tre dei suoi più alti capolavori, decidendo di prendere l’Uomo e metterlo di fronte alla macchina da presa, denudato, spogliato, privo di certezze sociali e religiose; senza nessun appiglio, nemmeno quello che lo separa dalla pazzia e dall’ignoto, quell’ultimo barlume di speranza: la realtà. Tre perle rarissime, che valgono un’intera carriera, inglobate dallo stesso regista in quella che definisce “Trilogia dell’Apocalisse”, e comprende La Cosa (1982), Il Signore del Male (1987) e Il Seme della Follia (1994). Tre angoli da cui osservare l’essere umano da altrettante prospettive e decidere di porlo su un piedistallo per studiarlo meglio, analizzandolo con cura e precisione, senza nessun tipo di pregiudizio o preliminare assoluzione ma anzi con scientifica e totale imparzialità.

Si parte con La Cosa, primo lungometraggio carpenteriano ad alto budget, che vede il cineasta americano riportare sullo schermo, dopo il tentativo del duo Niby/Hawks del 1951, l’opera fantascientifica “Who Goes There?” del 1938 di John Wood Campbell Jr, di cui Carpenter mantiene la struttura principale. Dodici scienziati o più precisamente dodici uomini del U.S Outpost 31, dispersi nel nulla più assoluto del Polo Sud, chiamati a fronteggiare da soli una figura aliena dalle sembianze multiformi, in grado di ricreare fedelmente qualsivoglia essere vivente con cui entra in contatto. L’ultimo baluardo tra il mondo e la conquista aliena, viene visto dal regista come un microcosmo pieno di diffidenza e terrore verso il prossimo, incapace di collaborare e sostenersi pur di fronte ad un nemico comune. Paranoia, orrore, egoismo, paura non danno scampo a nessuno, ed è questo il tratto più orrorifico donatoci da Carpenter durante l’intero film. Certo, l’opera si dimostra un capostipite del cosiddetto body horror, in cui le varie mutazioni del corpo la fanno da padrone grazie agli effetti splendidi di Rob Bottin, ma quel che rimane e che più ci spaventa è la vera mancanza di umanità, di ingegno, di solidarietà dei membri della spedizione nei confronti dei loro stessi compagni. Il finale è un trattato di nichilismo e di sospetto, frutto della genialità del regista che pone in maniera a dir poco lungimirante, un bianco e un nero, uno di fronte all’altro incapaci di fidarsi vicendevolmente mentre tutto intorno a loro va letteralmente a fuoco. All’interno di questo ritratto marcio e decadente dell’America ma più in generale del mondo in realtà c’è anche molto altro naturalmente: echi lovecraftiani, Hawks, Campbell,certamente,  ma soprattutto lo stesso Carpenter che riprende l’isolamento e l’assedio di un piccolo gruppo di persone così come aveva fatto già in Distretto 13- Le brigate della morte e in The Fog.

Inizia qui inoltre a dissiparsi quell’oggettività concreta a cui ci eravamo sempre aggrappati come ultima fortezza in cui ergerci contro l’ignoto e la dissoluzione. Il palesarsi della figura aliena pone l’uomo in uno stato di indeterminatezza, privandolo di quelle certezze che aveva da secoli avvalorato tramite religione e presunzione. Religione e scienza appunto, elementi principali che caratterizzano il secondo capitolo della trilogia dell’Apocalisse, Il Signore del Male, che vengono analizzati dal cineasta attraverso una completa abiura dogmatica. Passano solo cinque anni tra un film e l’altro ma sembrano secoli. Carpenter, ormai ripudiato dalle major per i suoi insuccessi al botteghino, torna a girare con case di produzione minori e budget ridotti che gli garantiscono maggiore libertà creativa e uno spettro d’azione più ampio grazie al quale può finalmente cimentarsi anche con la messa in scena e la scrittura le cui basi e spiegazioni fisico/scientifiche farebbero a dir poco storcere il naso ai grandi finanziatori cinematografici. Ormai completamente immerso nella sua passione per la fisica quantistica, il regista americano decide che è tempo di dare alla luce quello che è probabilmente, insieme al Seme della Follia, il suo lungometraggio più intricato e concettualmente ricco.

L’opera prende avvio dalla morte ambigua di un sacerdote che si scoprirà essere, dalle parole del suo successore, Padre Loomis, l’ultimo membro della cosiddetta Confraternita del Sonno, una setta millenaria oscura persino al Vaticano che da secoli mantiene un terribile segreto riguardante la presenza di un cilindro contenete una sostanza di colore verde situato nei sotterranei della chiesa Saint Godard’s. Dopo tale scoperta il prete decide di contattare un professore di fisica, Birack, per studiarne il contenuto, il quale con l’aiuto dei suoi giovani laureandi si rende disponibile, insieme ad alcuni microbiologi e a una traduttrice di lingue antiche, Lisa, chiamata a trascrive l’antico libro che racconta la vera storia dietro a tale scoperta. Ancora una volta non è lo strato superficiale del film a generare paura ma i concetti e le teorie che gli stanno dietro, che vedono l’uomo immerso in un universo che pensava di conoscere, le cui verità gli sono però totalmente oscure.

Il liquido verde si dimostrerà essere il Male, l’Anticristo, un Anti-dio parassitario in cerca di un ospite per riportare in vita il padre. Gli assunti religiosi su cui basavamo la nostra realtà e il nostro credo vengono spazzati via. Cristo infatti viene considerato un alieno lontano dal nostro mondo e la Chiesa una setta che per anni ha tenuto l’umanità in questo oscuro segreto. I legami con Lovecraft si fanno stavolta più concreti, basti pensare all’incipit ne Il Richiamo di Cthulhu per capire come lo scrittore di Providence abbia influenzato Carpenter nella scrittura della sua opera. Entrambi infatti credono o perlomeno sostengono come nuove scoperte ci riveleranno l’insensatezza del nostro pensiero comune a favore di ignote realtà che a seconda di come saranno assorbite potranno farci cadere nell’assoluto oblio o rinascere in una nuova luce. Ne Il Signore del Male l’apocalisse sembra ormai giunta; tutti i presenti nei dintorni della chiesa di Saint Godard’s fanno infatti lo stesso identico sogno premonitore in cui si invita a cambiare il presente e il futuro in una linea temporale che dal 1999 ci manda segnali di sconfitta. In tale storia però, a differenza de La Cosa, sembra esserci uno spiraglio di luce nel sacrificio di Catherine che tuffandosi nello specchio/portale riporta il male nella sua dimensione, lontano da noi. Tutto finito? Nemmeno per sogno. Anche stavolta è il finale riservatoci da Carpenter a generare gli ultimi estremi dubbi sul futuro dell’umanità.  Brian, il ragazzo di Catherine, scampato alla carneficina nei sotterranei della chiesa di Saint Gordard’s, ha un incubo in cui la sogna nelle sembianze dell’Anticristo, si sveglia, si avvicina allo specchio con un dito. Sempre più vicino. Appena sta per toccarlo per verificare se il portale è aperto: stacco. Fine. Nulla più, solo noi e i nostri dubbi, i nostri incubi.

Pensate di entrare al cinema, sedervi al vostro posto, magari con in mano un bel pacco di pop-corn e una bibita ghiacciata. Buio in sala. Si parte. E il film è su di voi. Siete voi i protagonisti. Cosa pensereste? Certamente ad uno scherzo, ma se fosse davvero così? Un misto di terrore, sconforto, un pizzico di straniamento e poi una risata, tanto siamo tutti pazzi. È quello che deve aver pensato John Trent nel rivedersi sullo schermo nel finale de Il Seme della Follia, ultimo capitolo della trilogia dell’Apocalisse di Carpenter. Partiamo da qui, perché ancora una volta è la potenza del finale a rendere memorabile un film letteralmente geniale che analizza il cinema, la vita, la scrittura e, scusate la ripetizione, la realtà. Partorito dalla penna acutissima di Michael De Luca ma fatto nascere dalla creatività di John Carpenter, questo è il film del regista americano che tutti dovrebbero vedere e che dovrebbero, senza esagerare, studiare. La trama si svolge nel racconto di John Trent stesso, investigatore per una compagnia di assicurazioni ormai rinchiuso in manicomio, attraverso un lungo flashback, le proprie disavventure alla ricerca dello scrittore più famoso del mondo, Sutter Cane, autore di romanzi dell’orrore, scomparso lasciando la sua casa editrice priva del suo ultimo capolavoro: In The Mouth of Madness. Le ricerche portano l’investigatore a Hobb’s End un luogo dove tutte le oscenità raccontate dalla penna di Cane esistono e in cui il protagonista del manoscritto disperso diventa proprio lui, Trent. La realtà viene letteralmente creata al momento dalla fantasia di Cane, e chiunque legga i suoi scritti viene inghiottito in una spirale di follia. Verità, finzione, orrore chi più ne ha più ne metta. Il Seme della Follia è molto di più. È un postulato di come si crea arte, un trattato metaletterario e metacinematografico. Qua l’apocalisse è in atto, il mondo con le storie di Cane si sta disintegrando e l’unico rifugio dell’uomo è davvero nella pazzia come viene detto durante il film. Chi ha deciso cosa è reale e cosa no? Tanto in ogni caso noi non abbiamo più il controllo sulle nostre vite, siamo pedine all’interno di un gioco che non ci appartiene, che non possiamo controllare, fantocci alla stregua di un burattinaio più grande. Nemmeno Trent, l’uomo raziocinante per eccellenza, che per lavoro scova truffe, legato inesorabilmente alla concretezza, al tangibile, all’ora e adesso; nemmeno lui riesce ad uscire da un loop continuo che porta inevitabilmente al fallimento, perché ormai la verità non esiste, ormai siamo i personaggi di un libro, di un film di altri e questo deve bastarci.

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